Depressione

di Helena Janeczek

Sono giorni che mi vedo così. Sono la donna bruna che cerca di catturare il pianeta malefico dentro un cerchio di fildiferro per vedere se si allontana o si avvicina. Nel film di Lars von Trier, il finale sarà l’impatto apocalittico. Non qui. Qui c’è solo lo sguardo ripetuto attraverso il cerchio, lo spread che sale e scende, l’astro che non capisci se sia più lontano o più vicino. Non si chiama Melanchòlia, ma Depressione. Temo non sia casuale che gli economisti stiano ben attenti a usare il termine. Parlano di crisi, recessione, inflazione. Al minimo accenno alla Grande Depressione sembrano spaventarsi. Divenuti auruspici di meccanismi talmente fuori controllo da apparire eventi catastrofici, temono le profezie che si autoavverano.

Anche per questo siamo già in depressione. La depressione è un stato della mente collettiva che coincide con una congiuntura economica. E’ il risultato del senso di impotenza con cui ci affacciamo alle aspettative negative, memori anche solo sottopelle di quanta perdita abbiamo già subito. Mandiamo i figli a studiare in scuole sempre più fatiscenti, compilando bollettini postali per consentire l’acquisto di materiali tra i quali c’è la carta ma anche la carta igienica. Paghiamo ticket sempre più alti per le cure mediche, ma se è necessario un esame urgente, raggranelliamo i soldi per la visita privata. Nelle stazioni ferroviarie funzionano spesso solo gli schermi che trasmettono non-stop spot pubblicitari. Le città si allagano con ogni pioggia forte, i tombini non ripuliti si intasano, nel manto stradale malripezzato le pozzanghere si ingrossano a laghi che continuano ad allargare le buche.

Il lavoro è sempre più scarso, sempre meno tutelato, sempre peggio retribuito. La classe operaia, prima di quasi dissolversi, ha fatto sacrifici senza andare in paradiso. E’ stata raggiunta nel limbo quaresimale dalla classe media. I lavoratori atipici stanno sulla soglia, sempre più numerosi. Non hanno voltato le spalle agli operai della Fiat nel braccio di ferro con Marchionne, ma quando uno di loro si trova faccia a faccia con l’impiegato pubblico troppo lento o scazzato, l’insofferenza verso il tutelato brucia, tutto a vantaggio di chi divide e impera. L’umiliazione resta più indicibile del rancore in cui cerca uno sfogo, è il fondo depressivo che atomizza, che entra in casa, che intossica i rapporti più privati. Se hai uno straccio di lavoro, sai che ti tocca tenerlo caro quasi a qualunque costo. Sotto c’è lo strato nero del lavoro in nero, i clandestini che ne abbassano il costo reale, che portano voti alla Lega, perché c’è sempre chi incassa le rendite delle guerre tra poveri. Difficile resistere alle sirene depressive e alla loro capacità di incattivire, spacciando per visione esistenziale lo sguardo oscurato dal malessere subito. “Siamo soli e il mondo è cattivo”, dice alla sorella bruna in preda al panico, la bionda che trae una forza terminale dalla sua natura melancholica o saturnina .

