L’insostenibile leggerezza dell’essere registi come Paolo Sorrentino

di Giuseppe Zucco

Di cosa puzzerà il male?
Di zolfo? Di inferno? Di Zyklon B?
Oppure il male ha perso odore e colore,
come tanta altra parte del mondo morale?

J. M. Coetzee

Mi ero ripromesso di non scrivere di questo film. Era già successo una volta, dopo l’ultimo di Sofia Coppola. Somewhere e This must be the place – mi ero detto allora, mi ripeto qui – non sono film, ma scatole dorate. Sciolto il nastro, sollevato il coperchio, ti restituiscono l’ennesima esperienza del vuoto, di quanto il vuoto e la mancanza di idee o la confusione di idee o l’accanimento mandibolare su idee già spolpate possano essere dispiegate in un’abbacinante superficie specchiata su cui rimirare lo sfarzo dei bagliori e nulla più.

In fondo, pensavo: di cosa avrei potuto scrivere? Di quanto la faccia di Sean Penn affissa sul retro degli autobus in complicatissima rotazione sulla tangenziale congestionata somigliasse all’eroe archetipico di Tim Burton? Di quanto la melassa del marketing colata fuori dagli stampini degli articoli giornalistici ci avesse ormai mossi a gridare al Capolavoro!, se non al Classico!, prima ancora di averlo visto davvero? Di quanto quella parola, classico, si fosse avverata, ma con esiti del tutto imprevedibili? Non è questo il classico film del regista italiano che gira la sua prima pellicola tra i fondali ultracinematografici degli U.S.A.? Il classico film con il classico viaggio del classico eroe sfigato cinico tenero che infila tutti i classici luoghi comuni di un’estradizione dorata e abbacinante su suolo americano – cioè, in ordine sparso: il motel, il deserto, il bisonte, l’indiano, la tavola calda, il canyon, il granturco, il Suv nero, il pick-up rosso, le lunghissime highway, i grattacieli, il concerto rock, i vari diversissimi loser, la potente comunità ebraica, le casette sui giardini rasati del sogno americano dentro cui brulicano signore perfettamente inamidate e i mostri innominabili del sonno della ragione?

Scrivere, allora, che l’estetica indie – la visione del mondo e dei sentimenti raggelata come un respiro nell’aria invernale – deriva dai film di Jim Jarmusch e Gus Van Sant e dei fratelli Coen, un omaggio molto vicino all’esercizio di calligrafia? Scrivere che i fantastici movimenti di macchina e gli stacchi di montaggio, questa volta, non servono ad aggiungere alcuna sostanza al film, semmai a confondere e dorare ancora di più la percezione e l’esperienza del vuoto? Scrivere che anche la colonna sonora, uno dei punti forti della filmografia di Sorrentino, è infestata da questa ansia di essere così dannatamente classico e indie e americano, al punto da non poter fare a meno delle abusatissime The Passenger di Iggy Pop e Spiegel im Spiegel di Arvo Part? Scrivere – anzi, costringersi a scrivere, scrivere con dolore e rammarico – che uno tra i migliori registi in circolazione ci ha messi così, su due piedi, per la prima volta, davanti alla perdita secca di un modo iperrealista e surreale di esperire il mondo e le piccole grandi psicopatologie della condizione umana?

Così decido di non scriverne, e mi riconsegno al supremo imbarazzo della vita quotidiana. Lavoro, docce, autobus, lavatrici, affitto, visite mediche. Poi, neanche troppo casualmente, mi capita tra le mani Elizabeth Costello, il romanzo di John Maxwell Coetzee. Sempre neanche troppo casualmente, al capitolo quattro, Il problema del male, leggo una frase incendiaria. È passato più di mezzo secolo da quando il diavolo si aggirava spavaldo per le loro strade, ma certo non possono averlo dimenticato. Adolf e le sue corti assediano ancora l’immaginario popolare, scrive J. M. Coetzee, e io non posso fare altro che pensare e ripensare al film.

Spenti uno a uno i bagliori da road movie che lo schermo irradia nei nostri occhi, This Must be the place è un film che a modo suo mette in scena qualcosa della Shoah e dell’immensa catastrofe dei campi di sterminio. Il film, infatti, fila così: Cheyenne, una rockstar cinquantenne parecchio simile al cantante dei Cure, cipria e rossetto, capelli lunghi neri spettinati gotici, parte dalla multimilionaria villa di Dublino e atterra sulla sponda americana per stringere le mani del padre e fissarlo negli occhi in punto di morte dopo anni interi di distacco lontananza rancore – ma arriva troppo tardi: arriva troppo tardi e piange e soffre e si dispera, e per colmare il senso di colpa e ricucire la ferita del fallimento sentimentale nei confronti di un’onnipresente fantasmatica autorità paterna, come il più gotico e tenero segugio, parte alla caccia di Aloise Lange, l’ufficiale nazista che anni prima, in un campo di sterminio, umiliò in modo irrimediabile suo padre, cercando vendetta.

Al principio del film, però, Cheyenne non sa niente di suo padre, né ha mai sentito parlare dei campi di sterminio. I numeri tatuati sul braccio raggrinzito sono uno tra i considerevoli segreti di suo padre che Cheyenne immagina con rammarico infinito di non sciogliere mai più. Come pretendere di entrare nella vita di qualcuno che ha appena rassegnato estreme e formali dimissioni esalando l’ultimo respiro? Cheyenne sfoglia le carte di suo padre, e in breve apprende tutto: suo padre, suo padre nel campo di sterminio, il campo di sterminio. In una delle scene più impressionanti, Cheyenne, inforcando gli occhiali da ragioniere miope sulla maschera di Robert Smith, guarda apparire sull’orizzonte di uno schermo il lutto mai estinto della Shoah, le diapositive bianconere del filo spinato, dei corpi pelleossa, delle fosse comuni dove innumerevoli corpi sono stati ammassati alla rinfusa. In pochi secondi, così, sotto la supervisione di Mordecay Levy, un cacciatore di nazisti che lo pedinerà per tutta l’avventura, Cheyenne assorbe muto i fondamentali dell’orrore e della malvagità umana.

Poi il film dirotta per i fatti suoi. Tranne pochi accenni, e l’inquietante apparizione del sosia di Hitler, in piedi, in divisa, a bordo di un camion, della Soluzione Finale non si riparla più. Almeno: non se ne riparla se non in coda alla mirabolante infilata di luoghi comuni americani. Cheyenne e Mordecay Levy spengono il pick-up rosso fiammante davanti a un prefabbricato a forma di casa. Intorno alla casa, niente, per miglia e miglia: una distesa di neve ghiacciata svuotata di ogni piccola forma vivente. Cheyenne scende, entra in casa, trova il vecchio ufficiale nazista, interroga il vecchio, sente uscire dalle labbra del vecchio smagrito e tremante la tristissima storia di umiliazione che inflisse a suo padre, una confessione in cui trovano spazio anche affermazioni tipo inesorabile bellezza della vendetta, un’intera vita dedicata a vendicare un’umiliazione, questa si chiama perseveranza, si chiama grandezza. Poi il vecchio esce di casa, esce di casa nudo, pelle e ossa, le mani racchiuse sulle intimità – un vecchio nudo e ingobbito e tremante e scalzo sulla neve ghiacciata. Mordecay Levy, seduto nel pick-up, guarda fisso – Porca troia, dice. Cheyenne, risalito a bordo del pick up, guarda il vecchio che ha costretto a spogliarsi e uscire nudo sul ghiaccio, sbuffa su una ciocca di capelli, dice Qualcosa mi ha disturbato, non so cosa esattamente, ma mi ha disturbato. Il pick-up rosso sfrigola le ruote sul ghiaccio – il film si avvia alla conclusione.

