E-pub: adelante con juicio

di Maria Cecilia Averame

Parlare di e-book in Italia risulta quasi pericoloso: fra infervorati sostenitori che preconizzano la scomparsa della carta stampata e detrattori convinti che il digitale causerà l’ennesima vendita al ribasso del sistema cultura. Trovare i numeri per comprendere le reali dimensioni del fenomeno non è immediato. E quando anche li si ha in mano, la loro analisi non è scontata.

Facciamo un passo indietro. Salone del Libro di Torino, 2010. Di e-book tra gli stand ce ne sono pochissimi o niente, ma tra addetti ai lavori se ne parla molto: si snocciolano gli incredibili risultati conseguiti da Amazon in Usa, viene presentata una piattaforma tutta italiana a opera di Simplicissimus Book Farm (dove si potranno acquistare circa 350 e-book) che anticipa di qualche mese una seconda piattaforma, Bookrepublic. Anche i grandi editori entrano in campo: si preannuncia la piattaforma di Edigita – presentata ufficialmente durante la Fiera di Francoforte – che riunisce il gruppo Feltrinelli, Messaggerie-GEMS e gruppo RCS. In questi mesi anche gli store on line come Bol, IBS e Mediaworld aprono settori E-book e, last but not least, Mondadori promette l’arrivo di 1200 titoli in digitale fra cui 400 novità. Si parla dell’anno a venire come «l’anno del digitale» in Italia. Non c’è giornale di informazione senza la sua bella rubrica sul fenomeno e-book. Fuori dal coro paiono restare le sole riviste specializzate di critica letteraria.

Arriva la fatidica data di dicembre: periodo natalizio, in cui si dovrebbero accendere le micce dell’anno dell’e-book 2011. Escono lettori eReader che vogliono ripetere in Italia l’esperienza di Amazon Kindle, come Leggo di IBS e Biblet di Telecom. Ma anche questa volta le polveri sembrano bagnate. La sensazione è che manchi un elemento fondamentale: i lettori. Certo è difficile invogliare i lettori a leggere digitale quando i titoli a disposizione sono ancora così pochi.

Passa un anno. Al Salone del libro 2011 i trecentocinquanta titoli in digitale dell’anno precedente sono ora tredicimila, e si vocifera di altri ventimila disponibili per Natale 2011. Girando fra gli stand si notano i piccoli e medi editori che, magari con un cartello scritto a penna all’ultimo momento, avvertono i lettori che i loro titoli sono disponibili anche in digitale. I dati di vendita dicono che l’e-book oggi vale l’1% dell’intero mercato editoriale (a Natale si era attorno allo 0,04%). Edigita annuncia di aver venduto, nel primo semestre 2011, 100.000 e-book (a luglio Bookrepublic presenterà uno studio che conteggia in 250.000 il numero complessivo di e-book venduti in Italia nello stesso periodo), anche se i bestseller restano pochi: solo una ventina di titoli sono riusciti a superare le cinquecento copie. L’atmosfera del Salone del Libro è però turbata da un articolo di Mario Baudino su «La Stampa», che annuncia catastrofico Aiuto, mi si è sgonfiato l’e-book. Medi e grandi editori, intervistati, ammettono sconcertati di non avere ottenuto i risultati sperati dalle loro prime mosse nel digitale. L’analisi non va troppo in profondità: quello che conta sono i numeri e per adesso i numeri paiono ancora troppo bassi. Si alzano anche voci contro il pessimismo dell’articolo: sono quelle degli operatori che sul digitale hanno scommesso e che paiono muoversi più agilmente e consapevolmente nel nuovo mercato. I numeri, si protesta, sono in crescita. Non solo: i numeri potrebbero essere condizionati da una realtà ben nota agli addetti ai lavori, che potrebbe disincentivare il grande pubblico alla lettura digitale. È una realtà fatta di diversi elementi quali l’uso spropositato, soprattutto da parte dei grandi editori, dei fatidici DRM, i «blocchi» antipirateria che impediscono il passaggio di un file da un device all’altro, spesso rendendo difficile la consultazione del testo. Ma anche la politica dei prezzi, che si assestano – quando va bene – al 20% in meno rispetto al corrispondente cartaceo: percepiti ancora troppo alti. E la questione della qualità delle conversioni, ricche di refusi che fanno mostra di sé nei testi digitalizzati in fretta e furia (Il Cimitero di Praga di Umberto Eco esce in contemporanea alla novità cartacea, ma abbondano i copia-e-incolla che tralasciano gli stili; alcuni periodi risultano grossolanamente persi nella transizione). Se i numeri sono importanti, dipendono anche da una serie di sfide qualitative da affrontare nell’immediato futuro. Per l’autunno infatti Mondadori ha annunciato un patto con Amazon, il quale potrebbe rivelarsi un attore determinante per la penetrazione degli e-book in Italia: si prevede l’arrivo del Kindle, assieme al suo tablet, a combattere la supremazia dell’iPad di Apple. Prima o poi anche l’Ibook Store di Apple potrebbe iniziare a vendere i suoi titoli in Italia, e a questo punto sarebbero presenti sul campo tutti gli attori internazionali. I device ci sono, la piattaforme di distribuzione anche, gli attori internazionali capaci di dare una scrollata al mercato stanno arrivando.