L’esito del voto in Spagna indica che la delusione è soprattutto un problema delle sinistre governative. Lo stesso dice, a modo suo, l’altissima fiducia degli elettori del Pd nel governo Monti. Il sollievo e la speranza per la ritirata di Berlusconi sono stati, sin da subito, mescolati al desiderio di affidarsi a un’autorità, come bambini spaventati da una realtà che trascende le loro capacità di comprendere e reagire. Dare la mano a chi dovrebbe guidarli nel buio, chiudendo gli occhi. Ma insieme ad ansia e paura, agisce anche una ragione se non proprio depressiva, almeno disillusa sino al fatalismo. Se l’alternativa alla catastrofe non può che essere ingoiare la minestra austera, che almeno sia preparata da un grande chef che ha imparato la ricetta nei migliori établissment del mondo, in grado – si spera – di trattare alla pari con i colleghi dell’Hotel Frankfurter Hof e Hotel Ritz. Nulla di meglio si sarebbero aspettati da un partito che da decenni ha chiesto rinunce con la promessa che si sarebbero tradotte in crescita e dunque benefici, cosa non avveratasi in cui non spera più nessuno. L’ironia del caso italiano fa si che sia stata la destra berlusconiana a imporre, con il voto dei ceti popolari e l’appoggio di Confindustria sino al limite del baratro, il dietrofront sugli slanci liberali di sinistra. Al “meno tasse per tutti” strombazzato, corrispondeva, nella pratica, il ripristino di ogni privilegio e il “niente tasse per alcuni” molto prammatico, ovvero destinato a tutti quelli in grado di evaderle. Ma quel che sembra arrivato al capolinea in tutta Europa, è il sogno di una società dove capitalismo e socialismo, alla fine di tante lotte, avessero raggiunto un equilibrio soddisfacente per gran parte dei cittadini. Sembrava un’acquisizione così salda che non solo in Italia, inebriata dal nuovo mondo unilaterale, anche la sinistra ha creduto di potersi concedere un po’ di libertinaggio liberale. I danni del New Labour si sono sommati a quelli del thatcherismo, e persino nella Germania graziata dalle casse piene dello Stato, nessuno rivorrebbe più un Gerhard Schröder a capo del Partito Socialdemocratico. Forse anche per questo – oltre all’assenza di alternative immediate per proteggere il paese dal rischio fallimento – lo stesso Partito Democratico è stato così pronto e docile nel consegnare delega al governo Monti, malgrado sembrasse certa e addirittura prossima la vittoria elettorale. Pur consapevole che potrebbe pagare carissima la resa delle armi, ha preferito affidare all’outsourcing “tecnico” l’esecuzione della politica economica, nel momento in cui non è stata più un’opzione, ma un’imposizione ineluttabile. Ora si stanno delineando scontri interni tra correnti più liberali e più “sociali”, ma sempre in una logica binaria e autoreferenziale. Nessuna riflessione dialettica sui propri percorsi che voglia in più – pare impensabile – confrontarsi con la base elettorale o con la società. Che i dettati dell’economia abbiano esautorato la politica, pare avvenuto sia per causa che come effetto della sua incapacità di mettersi in discussione e in gioco – non solo in Italia.

Il pianeta, malgrado il nuovo governo, non resta fermo. Forse il collasso europeo è ormai inevitabile, però non ci aspetta nessuna fine ultima, solo il dover andar avanti sempre più incerti, sempre più disillusi, sempre più poveri. L’apocalisse, per le anime depresse, somiglia a una favola consolatoria, almeno nella misura in cui cerca di esorcizzare il malessere, oggettivandolo in una rappresentazione esterna – cosa di cui il film di Lars von Trier è un esempio dei più trasparenti. Non sembra casuale che, in questi anni di crisi, le narrazioni apocalittiche si siano moltiplicate sino all’inflazione: libri, film, videogiochi. L’apocalisse addomestica i demoni rendendoli feroci e grandiosi – ma soprattutto esterni. Mistifica il nostro sentirci miserabili, non importa se facendoci combattere battaglie splatter contro alieni, o abbandonandoci in un castello abitato da tre privilegiate anime in pena che attendono il bang finale. Esiste però qualcosa che la narrazione apocalittica non può permettersi. Non può mostrare alcun collegamento con la condizione storica e collettiva che la incrementa o la ingenera, con quella depressione di cui gli economisti temono di fare il nome. “Siamo soli e il mondo è cattivo”, lo dice, appunto, la stessa splendida donna che nella prima parte manda a quel paese un capo stronzo, ma prodigo di elogi e promozione. Nella favola nera cinematografica è l’eroina che si licenzia perché la depressione le rende intollerabile ogni gioco e finzione sociale, nel mondo grigio della crisi cadono in depressione i licenziati. Castelli e miserie, come diceva il poeta maledetto, simboli e archetipi che mostrano un’essenza per occultare la contingenza da cui possono sgorgare.