La domanda è: cosa disturba Cheyenne? O meglio: perché il protagonista di una finzione cinematografica cede alla tentazione di esprimere il proprio disappunto per essersi trovato in una spiacevole situazione? Cioè: perché Cheyenne fa quello che fa e poi esprime il proprio disappunto guardando dritto in macchina, come se il proprio destinatario non fosse un generico personaggio ma il più concreto spettatore in carne e ossa? Oppure, rigirando la domanda: il regista Paolo Sorrentino è del tutto consapevole dei retropensieri del suo protagonista? Cioè: per il regista Paolo Sorrentino la battuta messa in bocca a Cheyenne nel finale della scena è un lapsus o una pubblica richiesta di scuse? Infine: e se questa è una pubblica ammenda, di cosa si sta scusando tuttavia Paolo Sorrentino in fondo ad una delle più raccapriccianti scene del cinema italiano contemporaneo?

Ritornando alle pagine di Elizabeth Costello si scopre una cosa. La creazione artistica è lecita, ma non tutto può essere rappresentato. Alcune storie, se esposte in uno spazio pubblico, possono rendere peggiore sia chi le ha formulate sia chi le accoglie. Alcune storie, travalicando l’argine delle migliori intenzioni, possono consegnare creatore e lettore/spettatore al più sinistro dei luoghi, al buco più oscuro, lì dove regna il pianto e lo stridore di denti. Il diavolo è dappertutto sotto la pelle delle cose, e cerca il modo di venire alla luce, scrive J. M. Coetzee.

Il diavolo – ovvero, il male, nella sua forma più totalitaria e persistente – è il nazismo. In tutto e per tutto, si può intendere This must be the place come un modo molto tenero e indie di infilare il nazismo dentro i nostri schemi di comportamento o le nostre facoltà sentimentali – come se fosse una lente qualunque attraverso cui comprendere e addomesticare il mondo. Cheyenne per primo fa del nazismo una modalità di azione e una forma del sentire. Osserva le diapositive del campo di concentramento e non impara né la pietà, né la disperazione. Nelle diapositive scorge e memorizza solamente le istruzioni per infierire nel più atroce dei modi sugli esseri umani, e annientarli in corpo e spirito. Le diapositive sono l’abbecedario dell’orrore da sottolineare con cura. Non è affatto un caso se alla fine, davanti al vecchio ufficiale tedesco, la volta che deve vendicarsi, Cheyenne segue alla lettera le istruzioni. Così come è ancora più evidente il modo in cui Paolo Sorrentino, nel momento in cui deve raffigurare la vendetta, decida di attenersi rigorosamente all’iconografia del supplizio nazista che la storia ci ha costretti a conoscere: un vecchio ischeletrito, con la pelle accapponata dal freddo – un vecchio nudo e violentato e svuotato e privo di riferimenti umani e/o divini a cui appigliarsi.

Ma il problema vero non è neanche tanto questa forma di pedagogia nazista, o la leggerezza estrema con cui Paolo Sorrentino sfiora e rivivifica l’orrore, senza neanche prendere in considerazione la sacralità dei sommersi e dei salvati, ormai da anni usati come possibilità narrativa da usare a vantaggio di plot improbabili. Il problema numero uno è che questa è una storia di vendetta, che noi spettatori siamo portati a solidarizzare con il protagonista, finendo per provare una certa oscura soddisfazione quando la vendetta trova compimento. Il problema dei problemi è che saremmo anche disposti ad accettare che Paolo Sorrentino sia peggiorato come persona scrivendo e mettendo in scena un film profondamente pedagogicamente iconograficamente nazista, ma mai e poi mai saremmo disposti ad ammettere che siamo peggiorati anche noi, proprio nel momento in cui abbiamo provato soddisfazione, ritenendo la vendetta cosa buona e giusta, aderendo al millimetro allo sguardo tenero gotico nazista di un personaggio che soffia di continuo sulla parabola ricurva dei capelli e costringe un vecchio a spogliarsi e uscire nudo sulla neve ghiacciata. Ammettere che la viva intensa soddisfazione che ha percorso l’intera estensione della nostra rete neuronale si è concretizzata in una forma molto privata di gioia, in un modo alternativo e prossimo di intendere la giustizia – né più né meno che se avessimo sgranato un sorriso compiaciuto davanti ai documenti, le fotografie, i filmati, le testimonianze di ciò che fu Auschwitz.

Una volta visto il film, però, il danno è fatto. Anche dopo settimane trascorse dalla visione del film, la sensazione di aver sentito e ragionato come un nazista, peggiorando integralmente come persona e spettatore, è una fitta intercostale che perdura. Se avessi saputo, ne avrei fatto volentieri a meno. Per dire: anche nel romanzo di Jonathan Littel, Le benevole, è contenuta la vita materiale e psicologica di un perfetto nazista. Nel romanzo, Maximilian Aue, ex ufficiale delle SS, parlando in prima persona, non nasconde né cela nulla, anzi tenta sistematicamente, fin dalla prima battuta – Fratelli umani, lasciate che vi racconti com’è andata – di dimostrasi vicino e simile al proprio lettore, come se il perfetto nazista fosse una parte nascosta ma viva della personalità umana, un parente strettissimo da accettare nella cerchia allargata della propria famiglia. Con questo presupposto, possiamo affrontare Le benevole: e per tutto il tempo della lettura, lottare con il suo protagonista, sfidarlo, fargli mollare la presa, costringerlo ad allontanarsi. In This must be the place, proprio per come il tema è subdolamente introdotto e sviluppato, non esiste alcuna possibilità di distacco, tantomeno di messa in prospettiva. Noi siamo costretti non solo a guardare, ma a godere dell’umiliazione di un vecchio. Siamo costretti, nostro malgrado, a calarci nel buco più nero – lì dove regna il pianto e lo stridore di denti, lì dove l’inimmaginabile numero di sommersi e salvati è riepilogato da un vecchio nudo e ischeletrito e senza difese che a sua volta ci guarda, ci guarda dritto negli occhi, e non scioglie parola.

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39 Commenti

  1. Per quanto marginalmente mi riguarda, se devo dirla tutta, non ho affatto goduto della visione, estrema e terminale, del vecchio costretto nudo nella neve. Ne ho sofferto invece e, come me, penso ne abbiano sofferto molti altri spettatori. Ho anche trovato quella scena bellissima & inaspettata, se devo dirla tutta. Accusare di nazismo (se ho capito bene) il film di Sorrentino, mi sembra un po’ una cazzata, se devo dirla tutta. Ma può essere che mi sbagli, certo.
    Poi, a dirla proprio tutta-tutta, su molte delle cose dette nella recensione, sono d’accordo.

  2. Concordo con Francesco: anch’io ho provato solo pietà per il vecchio sulla neve, e questo nazismo implicito nel film non lo vedo proprio.
    E’ una vendetta tardiva, inutile, insoddisfacente, quella di Cheyenne, e lo sa anche lui.

    Sulla carrellata di luoghi comuni del regista “provinciale” che va a fare il turista on the road negli States, invece, temo che Zucco abbia centrato il punto.