Queste le «taglie» del nuovo abbigliamento digitale. Taglie che però non rispondono appieno alla domanda più importante: il digitale sta veramenteimpattando in qualche maniera l’editoria, incidendo sulla diffusione della cultura in Italia e sulle modalità di lettura quotidiana? Secondo l’analisi di BookRepublic di luglio, un primo effetto delle vendite digitali riguarda proprio gli editori indipendenti: se i titoli pubblicati in digitale da questi – secondo le loro stime – rappresentano il 25% del mercato, il 39% dei venduti presso il loro store è proprio di editori non appartenenti ai grandi marchi editoriali. Proporzioni differenti dal mercato tradizionale, che lasciano sperare in nuovi spazi vitali per le indies.

Differente infatti è anche il modello di distribuzione. È vero che la commercializzazione in rete riproduce modelli simili a quella tradizionale con diversi intermediari: piattaforme che tengono i files e li mettono a disposizione di stores dove gli e-book vengono venduti (a ogni passaggio l’editore lascia una percentuale dei suoi ricavi, in proporzione alla grandezza dell’attore). Contemporaneamente però editore e lettore si possono incontrare per la prima volta direttamente, senza intermediari, in rete. L’editore può diventare distributore ma soprattutto comunicatore di se stesso. Cambia la promozione, non più legata a media massimalisti, ma che lavora ad esempio sui network sociali. Nel momento in cui cambiano i mezzi, cambia anche il linguaggio. Quello letterario si appropria di quello digitale sviluppato in questi ultimi anni in rete e sui computer: già oggi con l’e-book si naviga negli indici e nelle note, si possono socializzare i passaggi letti, condividere le proprie annotazioni e leggere quelle degli altri, accedere a parti di «libro» che sono fuori dal libro e che si aggiornano in tempo reale, vedere video e andare a leggere le fonti di un testo citato.

Social reading, nuovi modelli di comunicazione editoriale, un nuovo ruolo per l’editore. Ma anche il rapporto con il self publishing, la presunta facilità di digitalizzare e vendere qualsiasi testo puntando sulla quantità e tralasciando la qualità, il digitale come opportunità di conservazione e consultazione: solo alcune fra le questioni che andranno analizzate non solo dagli addetti ai lavori ma anche dal mondo culturale e letterario. Sarebbe utile una critica professionale, accanto a quella spontanea dei lettori, che evidenzi la qualità dei contenuti e della loro digitalizzazione. Che apra gli e-book per osservare cosa sta cambiando lì dentro: cosa si perde e cosa invece si potrebbe guadagnare, utilizzando i nuovi strumenti di lettura e scrittura.

L’autrice è responsabile editoriale dello studio Quintadicopertina.

Pubblicato su Alfabeta2, ottobre 2011

 

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4 Commenti

  1. Nell’articolo della Averame ci sono 4 punti che mi sembrano nevralgici, perché rivelatori di un atteggiamento perlomeno ambiguo nei confronti dei libri digitalizzati. Atteggiamento che non è proprio soltanto dell’ambiente editoriale italiano, ma che i numeri riportati dall’autrice (che si riferiscono al nostro mercato librario nazionale) rendono evidente appunto per il nostro specifico.

    1. derivante da un’osservazione personale dell’autrice:
    «Al Salone del libro 2011 i trecentocinquanta titoli in digitale dell’anno precedente sono ora tredicimila, e si vocifera di altri ventimila disponibili per Natale 2011. Girando fra gli stand si notano i piccoli e medi editori che, magari con un cartello scritto a penna all’ultimo momento, avvertono i lettori che i loro titoli sono disponibili anche in digitale».