Ma forse gli effetti distorsivi della depressione, con il suo bisogno si esternarsi fosse anche in figure di un nero monocromo, possono riflettersi persino sulle letture della realtà che ci incombe addosso. Dal basso della nostra impotenza, la crisi appare come una trama di attori impersonali spregiudicati o almeno un meccanismo perverso quanto ferreo. Non si può fare altro che cercare di disattivarlo in toto, quindi la risposta più radicale sembra l’unica o comunque la migliore. Se c’è una ragione per la quale l’idea del default pilotato come via d’uscita non mi convince, questa risiede soprattutto nel timore che possa essere una reazione opposta e speculare, quasi “euforica”, all’aut-aut di uno scenario catastrofico non messo discussione. Non escludo che in certi casi – forse già in Grecia allo stato attuale – ci sia possa far meno male saltando dalla finestra del fallimento che continuando a mangiare la minestra della miseria. Però le visioni più o meno complottistiche dello strapotere finanziario rischiano di assolvere la corsa individuale alle scialuppe di salvataggio delle nazioni imbarcate sul Titanic, soprattutto all’interno dell’Europa monetaria. Il meccanismo va analizzato e scomposto in ogni sua componente, a cominciare da quelle che appartengono alla responsabilità della politica. Le posizioni di Merkel o Sarkozy, per dire, ma anche l’incapacità dei governi dei paesi mediterranei di contrattare uniti, acquisendo un peso maggiore sul tavolo delle trattative. Lo sforzo di ragionare in maniera differenziata pur nella situazione di pericolo e ricatto, non ha forse utilità pratica, ma esprime in sé un rifiuto dell’introiezione di una subalternità subita.

La crisi è globale e globali sono le contestazioni che si levano dal basso. Oltre agli slogan che, nella loro evidenza immediata – “siamo il 99%” – possiedono un potenziale di aggregazione contagioso, forse è anche il volto stesso dei movimenti a strappare la maschera. Traslocare nei luoghi pubblici, accamparsi come zingari nelle tende, dormire nei sacchi a pelo come barboni. Sperimentare una democrazia più diretta, intervenendo nelle assemblee con un codice di gesti che ricorda il linguaggio dei sordomuti. Intervenire, come accade in America, senza amplificazioni, lasciando che le parole dell’oratore vengano trasmesse coralmente. I movimenti, soprattutto in occidente, traducono, per necessità di cose, in corpi e pratiche lo scandalo occultato: la povertà. Si avvalgono anche di strumenti tecnologici e internet, ma questo lo fanno pure i manifestanti in Egitto o in altri paesi dove la libertà era inaccessibile e il pane lo è diventato. Anche con un’antenna sul tetto di una baracca o uno smartphone in tasca si può essere poveri – sia nel primo che nel secondo e terzo mondo. Dovunque, tuttavia, la povertà non è soltanto quella materiale. E’ tutto ciò che manca o è venuto a mancare: diritti, prospettive, rappresentanza, sponde politiche, risposte alternative complessive che appaiano già formulate e percorribili. Talvolta, a vedere e sentire gli aderenti dei movimenti, capita di sentirsi sconcertati dinnanzi all’impressione che il linguaggio della protesta debba reinventarsi a partire da una sorta di grado zero. Quella povertà è anche debolezza, certo, ma occorre vederla prima per quel che è – lo specchio non falsato di una condizione vera – prima di pensare che se ne possa uscire con scorciatoie. Inutile illudersi: tra la richiesta di una patrimoniale o di una Tobin Tax, o addirittura una riscrittura mondiale delle regole di governance finanziaria e le questioni della crisi strutturale (sostenibilità della crescita, ambiente, occupazione futura ecc.) c’è di mezzo un deserto da attraversare. Un deserto non confinato alle sole democrazie del mondo avanzato, di cui alcuni paesi come il nostro stanno sperimentando per la prima volta cosa significa essere retrocessi in prossimità di quelli meno sviluppati.
Partire da proposte concrete benché già fin troppo osteggiate, non dovrebbe essere un modo per scambiare correzioni di rotta importanti per risposte esaustive. Il percorso, se vuole essere di “democrazia reale” (o qualcosa che vi somigli), sarà lungo e tutto da costruire.

Eppure ci sono nodi e luoghi da cui conviene cominciare. L’Europa può essere un perno. Se in questo continente cominciassero a cambiare alcune regole, questo potrebbe avere un impatto assai più esteso. Probabilmente, causa di forza maggiore, i summit della politica EU troveranno qualche accordo palliativo che consenta una tregua utile per guadagnare tempo. Bisognerebbe sfruttarla anche dal basso per mettere in piedi quel che finora è stato fatto troppo poco. Creare reti – avere più scambi, informazioni, coordinamento. Giustapporre un’altra politica a quella che impongono le istituzioni monetarie e i governi con il coltello dalla parte del manico. L’Europa è anche quella in cui per secoli uomini e donne hanno lottato per i loro diritti. L’Europa, ancora prima che intorno agli ideali socialisti, comunisti e anarchici si organizzassero partiti e sindacati, è stata il luogo dove si è combattuto insieme perché i singoli paesi potessero diventare nazioni autonome, pari a quella che nel nome di libertà, fraternità e uguaglianza aveva decapitato la monarchia assoluta. Oggi pare di assistere a un processo inverso. Non lasciamo che la moneta diventata immagine e somiglianza di un pianeta minaccioso la disintegri- e noi con essa.