  3. d’accordissimo con Francesco e francamente “disturbato” da questa visione del pur attento Zucco. Una visione eccessivamente “cahiers du cinéma” di periferia.
    effeffe

  4. Recensione prolissa e incredibilmente sciocca.
    “Un film profondamente pedagogicamente iconograficamente nazista”?
    Ma è mai possibile, dico io, che il giovane cinéphile frustrato, “costretto” a vivere, povera stella, lavorando per Simona Ventura, debba vendicare i suoi bruciori di culo scrivendo simili fesserie? Ma un po’ di zappa, no?

  5. Penso che Sorrentino ha sbagliato quando ha scelto gli Stati Uniti per girare il film. Si è impegnato in luogo dove non ha radici, in un luogo di cinema. L’idea era bella- Scovare il segreto del padre, assumere la vendetta, scambiare i ruoli- Mi pare che Sorrentino vuole in realtà analizzare il vincolo tra figlio e padre- e ha scelto la shoah non come argomento- l’umilazione- l’orrore- ma come pretesto. E la ragione per laquale Giuseppe Zucco parla di non sacralità. Sorrentino è un grade regista, ma preferisco quando scrive dalla sua terra, quando fa scoppiare il male in personnagi che vivono nel sud , perché si sente una vicinanza, un’osservazione della realtà. penso all’Amico della famiglia forse il mio preferito), L’uomo in più …

  6. Federico, potevi risparmiarti sia la zappa che le frecce personali. Esistono modi assai più urbani per dire “questa per me è una cazzata” (vedi sopra), senza dover fare trattati critici.
    Ora io non ho visto il film di Sorrentino. Manco sapevo che contesse una spruzzatina di shoah. Non mi attirava a partire dal manifesto che mi suggeriva “sono un film di un regista europeo che cerca di incontrare l’immaginario d’autore americano”. Ma questo è un problema mio.
    Quindi non ho idea se la scena del vecchio nudo l’avrei vista come Giuseppe o come Francesco e altri.
    Dico solo – consapevole di aprire un altro discorso – che il problema della Shoah nelle rappresentazioni artistiche mi pare sempre più evidente.
    E’ diventata la materia per eccellenza di narrazioni edificanti o che cercano di appropriarsi del sublime attraverso l’orrore.
    E’ diventata una spezia per rendere più forte e appetibile (dall’acquirente/spettatore) qualsiasi tipo di narrazione.
    E’ diventata un genere che tira sempre.
    E’ diventata astorica, esseziale, emblematica – scena della sacra rappresentazione.
    Per tutte queste ragioni – è diventata kitsch. Kitsch di bassa lega o raffinato.
    E sempre per questi motivi, trovo le parole “sacro” e “sacralità” sempre problematiche quando si applicano alla Shoah, come tutto ciò (inclusa la stessa parola “Shoah”) che rendono più opaca la natura basilare di uno sterminio.

  7. Helena , è quello che ho scritto. La Shoah è diventata un pretesto, non è più memoria, testimonianza, è mescolata alla finzione. E penso che La Shoah merita una riflessione sincera, vissuta come frattura, una catastrofe che la lingua non puo sublimare, solo creare una sopravvivenza nella memoria.
    E’ terribile leggere : ” La Shoah è diventata un genere che tira bene” perché all’origine della creazione artistica, si deve riflettere alla sincerità dell’opera.
    La Shoah non è un contesto, ma dove essere il perno di una riflessione: come l’arte puo testimoniare dell’orrore, come l’arte puo ricucire una storia fatta di lembi, come l’arte puo dare identità?

  8. @ francesco pecoraro e @ simona

    allora, proprio perchè i film vanno interrogati – vagliando non solo le scene, i movimenti di macchina, il montaggio, ma anche la propria individuale posizione di spettatore – le domande sono: perchè provate pietà per il vecchio? cosa vi spinge a provare pietà per il vecchio e vi impedisce di solidarizzare con il protagonista? cosa vi porta a deviare dalla linea narrativa su cui corre il film? il modo in cui è costruita e girata e messa in scena la sequenza della vendetta ha qualche nesso con la pietà che provate?

    @ francesco forlani

    con gli sberleffi, non si ottiene nulla: se non ricevere un sberleffo che richiamerà uno sberleffo ancora. ma è una pratica umiliante, no? e un occasione persa per ragionare pubblicamente intorno a delle rappresentazioni – questo film, per esempio – che in quanto tali non sono neutre, ma ci orientano nella comprensione del mondo. così, proprio perchè questo film, secondo me, per il modo strumentale con cui tratta la shoah, mina le basi e il futuro della civiltà che ogni giorno minutamente costruiamo, ti chiedo: sei proprio sicuro che sia più “disturbante” questa recensione che non il modo in cui è stato scritto e girato e montato il film? e qualsiasi sia la tua opinione, potresti motivarla per contribuire ad una discussione che, sempre secondo me, tocca un nervo scoperto della nostra contemporaneità?

    @ federico gnech

    ne dubito: ma se dovesse mai arrivare a intendere la differenza tra un commento critico e un’invettiva, torni pure, la prego. (per la cronaca: io lavoro per la rai, non per simona ventura, o chiunque altro).

    @ veronique vergè

    hai detto bene, veronique: e poi, se proprio devo dirla tutta, sono profondamente addolorato dal modo in cui piero sorrentino è incappato in questa brutta e triste sceneggiatura. però sono convinto ch si rifarà. “l’amico di famiglia” è una delle vette cinematografiche di questi ultimi anni, e “le conseguenze dell’amore” ha un finale che definire strepitoso è poco.

    @ helena

    concordo su tuttò ciò che hai scritto: ed è davvero molto importante la piccola annotazione che hai aggiunto sul “sacro”, sulla relazione che intercorre tra il sacro e l’opacità dei fatti. credo sia una piccolissima lezione da ampliare.

  9. @Helena: accolgo senza problemi il tuo buffetto. Però ti faccio notare che Zucco ha dato del nazista a Sorrentino – anche se ‘solo’ sul piano estetico e pedagogico. Trovo grave che per sganciare la propria bombetta critica si possa scrivere un’enormità del genere. Non è forse questo un altro aspetto della sovraesposizione della Shoah a cui tu stessa fai riferimento? Detto questo, ti invito a vedere il film, che senz’altro non è il miglior Sorrentino ma merita una visione senza pregiudizi. La Shoah è la nostra Storia, non è possibile limitarne l’uso in quanto materiale narrativo. Sorrentino ha dichiarato una sua vecchia volontà di misurarsi con quel tema, e mi sembra che l’abbia fatto in modo misurato e non furbesco. Poi sul modo di utilizzare uno stereotipo di scenario americano, sul modo di fotografarlo, su Sean Penn e il suo personaggio, etc. si può discutere serenamente. Piccolo esercizio: provate a confrontare Inglorious Basterds e This must be the place.

  10. @ federico gnech

    io non ho mai scritto che sorrentino è un nazista, piuttosto che (perdona l’autocitazione) “si può intendere This must be the place come un modo molto tenero e indie di infilare il nazismo dentro i nostri schemi di comportamento o le nostre facoltà sentimentali – come se fosse una lente qualunque attraverso cui comprendere e addomesticare il mondo”, oppure “la leggerezza estrema con cui Paolo Sorrentino sfiora e rivivifica l’orrore, senza neanche prendere in considerazione la sacralità dei sommersi e dei salvati, ormai da anni usati come possibilità narrativa da usare a vantaggio di plot improbabili”.

    per quanto riguarda il film di tarantino, leggi l’ultimo paragrafo di questo piccolo saggio che avevo pubblicato sempre qui su nazione indiana:

    https://www.nazioneindiana.com/2011/06/05/machete-le-armi-spuntate-delle-finzione-pulp/

  11. Luogo comune dei luoghi comuni: il nazismo come male assoluto.
    Molto peggio di qualunque ambientazione americana on the road con protagonista cinquantenne eterno adolescente un pò affettato.