    La domanda che mi sorge spontanea, da lettore e utilizzatore quotidiano di computer è: ma non è ovvio che tutti i libri siano in formato digitale? Cioè, nella loro fase di lavorazione, i libri non sono già dei file digitali che circolano come tali avanti e indietro per la filiera editoriale – e diventano pagine stampate su carta soltanto nel momento in cui escono dalla tipografia?
    A cominciare dalla fase di invenzione da parte dell’autore, intendo… o c’è ancora qualche scrittore che crea i suoi testi scrivendo con strumenti antecedenti al computer, e li invia alle case editrici non accompagnati dal formato digitale?
    (Intendiamoci: non sto dicendo che sia un male scrivere a mano, o con la macchina per scrivere, o martellando rune nella pietra. Però se un testo entra nella fase di lavorazione che lo trasformerà in un libro pubblicato dal sistema editoriale, non dovrebbe prima essere già diventato un file digitale, vista la facilità ed economicità con cui i computer permettono lavorare sui testi?).

    2. derivante da statistiche divulgate dagli stessi operatori del mercato editoriale nostrano:
    «Edigita annuncia di aver venduto, nel primo semestre 2011, 100.000 e-book (a luglio Bookrepublic presenterà uno studio che conteggia in 250.000 il numero complessivo di e-book venduti in Italia nello stesso periodo), anche se i bestseller restano pochi: solo una ventina di titoli sono riusciti a superare le cinquecento copie».

    La struttura delle vendite in internet è nota perlomeno dal 2006, da quando cioè Chris Anderson pubblicò il suo libro dedicato alla «coda lunga» (in Italia quel libro è stato tradotto nel 2007 da Codice Edizioni) raccontando la storia dei primi tempi di Amazon. In sintesi: la libreria in internet di Amazon può contenere milioni di titoli, contrariamente a una libreria tradizionale che, per quanto gigantesca, non può che contenere soltanto migliaia di titoli. Inoltre l’offerta di titoli di Amazon è in continua crescita, a differenza dell’offerta di titoli di una libreria fisica che rimane numericamente invariata nel tempo, svuotando soltanto periodicamente gli scaffali per riempirli con una nuova infornata di titoli pubblicati più di recente.
    Un esempio può forse rendere più chiaro il meccanismo. Un lettore va in libreria e vede un libro di Stephen King. Lo compra, gli piace, e torna a cercare altri titoli dello stesso autore (che ne ha scritti una cinquantina, in carriera). Ma nella libreria tradizionale trova l’ultimo uscito, forse il penultimo, e forse una decina di altri che sono stati rieditati in formato tascabile perché sono stati best seller. Quel lettore non trova TUTTO quello che King ha pubblicato nel tempo. Su Amazon, invece, tutti quei titoli li trova. Con pochi clic del mouse entra negli archivi e può ordinare la sua copia, che gli arriverà a casa.
    La conseguenza è che nelle librerie tradizionali si fanno i soldi con il minor numero di titoli possibile, stampati ognuno nel maggior numero di copie possibile per trasformarli in best seller. Ovvero ci si concentra sui pochi titoli che stanno «in testa» e si ignorano i titoli che stanno «in coda» (cioè, per stare in Italia, ci si concentra su alcune decine di titoli che vendono qualche migliaio di copie, e si ignorano gli altri 50˙000 e più che le nostre case editrici sono capaci di pubblicare – ogni anno).
    Al contrario Amazon non dimentica nessun titolo, e fa i soldi non soltanto con i titoli della testa ma anche e soprattutto con quelli della coda, lunghissima perché piena di titoli. Se i 10 best seller di testa vendono ognuno 1 milione di copie, generano guadagni per 10 milioni; se i 6 milioni di titoli della coda (numeri fatti da Anderson) vendono ognuno 100 copie, generano guadagni per 600 milioni. Nella coda lunga c’è un business enorme, che gli editori tradizionali sono in difficoltà a individuare e quindi non riescono a sfruttare.

    La statistica di Edigita riportata dalla Averame, secondo cui soltanto una ventina di titoli hanno venduto più di 500 copie, non è affatto negativa. Conferma semplicemente quello che Anderson aveva mostrato già. Diversi anni fa.