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19 Commenti

  1. Mi sento vicina di questo brano… La malinconia, nobile, non è lo stato di anima
    dei nostri paesi: è il ritmo quotidiano di una pioggia – notizia dopo notizia- un abbandono- la noia, la tristezza di Baudelaire- ma senza poesia-

  2. Vincenzo, grazie della segnalazione. E’ evidente che “chi ha cominciato” sono altri. Però oggi le responsabilità della Germania mi sembrano sempre più palesi. Questi usciranno giusto un po’ ammaccati da un colasso della zona euro, in grado – come dice per esempio Emiliano Brancaccio – di fare shopping a buon mercato nella sponda nord del Mediterraneo. E lo sanno benissimo.

  3. Io non capisco perchè il contribuente tedesco dovrebbe pagare i debiti degli altri. L’Italia è tecnicamente fallita e Mario Monti ne è il liquidatore. Da che mondo è mondo chi ha scialacquato va al Monte dei Pegni a pignorarsi le lenzuola del corredo.
    Li vuoi i soldi per pagare medici, insegnanti e postini? e allora dammi metà Finmeccanica. Non ci vedo niente di strano, accadde la stessa identica cosa alla Fiat nel 79, quando Agnelli aprì all’ingresso di Gheddafi nel capitale azionario per un ammontare del 20%. Quando la Fiat tornò in attivo le sue azioni valevano il doppio e la Libia accettò di uscire.

    Dobbiamo fare anche noi così, e dobbiamo capire che i soldi che ci presteranno servono esclusivamente per le riforme di sviluppo (incentivi per il lavoro ai giovani, cassazione di privilegi, riforma di professioni e mestieri, rilancio del sud, ecc). Quando avremo raggiunto il pareggio di bilancio potremo riacquistare i gioielli impegnati (che poi definire tale Finmeccanica è un’ossimoro nei fatti, ma serviva giusto per l’esempio)

  4. Precisazione: non è detto che l’impegno delle lenzuola significhi che la BCE debba darci soldi (magari comprandosi i pur succosi nostri btp), può anche voler dire istituzione di una patrimoniale, che in tal senso è cosa buona e giusta.

  5. Trovo preoccupante la coloritura nazionale (quando non nazionalistica) che sta assumendo il dibattito sull’economia europea. E’ un po’ questa la grande sconfitta sia dell’idea dell’Unione – per come è stata messa in pratica sinora – sia della globalizzazione dei mercati. Altro che globalizzazione, persino nel cortile europeo tornano su reti e reticelle e muriccioli.
    Non credo proprio che in questa fase sarà possibile trovare quell’alternativa che tanti vagheggiano, tantomeno su iniziativa di qualche coreografico “drago ribelle” o indignato iphone-munito. In molti credono che il peggio sia rappresentato dall'”applicazione del neoliberismo”, che quello sia il punto d’arrivo, che quelli siano i nemici giurati. Un errore di prospettiva. Io credo che si debba invece prestare qualche attenzione alla possibilità di derive già viste, e a cui nessuno pensa, tanto sembrano improbabili…in Ungheria c’è già ora una costituzione clericofascista, ce ne siamo accorti?
    Beninteso, scrivo queste cose soprattutto per scaramanzia. Ma se l’Euro crolla sarà una catastrofe, una vera catastrofe che non finirà con l’impoverimento e la svendita di interi paesi.

    • Segnalo Emiliano Brancaccio intervistato il 17 orrobre, su Repubblica:

      Il movimento però invoca anche il “ripudio del debito”.
      Qui la questione è un po’ diversa. Contrariamente a quel che si pensa, non si tratta di una proposta utopica: la stessa storia del capitalismo è costellata di fallimenti di stati sovrani. Il problema è che bisognerebbe poi avere ben presenti le conseguenze di un simile atto.