    Il “nazismo male assoluto” è il grande alibi della società occidentale del dopo guerra, il grande unico e inimitabile capro espiatorio che nasconde tutto il resto.
    Se c’è stato il nazismo, può esserci stato tutto il resto…

    La paura anche solo di essere toccato, il sentirsi contagiato solo da uno sguardo e un pensiero, testimoniati dal recensore, sono emblematici della cattiva coscienza del mo(n)do in cui viviamo.
    Lo stesso mo(n)do in cui, per esempio, viveva Eichmann. Un uomo normale che avrebbe inorridito di fronte a questo film con lo stesso timore per lo stesso contagio.
    Il “nazismo male assoluto” collide con quell’altro, il “nazismo male banale”, altra definizione assurta a luogo comune, tuttavia con una nota stridente e assai più pericolosa di vicinanza, di quotidianità, e assai più rispondente a verità storica, aldilà della riflessione di Hannah Arendt (ma anche di Primo Levi).
    Il nazista demonio, incarnazione del male assoluto, è incarnato nella figura di Hitler.
    Il nazista vicino di casa, incarnazione del nazismo male banale, è incarnato da Eichmann, ed è il modello del nazista del film di Sorrentino.

    La distanza favorisce la serenità: avere o non avere pietà di Hitler è un dubbio morale assai meno difficile, rispetto all’avere o non avere pietà di Eichmann.
    Perchè Hitler è uno solo, è lui, è consapevole di sè, pur nella sua follia vera o presunta; Eichmann potrebbe essere chiunque, ed ha orizzonti troppo limitati per comprendere la portata delle sue azioni, delle sue responsabilità.
    La visione del nazismo male assoluto è troppo comoda, in definitiva, e consente di consegnare il nazismo al mito, strappandolo alla storia; consente di affibiare a Sorrentino una colpevole “pedagogia nazista” che è in realtà “pedagogia americana”, al 100%, ci torno più sotto.

    Prima occorre chiedersi: perchè il gesto di Cheyenne appare “nazista”?
    Immagino per la sua totale gratuità e noncuranza; il coinvolgimento emotivo di Cheyenne è quanto mai dubbio, e anche le sue ragioni personali; il suo legame con la vicenda del padre e del nazista è quanto mai labile, e d’altronde le motivazioni del padre sono messe in discussione dal cacciatore di nazisti Mordecay Levy, che definisce l’aguzzino da lui cercato un pesce piccolo, una nullità.
    L’indefinitezza di quel qualcosa che lo ha disturbato, e la debolezza stessa del verbo disturbare, aggravano in qualche maniera il carico di gratuità della vendetta.
    Personalmente mi aspettavo, come logica conseguenza di tutto il dipanarsi della caccia al vecchio, attraverso la conoscenza di tutta la banale normalità e anormalità della vita dei suoi congiunti (che nella recensione è stata liquidata in poche parole come deviazione dal tema della shoah e sequela di luoghi comuni on the road americani), un atto di pietà o di superiorità morale, da parte di Cheyenne nei confronti del vecchio.
    Il viaggio on the road appare rito di iniziazione all’età adulta più che sufficiente per l’eterno adolescente Cheyenne; la rock star nullità, uomo che ha avuto l’unico merito di essere stato nel posto giusto al momento giusto (vedasi il dialogo con David Byrne), potrebbe ritenersi soddisfatta di imparare la normalità della vita e delle persone incontrate per strada.
    Il personaggio di Cheyenne appare totalmente estraneo alla logica della vendetta, in qualche maniera al di sotto e al di fuori della tragica serie degli avvenimenti che compongono il quadro del rapporto tra il padre e l’aguzzino, ovvero della shoah.
    Al di fuori della reale esperienza del male, al di sotto della possibilità di un confronto con l’orrore.
    Di qui la leggerezza con cui Cheyenne compie quella vendetta che non è nemmeno sua, ma di cui si appropria strumentalmente per pensare di appropriarsi della gravità dell’età adulta e abbandonare definitivamente la propria eterna adoloescenza.
    Leggerezza che poi esula da una reale premeditazione: l’impressione è che la scelta di Cheyenne sia dettata dalle parole del vecchio, parole che suonano provocatorie, da uomo che non ha in alcun modo fatto i conti con quell’orrore e quel male, pur essendone stato parte, rimanendone anch’egli al di sotto e al di fuori.
    Il padre di Cheyenne, per il vecchio, acquisisce dignità di uomo in quanto nemico che gli ha reso la vita impossibile, non in quanto rappresentazione di una colpa che gli pesa addosso; la visione del vecchio nazista è quella di un reduce di guerra che si confronta con un combattente del fronte avversario, non di un ex aguzzino che si confronta con una sua vittima.
    Ecco, io non ho provato nessuna pietà per questo vecchio, assolutamente, non ne merita, oggettivamente.
    E però non c’è neanche alcuna soddisfazione, per mille motivi:
    l’estraneità totale di Cheyenne rispetto ai fatti che vendica;
    l’irrimediabile ritardo della vendetta in un mondo che ha già trasfigurato in mito i fatti da cui trae origine;
    ritardo ancor più irrimediabile di fronte all’evidenza che emerge nel corpo del film, quella interscambiabilità nel bilancio complessivo delle vite dell’ex aguzzino e dell’ex carnefice, e dei loro discendenti, inghiottiti in un dopo guerra troppo lungo e “troppo americano”; insomma, la normalità, che accomuna ex aguzzino ed ex vittima.

    La vendetta di Cheyenne pare totalmente spregevole solo se considerata attraverso la visione dominante del “nazismo male assoluto”; in questo assume la valenza dell’omicidio di un malvagio come biglietto d’ingresso nella società dei giusti.
    E’ questa la “pedagogia nazista” che tanto ha impressionato il recensore; ma io la chiamo “pedagogia americana” perchè americani sono i vincitori di quella guerra a cui risale tutta la vicenda della shoah, e dai vincitori discende una visione della shoah come male assoluto e inimitabile che automaticamente giustifica e assolve crimini come il bombardamento di Dresda o di Tokio, o le bombe atomiche (o i crimini di Israele in Palestina); una visione che ha prodotto altri nemici assoluti negli ultimi sessant’anni, e altre infinite guerre giuste e giuste vendette, condotte con la stessa leggerezza e noncuranza di Cheyenne.
    Non mi sembra nemmeno il caso di evidenziare quanto sian profondi nella cultura americana l’idea e il fascino della battaglia del bene contro il male, e della propria identificazione col bene; la maggior parte della cultura popolare americana, anche di opposizione, può tranquillamente rientrare in questo schema manicheo.
    Ed ecco che ambientare il film negli Stati Uniti assume una valenza ben più profonda rispetto al semplice omaggio/imitazione di modelli come i Cohen.