    3. derivante da un’osservazione che non ha fatto soltanto la Averame ma anche la gran parte dei lettori (forti e deboli) italiani:
    «Anche la politica dei prezzi, che si assestano – quando va bene – al 20% in meno rispetto al corrispondente cartaceo: percepiti ancora troppo alti».

    La confezione dei testi allo scopo di trasformarli in libri ha dei costi, che sono noti e comprensibili. Stampa, distribuzione alle librerie, lavorazioni varie, magazzino. Anche i file digitali hanno dei costi fissi di produzione, quantificabili in miliardesimi di milionesimi di euro. Inoltre in internet di testi se ne trovano a miliardi di miliardi, in un processo di produzione e riproduzione continua. Non c’è paragone, non c’è giustificazione.
    Il modello di business delle case editrici è stato per molti decenni del XX secolo paragonabile a quello delle major discografiche: più copie stampo, più soldi guadagno. Era un sistema che soddisfaceva anche i musicisti, e permetteva addirittura ad alcuni di loro di scomparire letteralmente dalla scena pubblica (solo per fare un nome italiano: Mina) e continuare lo stesso a guadagnare molti soldi dalla vendita di dischi.
    Con il XXI secolo, internet e la musica digitalizzata, le major si sono trovate spiazzate perché non sono più riuscite a vendere i loro dischi. Qualsiasi fosse il prezzo di copertina, per il pubblico era sempre troppo alto.
    Ciò non ha però impedito ai musicisti di guadagnare soldi. La cui fonte non era né è più la vendita di dischi, bensì l’esibizione in concerto. Se prima un concerto o una tournée servivano a pubblicizzare un disco, oggi è il contrario: la circolazione gratuita delle canzoni serve da marketing per i concerti. E i concerti fanno il pieno di pubblico nonostante i biglietti siano costosi, e nonostante gli artisti magari non siano più al loro meglio (come i Rolling Stones in giro per il mondo a 70 anni suonati).
    Può essere che paragonare le case editrici di libri alle major discografiche, e gli scrittori ai musicisti, sia un’operazione impropria. Non è affatto detto che le case editrici di libri avranno le stesse difficoltà delle major discografiche – per quanto piangano miseria come abito mentale consolidato. E non è detto che gli scrittori siano destinati a trasformarsi in performer di qualche tipo – per quanto alcuni di essi guadagnino più da corsi di scrittura, conferenze e presentazioni pubbliche varie che dalla vendita dei propri libri.

    4. derivante da una statistica di BookRepublic riportata dalla Averame:
    «Secondo l’analisi di BookRepublic di luglio, un primo effetto delle vendite digitali riguarda proprio gli editori indipendenti: se i titoli pubblicati in digitale da questi – secondo le loro stime – rappresentano il 25% del mercato, il 39% dei venduti presso il loro store è proprio di editori non appartenenti ai grandi marchi editoriali».

    Questa considerazione mi sembra positiva. Meno dimensione industriale, più dimensione artigianale. I grossi gruppi non solo hanno l’ambizione di produrre grosse vendite, ma per la natura stessa della propria organizzazione interna si sentono costrette a produrle. Se un piccolo editore vende qualche migliaio di copie di un suo titolo, è contento. Se un grande editore non vende almeno decine di migliaia di copie, non può reggersi in piedi.
    È una riproposizione di quanto detto più sopra riguardo alla coda lunga: piccoli e medi editori, nella dimensione della coda, trovano un ecosistema adeguato allo sviluppo del proprio lavoro. I grandi editori, con la loro ricerca ossessiva ed esclusiva del best seller che stia in testa, è come se facessero un altro mestiere.

  2. Commento interessante, Guido. Sul punto 3, i costi di produzione, dissento leggermente. Il costo di realizzazione iniziale, dal file di testo ad un epub fatto con cura e fruibile, è analogo al costo di impaginazione del libro tradizionale. Non è tantissimo, è una cifra destinata a scendere, ma qualche ora a realizzare un ebook si deve pur spendere. Quindi o si comprimono sempre di più i costi, grazie anche a software che rende il compito sempre più semplice, oppure si lavora ad un livello base di qualità (solo testo, senza formati particolari, con il minimo della struttura in capitoli ed il minimo della navigazione), riservandosi eventuali edizioni più raffinate quando si saranno vendute le famose cento-trecento copie da best-seller.