      […] Rifiutarsi unilateralmente di pagare il debito implica poi la capacità, da parte di un paese o di un aggregato di paesi, di fare a meno dei prestiti esteri per un lungo periodo. […] Per fare a meno dei prestiti, allora, bisognerebbe pianificare una strategia di politica economica […] che persegua l’obiettivo di ridurre la dipendenza del paese dai movimenti internazionali di capitali e di merci. Si tratta chiaramente di una linea che affiderebbe di nuovo un ruolo forte allo stato nazionale, o a una comunità di stati che puntino a una politica economica più autonoma rispetto alle leggi impersonali della cosiddetta globalizzazione capitalistica. In questo scenario anche l’instabilità finanziaria che consegue a un default potrebbe essere gestita, sottoponendo la politica monetaria della banca centrale al potere degli organi elettivi, e magari nazionalizzando parte del sistema bancario. Sono queste del resto le soluzioni che in genere hanno tipicamente fatto seguito a un default sovrano.

      […] Alcuni promotori del “ripudio del debito” sono in imbarazzo di fronte a queste logiche conseguenze del loro slogan. Il motivo è che essi hanno per anni proclamato la morte degli stati nazionali, lo hanno fatto persino con più veemenza dei cosiddetti liberisti. Per questo tali esponenti del movimento oggi non appaiono in grado di trarre dalla parola d’ordine del ripudio unilaterale del debito una precisa conseguenza sul piano politico: quella del ripristino di una idea di sovranità dello stato, o di un gruppo coeso di stati, rispetto ai meccanismi del mercato globale.

  6. La consolazione in questo mondo sono i libri, le parole che se ne scappano – un nuvole che entra nella menta. Per me la sola consolazione è l’immaginazione, la capacità di trasformare un paesaggio, una città, inventare racconti che mi parlano di umanità- che mi allontanano dei numeri, della matematica, dell’economia.
    In questo mondo abbiamo bisogno di parole. Parole dell’amico, parole degli artisti, parole del vicino, parole del nomade. Ho ammirazione per chi lotta, anche se non participo alla lotta- la mia sola lotta è la decisione che ho preso: non ascoltare più le notizie, leggere, seguire chi parla della bellezza, della speranza, chi colora la vita. Abbiamo bisogno di dolcezza.

  7. Si, l’orizzonte è da paura. Temo sia troppo tardi per costruire quel che – rendendomene conto, in fondo – speravo alla fine di questo pezzo. Una risposta dal basso che attraversi i paesi europei sia ricchi che poveri. Non c’è stata per mezzo secolo altra politica comune se non quella monetaria (fatta come sappiamo) e ora lo stiamo pagando caro. Gli esiliati di Ventotene si rivolteranno nella tomba, immagino.

    Devo partire proprio per la Germania (cosa che in questo momento non mi rende allegrissima) e per questo aggiungo solo un commento scritto su Facebook. Spero di riuscire a intervenire più tardi.

    “Ho un problema con la Germania, nazione di cui ho in tasca il passaporto, che sta esplodendo come non era mai successo prima. L’ironia è che sembra davvero di assistere a un ritorno del rimosso, un po’ ripetitivo, un po’ opposto e speculare. Furono i pagamenti insostenibili delle riparazioni imposte dai vincitori della Prima Guerra Mondiale a spingere la Repubblica di Weimar nella crisi, e fu la crisi a alimentare il revanscismo degli strati popolari immiseriti, spingendoli nelle braccia di Hitler. Sembra di assistere all’inverso. La Germania sta proteggendo l’assetto stabile dello stato democratico tenendolo a riparo dai conflitti che un’economia più debole potrebbe scatenare. Ma chi, negli altri paesi europei, deve pagare un prezzo sempre più alto a tale arrocamento, comincia a prendersela con la Germania, come un secolo fa i tedeschi se la presero con i francesi e gli inglesi.”

  8. Sono preoccupato dell’evidente incapacità dei governanti europei ad approntare soluzioni all’altezza della situazione, come sono preoccupato dal modo da bar con cui la gente parla della crisi.
    Sarebbe troppo complicato spiegare come funzionano i mercati finanziari internazionali, come sia pressocchè impossibile definire chi è creditore o debitore di cosa. Forse potrebbe aiutare ricordare che la liquidità nella duplice forma di denaro e di titoli è una promessa di merci, e che quindi tecnicamente qualunque società che non pratichi più soltanto il baratto ha scelto il debito/credito come meccanismo sistematico, e non occasionale, dell’economia. Così, avere un debito, non è aver commesso una colpa, quanto piuttosto costituire uno degli ingranaggi fondamentali di funzionamento della società.
    A fronte quindi di governanti inetti, abbiamo un popolo che neanche capisce cosa sta succedendo: una situazione davvero disperata.