  12. io credo che il film di sorrentino non possa essere letto senza pensare ai bastardi di Tarantino. è una inversione speculare di inglorious basterds – l’estetica postmoderna di tarantino legge al contrario la pellicola di chi l’ha preceduto: una caccia al nazista in America perpetuata da un soggetto europeo. la pellicola è allora una critica alla gratuità finzionale di bastardi senza gloria. sono convinto che il disturbo del protagonista possa essere ricondotto alla visione dei bastardi – come se l’affermazione del protagonista attraversasse la voce di sorrentino spettatore. questo capovolgerebbe la critica di Zucco. Al di là della riuscita del film, this must be the place dovrebbe creare un pensiero critico su Auschwitz contro la fantasmagoria totalizzante di tarantino – senza al contempo abbandonare un estetica di simulacri, volutamente gonfia ed eccessiva.

  13. @Giuseppe Zucco
    il mio numero è 338 7428437
    telefonami e te lo spiego punto per punto
    effeffe

  14. Come sempre ri porto:

    Ma dare del nazista è un’offesa? Mi credevo fosse una categoria della nuova critica cinematografica. Anche la ottima Helena la usò a proposito di Dogville, forse influenzata dalla interpretazione in malafede di una forse infelice battuta di Lars von Trier a Cannes (mi rimugina… va bene l’autode terminazione dei popoli, ma almeno finché l’unione neuropea resta in piedi, considerare Lars von Trier nazista è franca mente esagerato)

  15. @Zucco
    “cosa vi spinge a provare pietà per il vecchio e vi impedisce di solidarizzare con il protagonista?”

    Una cosa non esclude l’altra! Io ho provato pena sia per il vecchio – che viene costretto a identificarsi con le sue vittime – sia per Cheyenne – che arriva troppo tardi per una vera vendetta, e che del resto si era portato una PISTOLA, senza sapere neanche lui cosa farsene, ma il colpo di scena sta nel fatto che la pistola non viene usata per uccidere e che alla fine l’unica vendetta del protagonista, che avrebbe potuto uccidere, torturare etc. il vecchio nazista, è un’umiliazione (il denudamento sulla neve).
    In quel momento Cheyenne è un personaggio che non ha ancora capito il perché delle sue azioni, che agisce ancora senza senso: per quello dice “qualcosa mi ha disturbato”: è uno che non sa perché si sia messo in viaggio, non sa cosa fare della pistola, non sa perché ha fatto spogliare il vecchio, sa solo di non avere il coraggio di uccidere, di andare fino in fondo.
    Solo alla fine del film, quando lo vediamo senza trucco, con i capelli corti etc., capiamo che ha trovato la sua identità adulta. Questo non è un film sul nazismo, è un film su come a volte le persone impieghino anni a diventare adulte.

    E comunque in quell’inseguimento on the road vedo più un’ironica ripresa del vecchio tema western (il giustiziere solitario che cerca vendetta perché non crede più nella legge) e di Kerouac che altro.
    Inoltre il nazismo, in questo caso, è solo un pretesto (superficiale finché si vuole) per mettere in moto una macchina narrativa, e hanno ragione sia Véronique che Helena nel farlo notare: ma allora diciamo che Benigni, Mihăileanu, Schreiber e altri non dovevano permettersi di parlare di shoah perché per parlarne usano ANCHE la categoria del comico.

    Infine: Zucco cita positivamente “Le benevole” come sfida al lettore a guardare in faccia il suo lato oscuro: il nazista nascosto dentro di noi. Non capisco, perché a un un romanzo è permesso farlo e a un film no?
    Se una qualsiasi opera d’arte (penso anche all’ultimo Polanski, “Carnage”) riesce a turbarci e magari a sconvolgere la nostra certezza di essere sempre dalla parte del giusto, di essere sempre delle brave persone, non è un segno di efficacia?

  16. a dice that never rolls
    Pubblicato 6 dicembre 2011 alle 20:44 | Permalink
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    Pregasi inviare alla mail allegata motivazione per la non pubblicazione.

    La cosa non urta particolarmente, non è la prima volta e non ci si impegnò al punto tale da dovre rimpiangere ore della propria vita buttate, ma insomma, gente così democratica illuminata e infoiata di libertà espressive come voi mi cade in contraddizione.

    Su, su, non mi fate i nazisti.

  17. Ho visto il film due giorni fa a Londra…

    Siamo sicuri di aver visto la stessa ‘dark comedy’? Godibile senza essere nazisti, quale stronzata! Sean Penn poi e’ straordinario! Sorrentino pomposo, ma il film e’ OK.

    La Shoah tira, e fino a quando tira ce la dobbiamo sorbire come pretesto per indagare la natura umana. Non possiamo farci nulla. Mi pare che negli ultimi anni le leggi del mercato abbiano banalizzato quasi tutto.

  18. @ Giuseppe Zucco: Parli di “pedagogia nazista”, ovvero dici che Sorrentino fa della “pedagogia nazista”, e che “che saremmo anche disposti ad accettare che Paolo Sorrentino sia peggiorato come persona scrivendo e mettendo in scena un film profondamente pedagogicamente iconograficamente nazista”. Ora, non dici “Sorrentino è nazista” ma dici che la sua opera è nazista, ed in modo profondo, tanto che, scrivi, Sorrentino deve essere peggiorato come persona scrivendo e mettendo in scena tale opera. Ora, questo peggioramento di Sorrentino, però, non lo porta ad essere nazista, ma “solo” ad aver girato un film “profondamente pedagogicamente iconograficamente nazista”. C’è, dunque, un distacco fra l’autore e la sua opera, se la sua opera è profondamente nazista, e lui non lo è. Da questo punto di vista sarebbe da ammirare Sorrentino per la sua capacità di entrare profondamente in una delle pagine più buie della storia senza, però, rimanerci invischiato del tutto (se ci fosse rimasto, sarebbe nazista, ma lui non è nazista, è solo peggiorato come persona, sembra). La sua “colpa”, dunque, sarebbe quella di peggiorare lo spettatore, facendolo sprofondare in una visione nazista, da cui, sembra, lo spettatore non si possa liberare. E però, se siamo in grado di acquisire uno sguardo “nazista”, forse c’è del “nazismo” dentro di noi con cui dover fare i conti, e non rendersene conto ci rende non migliori, ma semplicemente inconsapevoli, incoscienti, di qualcosa che fa parte di noi. Se so di poter essere “nazista” anche solo per un film, chi sa cosa potrei fare nella vita reale. Allora c’è da starci attenti, no? Non si dovrebbe, allora, essere grati se un film, un’opera, ci dice qualcosa di noi che non sapevamo? In questo caso, ci dice che siamo capaci di provare soddisfazione per una vendetta “nazista”.
    Detto questo, il problema numero uno, però, scrivi che è il fatto che sia una “storia di vendetta”. Dunque, al cinema, o in qualunque altra forma di espressione, non si deve rappresentare la vendetta? Dobbiamo evitare qualcosa che, in ogni caso, fa parte del nostro essere umani? Perché un conto è dire che This must be the place è un film che presenta, a nostro parere, una storia di vendetta nel modo sbagliato (profondamente etc nazista), altro è dire che una storia di vendetta non deve essere rappresentata, in ogni caso, come tu sembri voler dire, perché poi il problema dei problemi è il non accettare che a peggiorare siamo noi, durante la visione del film. Però potrebbe rappresentare anche un miglioramento, no? Si peggiora durante il film per prendere una maggiore consapevolezza di noi come persone.