  3. Grazie Guido per le tue domande, che permettono di approfondire diverse questioni. Ti rispondo per punti:

    1- I testi già pubblicati non sempre (anzi: il più delle volte raramente) sono in formato atto ad essere digitalizzato facilmente. A parte i casi in cui all’editore resta solo la copia cartacea, o le lastre della tipografia, avere anche solo il pdf dell’impaginato presuppone un lavoro di digitalizzazione per trasformarlo in un epub che per un editore tradizionale con un catalogo di anni comporta un costo e/o la necessità di competenze che fino a ieri in redazione poteva non avere. Un ebook non è un pdf, o un file di qualsiasi formato in archivio. Peraltro questa problematica apre un’altra questione, da approfondire a parte: con il naturale evolversi dei formati a disposizione come può l’editore (ma anche il lettore che ha acquistato un testo, un file in un determinato formato) essere sicuro di riuscire a mantenere il proprio libro sempre disponibile per ogni device nei formati futuri che usciranno?

    2- Concordo perfettamente, e lo confermo nella mia pratica di editore. Ma il lettore mentalmente (ed erroneamente) paragonerà le classifiche dei venduti su carta a quelli in digitale, nello stesso modo in cui, come lasciava intendere l’articolo citato ‘aiuto mi si è sgonfiato l’ebook’ dire che il digitale ha lo 0,4 del mercato viene sentita come una prestazione modesta, mentre a mio parere (che non eccedo né in entusiasmo né in disfattismo) dobbiamo aspettare almeno ancora un altro anno prima di darci alle analisi qualitative.
    Un nostro testo pubblicato a maggio 2010 sta avendo prestazioni migliori in questi mesi del 2011 che negli stessi del 2010, a conferma di quello che dici, ma devo ammettere che A) i dati di vendita sono ancora troppo limitati per parlare di un’editoria economicamente sostenibile e B) che se domani esce un nuovo formato io sarò costretta a rimettere mano su tutti i testi pubblicati per aggiornarli, con un nuovo costo (soprattutto se ho utilizzato sistemi di digitalizzazione automatici, che lasciano poco controllo sul codice).

    3- Premetto che mi auspico un abbassamento dei prezzi degli ebook (che peraltro mi pare stia avvenendo). Inizialmente si dice abbia giocato un forte ruolo il timore degli editori tradizionali che il digitale potesse ‘cannibalizzare’ il cartaceo. Detto questo, a mio parere bisogna fare delle differenziazioni fra l’editore che deve digitalizzare il catalogo pregresso e si deve confrontare con i dati di vendita attuali; un editore che pubblica una novità e può quindi cominciare a utilizzare un modello di impaginazione che sia unico per cartaceo e digitale, differenziandosi solo in fase finale (in questo caso può riuscire ad abbassare i costi), o anche un lavoro come quello di digitalizzazione di Alfabeta2 dove è stata creata una struttura autonoma, una navigazione interna, un sistema di riferimenti e di tag che devono rendere il digitale uno strumento utile per ricerche, consultazioni, archiviazioni… Dall’ultimo numero abbiamo aggiunto l’elenco delle citazioni, dai primi usiamo i correlati, gli elenchi degli articoli dei singoli autori, le tematiche affrontate, proprio perché crediamo che il valore della copia digitalizzata stia nella facilità di consultazione e archiviazione, e quindi valorizzazione nel tempo. Come dice Jan, un lavoro di questo genere, se pur può passare inosservato a un lettore occasionale, ha un costo completamente differente dalla semplice digitalizzazione di un testo ‘semplice’.

    4- Anche per me è un dato positivo, e molto, soprattutto per chi vuole scommettere su un’editoria digitale indipendente e di qualità. C’è da dire che proviene da una piattaforma all’avanguardia soprattutto per la promozione degli editori indipendenti: mi piacerebbe avere lo stesso dato riferito a Edigita per esempio, ma non sono riuscita a trovarlo. Magari perché potrebbe essere positivo anche questo? :-) Grazie, Cecilia

  4. Sempre sul prezzo degli ebook, oggi curiosavo su un libro in inglese e su Amazon.com ho notato che la versione per kindle era più cara rispetto a quella cartacea.
    Forse la versione cartacea costava meno per via di una promozione o per altri meccanismi (essendo un 800 pag forse la versione digitale era più venduta) tuttavia non capita solo in Italia che i prezzi non siano allineati.

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