    @Helena
    Il difetto sta nel manico, immaginare di costruire una struttura federale partendo dalla moneta era sin dall’inzio un’idiozia conclamata, al meglio un articolo di fede.
    Oggi in più vediamo che questa valuta comune costituisce al contrario una possibile causa di contrasto interstatale con ricadute politiche incontrollabili.
    Insomma, qualunque cosa l’europa dicida di fare, che la faccia in fretta perchè la continuazione di questa situazione di divisione somiglia a quei matrimoni già finiti in cui i coniugi non hanno il coraggio di divorziare, e che a volte finiscono tragicamente.

  9. D’accordo con te – la similitudine matrimoniale è molto efficace. A proposito mi pare assai ben fatto questo articolo di Lucio Caracciolo.

    http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2011/11/26/la-maledizione-della-germania.html

    Dopodicché siamo messi sempre peggio. Sembrerebbe quasi da ripensare a un’uscita congiunta con gli altri paesi debitori, ma non si farà. Quindi resta da sperare che Monti, consapevole che i sacrifici possono essere benissimo tutti in vano e che stanno già causando recessione, cerchi almeno veramente di non andarci giù troppo pesante.

  10. Gentile Helena. ho trovato il suo articolo davvero meraviglioso, politicamente profondo e al tempo stesso dotato di un altissimo livello stilistico. Ha raccontato la crisi “letterariamente” conservando uno sguardo politico attento e profondo.
    Non le nascondo che l’articolo mi sembra quasi “perfetto”.

    ps. da un mesetto circa abbiamo lanciato una rivista che si occupa solo di Europa, se vuole farsi un giro il sito è http://www.manifestoeuropa.eu

  11. Come mai nessuno parla mai dell’Islanda? Mi pare che lì, impantanati lo stesso come noi europei in una serie di debiti con i poteri forti 8c’è sempre una Germania per tutti) si siano rifiutati in blocco di pagare. E che cosa è successo? Nessuno ce lo dice…che poi i burocrati possono governare meglio dei politici è un esperimento che il Belgio sta vivendo con un certo successo direi.

  12. Mariateresa, la situazione dell’Islanda è completamente diversa. Li’ il collasso delle banche si e’ abbattuto su una economia complessivamente sana ed uno stato abbastanza virtuoso. Il contenzioso che si e’ aperto con i governi europei (inglese e olandese in primis) per il rimborso dei correntisti delle banche islandesi negli altri paesi europei non tocca direttamente i titoli di stato islandesi.

    In Islanda comunque e’ veramente successo di tutto, con l’inflazione che ha sfiorato il 18.6% annuo a gennaio 2009 e una svalutazione del 45% della Corona sull’Euro da fine 2007 a fine 2009 (il successivo indebolimento dell’Euro ha fatto si’ che dal 2007 ad oggi la svalutazione e’ “solo” del 35% circa).

  13. Non riusciamo a essere originali neanche nella depressione …
    La depressione è un sintomo. Vediamo cosa indica. Forse che ne abbiamo giustamente piene le palle. Smettiamo di dover salvare qualcosa, idee, teorie, monete. Smettiamo di avere paura di “derive” varie ed eventuali.
    Ascoltiamo il rumore di Melancholia che si avvicina, senza paura.
    Respiriamo.
    Quando tutto crolla, quello che rimane deve per forza essere l’essenziale.

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Helena Janeczek è nata na Monaco di Baviera in una famiglia ebreo-polacca, vive in Italia da trentacinque anni. Dopo aver esordito con un libro di poesie edito da Suhrkamp, ha scelto l’italiano come lingua letteraria per opere di narrativa che spesso indagano il rapporto con la memoria storica del secolo passato. È autrice di Lezioni di tenebra (Mondadori, 1997, Guanda, 2011), Cibo (Mondadori, 2002), Le rondini di Montecassino (Guanda, 2010), che hanno vinto numerosi premi come il Premio Bagutta Opera Prima e il Premio Napoli. Co-organizza il festival letterario “SI-Scrittrici Insieme” a Somma Lombardo (VA). Il suo ultimo romanzo, La ragazza con la Leica (2017, Guanda) è stato finalista al Premio Campiello e ha vinto il Premio Bagutta e il Premio Strega 2018. Sin dalla nascita del blog, fa parte di Nazione Indiana.
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