  19. Rispetto ai film precedenti e tenendo conto che Sorrentino aveva “a disposizione” un attore straordinaio come Sean Penn il film ha deluso tutte le aspettative . Certo la bravura di Sorrentino è innegabile e da un punto di vista tecnico e stilistico il film lo dimostra appieno. La storia privata e personale che viene raccontata, e che incrocia la Storia assurda e terribile della Shoa, alla fine non sembra voler dir nulla:è vero, c’è un pò questo senso di vuoto e di spaesamento che una volta uscito dal cinema fa scattare in mente quella domanda che tu fai a te stesso, mentre cammini verso l’uscita evitando lo sguardo di chi sta con te e cerca magari un tuo commento, un tuo cenno di assenso, una tua reazione; la domanda è (molto banale, e molto poco “cahiers du cinéma”) “ma che cazzo voleva dire?” Certo non credo proprio che Sorrentino abbia sorretto il suo film sulla costruzione/interpetazione di Zucco, che ha ripescato tra l’altro, declinandola in questa recensione, la critca (giusta e condivisibile)che già Pontecorvo fece a Benigni a proposito della “Vita è bella”:l’olocausto è cosa troppo seria per scherzarci sopra in qualche modo. Comunque dalla coppia Sorrentino-Pean ci si aspettava altro, molto altro,tanto altro.

  20. @ simona

    questo non è un film sul nazismo, non ho mai detto questo: ma è un film che fa diventare il nazismo una pratica comune, un modo come un altro di agire e pensare, un punto di vista legittimo che però a ripercussioni immediate, vedi il trattamento del vecchio. il problema, a mio parere, ma trovi già tutto su, è che cheyenne guarda le foto della shoah e poi invece di ripudiarle, appena ne ha l’occasione riproduce sul vecchio (diventato oggetto di cui disporre a piacimento) tutto l’orrore che aveva osservato muto tempo prima. è questo il punto: non ripudia l’orrore, lo riproduce alla lettera.

    poi, non è il nazismo il pretesto, ma la shoah il pretesto: “l’effetto nazismo” è dato dal modo indigeribile con cui è trattato il tema dello sterminio. è anche questo è un punto a sfavore di sorrentino.

    ancora: qualunque opera può mettere in scena il nazismo, e non fa differenza se è un film, un libro, una messa in scena teatrale. la differenza sta nel modo in cui è presentata. nelle “benevole” sai a cosa vai incontro e puoi reagire, in “this must be the place” no, e ti tocca subire un carico di dolore e raccapriccio (sempre nell’ultima scena) che era meglio evitarsi, almeno per me.

    @ andrea branco

    sì, credo che tutto si sia originato dall’estrema leggerezza con cui il tema della shoah viene trattato – da cui il titolo. solo pensare che sorrentino sia nazista è una sciocchezza irrimediabile. il vero problema è che una volta licenziati i testi o le opere diventano autonome rispetto alla volontà del proprio autore e producono effetti di senso che vanno al di là di qualsiasi intenzione. in questo testo “l’effetto nazismo” è messo in scena attraverso cheyenne, il quale impara la sostanza e la forma (l’estetica del supplizio) del nazismo e la mette in pratica.

    scrivi: “Non si dovrebbe, allora, essere grati se un film, un’opera, ci dice qualcosa di noi che non sapevamo?” questo film non aggiunge niente di nuovo, ne elenca qualche altra sfumatura della condizione umana. questo film rimette pedissequamente in circolo l’orrore, ma giustificandolo addirittura: come se fosse legittimo e sacrosanto infierire in modo nazista su un vecchio che fu e che è nazista. un “occhio per occhio” che riduce il vecchio nazista a cosa di cui disporre a piacimento – che è esattamente la radice del nazismo.

    riguardo alla vendetta, tutto è circostanziato a questo film. ma è esattamente questa determinata messa in scena della vendetta che crea un varco attraverso cui io spettatore divento cheyenne, mi identifico in lui, e quindi sento percepisco e agisco da perfetto nazista, anche se io non avrei voluto, non contagiandomi (come scrivi tu), ma violentando il mio punto di vista.

  21. se devo dirla tutta io non ho provato pietà per il vecchio. ho detto solo che quella scena lì non mi ha fatto (segretamente) godere. nel dirla tutta direi che per noi europei il fascino di quell’America lì è talmente non-resistibile che alla fine è veniale perfino il peccato di provincialismo (allora pure Wenders lo è). Helena pone invece la questione del “consumo” narrativo dei temi legati alla Shoà e io sarei d’accordo, a dirla tutta.

  22. @ Giuseppe Zucco: Allora, il problema numero uno non è la storia di vendetta etc. Il problema è come questa storia sia stata girata. Tu dici, nel pezzo, che il problema vero non è la leggerezza, ma che tutto nasce dalla leggerezza. Mah. Il problema vero, dunque, mi sembra, è come è stato scritto questo film, e poi girato, da cui segue che il risultato, a tuo avviso, sia stato quello che hai descritto. Io non ho capito, neppure ora, quale sia il problema dei problemi, il problema numero uno, il vero problema, la questione. Ora sembra la leggerezza con cui è stato girato, poi non lo è, è la storia di vendetta (da cui se non fosse stata una storia di vendetta sarebbe stato ok), poi no, nasce tutto dalla leggerezza. Boh. Per il resto, dici che non aggiunge nulla di nuovo, ma che ti fa sentire peggiore. Non aggiunge nulla di nuovo all’argomento, ok, ma se nonostante questo tu senti e provi qualcosa, forse aggiunge qualcosa a te, e se hai avuto bisogno di scriverne, evidentemente ha smosso qualcosa al tuo interno. Forse non ti ha detto niente sull’argomento, ma ti ha detto qualcosa di te. Non lo so, eh. Riguardo alla vendetta, se tutto è circostanziato a questo particolare film, allora il problema non è la vendetta. È questo film. E come è stato girato, e la leggerezza etc. Se tu scrivi che “il problema numero uno è che è una storia di vendetta” usi un tono, secondo me, che non lascia spazio ad altre storie di vendetta, tanto più che scrivi “La creazione artistica è lecita, ma non tutto può essere rappresentato.” continuando che certe storie rendono peggiori etc. Quindi parli della storia di vendetta. I passaggi a me hanno detto che tu ritieni che non tutte le storie vadano rappresentate, e tra queste non vadano rappresentate le storie di vendetta.

    Comunque, se il problema è, infine, il modo in cui questa storia è stata scritta e girata, beh, sono d’accordo (in effetti per varie cose sono più d’accordo che in disaccordo con te) che non sia un film del tutto riuscito, che usa il nazismo e la Shoah come pretesto narrativo per una storia, per me, che sarebbe stata principalmente una storia di formazione. Usa una serie di cose non necessarie a farne un buon film, in sostanza, per quello che è il mio modo di vedere.

  23. Il protagonista non ‘atterra’ ma ‘approda’, ed è per questo motivo non assiste alla morte del padre. Non è un dettaglio trascurabile, una cosetta da niente, visto che il rientro a Dublino lo farà in aereo. Forse servirebbe guardare meno la fotografia e più la storia, quella che è davanti agli occhi di tutti… No? Poi parleremo di montaggio connotativo e di macro e di steadicam.

  24. Narrazione incompleta e non credibile. Personaggi vuoti e scritti malissimo. Anche se la storia in se ed il finale, che avvicina preda e predatore intercambiandone i ruoli, può essere uno spunto potenzialmente interessante, con questa orribile sceneggiatura si perde come semplice pretesto narrativo appunto, niente di più (e scusate se è poco in un film con così tante pretese)Tutto pur di girare un film in America…e che palle sti pick-up rossi e ste cazzo di bandiere americane! Rivoglio Sorrentino. Spero rientri quanto prima da questa breve e ultra sponsorizzata disavventura.

  25. l’ultimo Sorrentino che mi convinceva, a dirla tutta, era il Sorrentino de L’amico di famiglia: tuttavia, a dirla tutta, non mi convinvono nemmeno tutte queste secchiate di disprezzo su un film che pure ha i suoi pregi, a meno che, a dirla tutta, non si tratti del solito problema di chi, avendo avuto successo, è destinato poi a beccarsi un eccesso di severità nella valutazione delle opere successive. E comunque, a dirla tutta, il più bel film di un regista italiano in America l’ha fatto il pur molto disprezzato Pupi Avati. Mi pare si chiamasse tipo Fratelli e sorelle, mi pare fosse del 1992. Vent’anni fa. Eravate troppo piccoli per averlo visto.

  26. @zucco

    mi pare che lei dia del nazista un po’ troppo facilmente. non dico a sorrentino, ma al suo modo di raccontare e girare questa storia: perché sarebbe peculiare di un nazista e non di altri quel gesto di vendetta? basta quello per qualificare un comportamento, una visione registica come nazista? temo lei rischi di cadere nello stesso errore che imputa a sorrentino, usare le categorie interpretative di nazismo e shoah con troppa superficialità.

    inoltre mi pare che il suo giudizio sul film sia prettamente etico. cosa che a me non dispiace, in generale. lei nella fattispecie dice (semplificando) che il film ci fa sentire peggiori perché ci fa identificare con un modo di fare nazista. mi chiedo: questo suo giudizio non ricade su tutta una serie di film che esaltano eroi violenti, vendicativi ecc.? O lei in qualche non sente il problema perché non solidarizza con il protagonista violento?
    Si sente solidale con la violenza, e quindi giudica male un film che così la fa sentire, solo se le vittime sono nazisti?

  27. @ francesco pecoraro

    qui di secchiate di disprezzo ce ne sono proprio per niente.

    da una parte, c’è la constatazione che questo è un film poco riuscito – e per onestà intellettuale bisogna ammetterlo, anche se il regista è uno dei migliori in circolazione.

    dall’altra, c’è il modo sconsiderato in cui è trattata e messa in scena la dolorosissima memoria dello sterminio. soprattutto oggi, nel momento in cui i sopravvissuti cominciano a diventare un numero sempre più ristretto, e noi, loro discendenti, ci troviamo nella condizione di dover tramandare alle nuove generazioni quella dolorosissima storia con tutto il rigore possibile.

    il resto, è inutile dietrologia.

    @ lorenzo galbiati

    tutte le analisi sono circostanziate a questo film. non c’entrano niente i riferimenti ad altri film di vendetta, ad altri film violenti, ad altri ferocissimi protagonisti. ogni testo, anche se dialoga sempre con tutta l’eciclopedia delle opere passate presenti e future, fa storia a sè.

    in questa storia, c’è un personaggio che guarda dei documenti reali dello sterminio, le fotografie in bianco e nero, e non le giudica o le mette in prospettiva o le rifiuta, ma le riproduce, sia nel senso della vendetta, sia nel senso dell’estica del supplizio. riproduzione che presuppone, per come è costruito il film, un determinato grado di aderenza al punto di vista del personaggio che attua la riproduzione – una riproduzione condivisa dallo spettatore, cioè.

    un’operazione che svuota i documenti reali, e quindi la memoria storica, di ogni senso tragico, e che trasfigura il dolore mai estinto dei sommersi e dei salvati in un modulo estetico che può essere montato su qualsiasi sceneggiatura e messa in scena, anche se quella scenaggiatua e messa in scena c’entrano poco e niente con lo sterminio.

    non è che la memoria storica non possa essere rimessa in forma, e raccontata, e riaperta – per esempio, io sarei stato curiosissimo di vedere cosa sarebbe uscito fuori dalla dal lavoro sull’olocausto che progettava stanley kubrick e che aveva già intitolato “aryan papers” – ma in tutto c’è sempre un modo giusto di fare le cose. e qui, di giusto, o di giustizia, non c’e’ traccia.

    qui ci sono le fotografie delle vittime dello sterminio che vengono prima mostrate e poi riprodotte tridimensionalmente (sul corpo dell’attore) e bidimensionalmente (nel film stesso) per rimettere in scena, in un film che parla di tutt’altro, la ferocia e l’umiliazione contenuta nei campi di sterminio. come se i morti morissero una seconda volta, ma questa volta in astratto e fuori contesto. un po’ troppo per i miei gusti.

    così, se in tutto questo s’intravede il lato più deteriore del postmodernismo, ebbene sì, allora in questa specie di recensione c’è un giudizio etico – o meglio, un lavoro piccolissimo e abbozzato e ampiamente preliminare che si riconnette ad altri milioni di lavori piccolissimi e abbozzati e ampiamente preliminari, per permettere un giorno la costruzione e la messa a punto di un etica condivisa, di un modo più giusto e condiviso di abitare e stare al mondo.

  28. @zucco
    non mi riferivo al tuo pezzo, ma alle secchiate di disprezzo contenute in qualche commento. avrei dovuto dirlo. me ne scuso.
    @galbiati
    stavolta un’opinione non ce l’ho: sono rimasto talmente colpito dal vecchio nudo nella neve, che il resto del film mi si è come annullato nella mente.
    @todos
    consiglio la visione di Fratelli e sorelle, anyway…
    sul nostro con-diviso immaginario americano, a dirla tutta, bisognerebbe discutere e riflettere in apposito convegno, per dire…

  29. Ora è un po’ difficile rispondere puntualmente alla tua (recensione, invettiva, quel che è) anche perché dopo due o tre ritrattazioni si è persa traccia di quello che volevi scrivere. Prendo per buono il tuo ultimo intervento, del quale condivido soltanto quella che mi pare una volontà di superare certa retorica postmodernista e rimettere un po’ di etica nella critica, per così dire. Bene, il film di Sorrentino – cui tu attribuisci un contenuto pedagogico ed estetico ‘nazista – è un coagulo a tratti persino troppo intenso di etica manifesta, dichiarata. Su questo proprio non si può discutere.
    E’ vero che la Shoah è in fondo un pretesto e che il film è un’altra variazione sul tema del road movie, della “bildungreise” wendersiana: Cheyenne è uno rimasto bambino , pieno di paure e fragilità. Alla fine della storia avrà superato la prova e sarà cresciuto, si sarà tagliato i capelli, eccetera. Ma quella che tu definisci ‘leggerezza’ nell’affrontare una ferita così grande è semplicemente la consapevolezza di una distanza e di una rimozione che erano e sono comuni.
    Qualcuno ha citato Pontecorvo e le sue critiche a “La Vita è bella”. Era quella una ritica generica al film come operazione complessiva, agli antipodi del miratissimo pistolotto subito dallo stesso Pontecorvo ad opera di Godard per ‘Kapò’. Godard demoliva l’intero film per la carrellata sulla Strasberg morente, aggiungendo che Pontecorvo meritava per quella carrellata il più profondo disprezzo. Quella era una critica ‘filmica’ in senso stretto, per la quale nel testo ci sono pure, assai significanti, i movimenti di macchina. Non mi sembra dello stesso segno la critica alla scena ‘incriminata’ di TMBTP, quella del vecchio nazista nudo sulla neve. Perché in fondo il problema sembra stare tutto lì, in quello che per molti è un colpo basso. Sarò onesto, io (che mi ritengo persona piuttosto impressionabile) quella non l’ho trovata così disturbante, non ha affatto cancellato il resto del film come scrive Pecoraro. Perché è infatti il resto del film a dare un senso etico alla scena in questione.
    Non è nemmeno lontanamente pensabile una sorta di assunzione del protagonista (uno schlemiel inoffensivo) – e quindi dello spettatore – della ferocia dei carnefici. Il nazismo era odio per la “razza”, cioè per le generazioni: Cheyenne forse manifesta quel tipo di odio quando incontra tre generazioni della famiglia Lange? E dov’è la ferocia se uno si procura un’arma per uccidere e alla fine rinuncia? L’umiliazione di Alois Lange vuole vendicare l’umiliazione subita dal padre di Cheyenne, certo. Ma non va ‘oltre’, perché l’oltre è la ferocia. (Occhio per occhio, non Vita per occhio: in origine la legge del taglione voleva significare esattamente questo: non farò a te PIU’ di quanto tu abbia fatto a me). E ancora: avrete notato come non esista contatto fisico – e visivo, per lo spettatore – tra Cheyenne e Lange. Non stanno mai nella stessa inquadratura. Questa è una scelta precisa che un recensore puntuto avrebbe dovuto considerare con attenzione. Però vediamo e sentiamo Lange raccontare a Cheyenne: quale carnefice disumano concede l’ascolto alla vittima?
    Per il resto, si può criticare tutto. Ripeto, non è il miglior Sorrentino che si ricordi, e tuttavia io ho apprezzato lo sforzo visibilissimo di non scadere nello stereotipo visivo e narrativo.

  30. Talvolta mi piace leggere gli interventi su N.I. dopo che su di essi si sono stratificati diversi commenti, per cui arrivo spesso a dire la mia in ritardo, magari a partita chiusa. Mi limito a osservare che la vendetta, anche su di un nazista, non è necessariamente una categoria etica nazista, altrimenti guarderei con occhi sospetti Achille che si vendica su Ettore o le morti di Macbeth, Riccardo III e Jago. E alla fin fine son d’accordo con Federico Gnech che dimostra che la vendetta nel film di Sorrentino non c’è.

  31. @ federico gnech

    purtroppo non ho ritrattato un bel niente: i commenti successivi alla recensione sono in tutto e per tutto dei “plug in”: aggiungono qualcosa in più al testo, lo ampliano ma non lo contraddicono.

    e se proprio vogliamo dirla tutta, il famigerato carrello che serge daney stigmatizzava in “kapo’”, è ben poca cosa rispetto a quanto ha fatto sorrentino: in “kapo’” c’era l’estetizzazione – nel senso di “messa in bella forma” – della morte in un campo di sterminio, in “this must be the place” c’è la riproduzione dell’iconografia del supplizio nazista, una riproduzione astratta e fuori contesto, una riproduzione che presuppone un punto di vista e uno sguardo in tutto e per tutto nazista. lì c’era un carrello, qua c’è proprio tutta una scena. per di più qui c’è la riproposizione delle foto reali, foto da cui il protagonista trae le istruzioni sul modo di infierire sul corpo e sullo spirito della vittima.

    @ arduino

    io non ho mai detto che la vendetta è una “categoria etica nazista” (che poi è una formula che proprio non capisco): ho detto più semplicemente che la vendetta è il procedimento logico e narrativo attraverso cui il punto di vista del protagonista e il punto di vista dello spettatore coincidono, coincidenza che fa sì che entrambi guardino e pensino e comprendano il mondo da perfetti nazisti.

  32. @Giuseppe Zucco

    Ma lo sai che non mi hai convinto? Questa dello “sguardo in tutto e per tutto nazista” è notevole, comunque, sarei curioso di conoscere la reazione di Sorrentino. Ti rivelo un segreto: a volte ammettendo di aver detto o scritto una fesseria non si fa brutta figura, anzi.

    Solo un paio di correzioni: ricordavo male, non fu Godard a scrivere della carrellata (su Emmanuelle Riva morente, non sulla Strasberg) , ma Jacques Rivette. Daney scrisse poi della stessa scena, a partire dall’articolo di Rivette, una trentina di anni dopo.

  33. Federico Gneck ha scritto che la critica di Pontecorvo a Benigni era “una critica generica al film come operazione complessiva” mentre la critica di Zucco( e la conseguente discussione che qui ha aperto)ruota all’ultima scena del vecchio criminale nazista punito, nudo, sulla neve e alla “riproduzione dell’iconografia del supplizio nazista, una riproduzione astratta e fuori contesto, una riproduzione che presuppone un punto di vista e uno sguardo in tutto e per tutto nazista” come ha scritto lo stesso Zucco. Mi sembra che il discorso che è venuto fuori dai post che si sono via via susseguiti si sia tutto avvitato intorno a questa scena, alle molteplici interpretazioni che suscita, agli interrogativi che pone,ai dubbi che insinua. Credo che così facendo però si è rimasti incastrati in una prospettiva parziale e fuorviante, che non riesce a cogliere il punto fondamentale:il film non convince, delude, parte male e finisce peggio; nella prima parte il protagonista, i protagonisti, sembrano “girare” a vanvera in una Dublino di nessuno interesse;nella seconda parte, come ha evidenziato Zucco, si alternano i soliti clichè per raccontare un uomo che ricerca, sulla strada, la vendetta, il padre, se stesso, un parrucchiere?;si inesta in questa storia, incerta, una vicenda legata alla Shoa senza riuscere a capire bene come possa la Shoa essere “funzionale” alla storia che si sta raccontando. Un’artista certo volge i propri sforzi nella ricerca di una propria originalità, una propria autorialità, di trovare una forma, altra, diversa, unica e irriducibile di raccontare:c’è chi ci riesce bene e raggiunge risultati esaltanti, chi crede di averlo fatto, chi fallisce. Accanto a questo discorso, come dire, di forma s’aggiunge la sostanza:l’importanza di quello che viene raccontato, la capacità di riuscire a dire qualcosa di importante, significatico rispetto al mondo, la vita, la realtà. Sorrentino in passato penso sia risucito a fare l’uno e l’altro(banalizzo un pò:è stato appunto di forma e di sostanza) in questo film no, ha steccato clamorosamente.

  34. …mi scuso ma ho saltato uno “spera”. “… una propria originalità,una propria autorialità,spera di trovare una forma, altra, diversa, unica e irriducibile…”

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Helena Janeczek è nata na Monaco di Baviera in una famiglia ebreo-polacca, vive in Italia da trentacinque anni. Dopo aver esordito con un libro di poesie edito da Suhrkamp, ha scelto l’italiano come lingua letteraria per opere di narrativa che spesso indagano il rapporto con la memoria storica del secolo passato. È autrice di Lezioni di tenebra (Mondadori, 1997, Guanda, 2011), Cibo (Mondadori, 2002), Le rondini di Montecassino (Guanda, 2010), che hanno vinto numerosi premi come il Premio Bagutta Opera Prima e il Premio Napoli. Co-organizza il festival letterario “SI-Scrittrici Insieme” a Somma Lombardo (VA). Il suo ultimo romanzo, La ragazza con la Leica (2017, Guanda) è stato finalista al Premio Campiello e ha vinto il Premio Bagutta e il Premio Strega 2018. Sin dalla nascita del blog, fa parte di Nazione Indiana.
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