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Costruire mondi comuni. Crisi finanziaria e democrazia

di Andrea Inglese

Consensus versus canea

C’era una volta la brutta bestia del “pensiero unico”, del “Washington consensus”, oggi c’è la canea. Gli esperti sono usciti dai ranghi e la loro proverbiale discrezione è venuta meno: da mesi, calcano le scene mediatiche, mandano messaggi febbrili e definitivi, sulle prime pagine dei giornali, incluse le sacre colonne degli editoriali. Non c’è giorno che un quotidiano europeo non ospiti i consigli di qualche addetto ai lavori economici e finanziari.

Il cittadino ordinario, sprovvisto di cattedra in economia, finisce con il concludere che i decisori e i loro consulenti sono nel pieno disorientamento strategico. Da qui, l’esigenza di andare a vedere che cosa sta succedendo. Ma oltre alla certezza che i monotoni giorni del pensiero unico sono andati e che probabilmente di più terribili se ne preparano, è alquanto difficile mettere a fuoco l’argomento in questione, e non solo per via dei pronostici contrastanti. Il problema è: a chi stanno parlando gli esperti? Sono convocati giornalmente dalla stampa generalista, ma l’impressione è che essi parlino ancora di una crisi privata. Continuano, con il loro gergo tra l’oracolare e il tecnico, a considerare la crisi cosa loro, anche se ormai ne parlano in pubblico, a noi, ai profani.

 

Gesticolazione e stasi

C’era una volta la politica, con le sue mancanze di volontà, ma anche con i suoi conflitti da mediare, il confronto ideologico, lo scontro sociale, le alleanze e le lotte tra i partiti, i negoziati tra le parti sociali. C’erano i decisori (eletti) che dovevano comporre con difficoltà i contrastanti interessi del popolo sovrano. Poi c’erano gli esperti, i tecnici, gli specialisti, svincolati da ideologie e partiti, che studiavano i fatti, e soprattutto le tendenze profonde, delineando i confini del possibile, di ciò che si può o non si può fare. E costoro, con gran sollievo dei decisori, servivano a conciliare d’un colpo il dibattito, tacitarlo con la forza indiscutibile della perizia. Oggi, però, questa ordinata concatenazione di dispute e silenzi, di volontà e necessità, di desideri e destini, è stata bruscamente interrotta. I fatti sono esplosi, i decisori sono afoni, le perizie divergono. La contesa è scivolata nel campo delle leggi di natura e dei fatti evidenti. E sui politici ricade intatta la responsabilità della deliberazione senza più alibi tecnocratici. Il loro potere riacquista un carattere arbitrario e incerto. Per salvare la faccia, si danno a grandi gesticolazioni, ma il risultato è quella di una marcia sul posto. La celebre “volontà politica” torna in agenda, ma più spesso in forma di rito o sceneggiata propiziatoria.

 

Rappresentanza e rappresentazione

Non c’è bisogno di intervistare un politologo o di compulsare le statistiche sull’astensionismo, per avere notizie sullo stato di salute della rappresentanza. Uno sguardo a cosa accade nelle piazze sarà più eloquente. Qualcuno ancora si lamenta, per la quantità di movimenti di protesta carenti di partito, bandiere, gerarchie e burocrazie precise. Senza parlare dei saccheggiatori, che non si degnano neppure di utilizzare qualche ingenuo ma promettente slogan millenaristico. Certo, ci vorrebbero dei decisori più decisi e degli esperti meno imperiti. Nel frattempo, però, la fiducia nei gesticolanti è scarsa e la rabbia cresce.

D’altra parte, perché sia possibile immaginare una risposta democratica alla crisi, la semplice revoca delle deleghe o la volonterosa mobilitazione dei cittadini non sono sufficienti. È necessario porre anche il problema della rappresentazione, ossia di come sia possibile fare della crisi una cosa pubblica, strappandola alle cerchie che, attraverso il loro stili e vocabolari, la privatizzano. Senza la possibilità di comporre un mondo comune, di presentarlo in una forma estetica adeguata, non si dà neppure la possibilità di una disputa politica[1]. In che modo, quindi, si elabora un racconto della crisi? Attraverso quali forme, generi, tecniche artistiche, e mettendo ordine in quale materiale? Procedimenti artistici e generi narrativi svolgono funzioni cognitive indispensabili, anche per la loro capacità di ricondurre versioni sofisticate e contrastanti del mondo al “senso comune”, ossia alla sensibilità e al giudizio di un soggetto non teorico, ma pratico, inserito in forme di vita determinate.

 

La costruzione di un discorso appropriabile

La crisi è reale, e agisce sulla realtà: provoca sofferenze, disordini, reazioni. La crisi, inoltre, esiste nei discorsi esperti, in analisi dettagliate e discordi che cerchie ristrette di persone portano avanti. La crisi esiste infine come enigma, quesito, all’interno della sfera pubblica. Si manifesta come minaccia prossima ed evidente, e al contempo come evento spettrale, d’altri mondi. Chimera costituita da mutamenti tangibili del nostro quotidiano e da astratte profezie, essa attende di adattarsi alle nostre comuni forme narrative. La preoccupazione principale non riguarda allora la possibilità di adeguare la crisi reale a un supposto discorso vero, bensì la possibilità che esista un discorso sulla crisi in grado di essere compreso e trasmesso, di cui un ascoltatore qualsiasi si possa quindi appropriare dopo averlo ascoltato – laddove il discorso esperto rimane per il profano irripetibile e intraducibile. Un tale discorso non esiste, finché qualcuno non l’abbia costruito artificialmente. È questo il lavoro di artisti, scrittori, fotografi, cineasti, ecc. Si potranno poi istruire processi sulle inesattezze, esagerazioni, verità fattuali, congetture, ma intanto è fondamentale che un intreccio e una visione abbiano preso corpo pubblicamente, e permettano ad ognuno di formulare dubbi, giudizi, domande. La democrazia ha bisogno di un meccanismo di rappresentanza, ma anche di rappresentazione.

 

Suscitare interesse, muovere affetti

Una riflessione sulla divulgazione è importante, ma non sufficiente. Uscire dal discorso esperto, non vuol dire semplicemente approntare una forma di traduzione, che faciliti la circolazione tra i profani della crisi come res davvero pubblica. Semplificare non basta, bisogna suscitare interesse. Siamo in un ambito politico, non scientifico: la conoscenza qui non è disinteressata, spassionata, prodotta da un fantomatico soggetto incorporeo. Perché le persone orientino la loro attenzione su un determinato ambito, è necessario muovere in esse degli affetti. (Dire che le conseguenze della crisi riguardano tutti, oggettivamente, non equivale a dire che la crisi provochi, in tutti, l’urgenza di comprenderne natura e meccanismi. Posso essere affetto da una malattia gravissima, senza per forza avere interesse a conoscerne prognosi e eziologia.)

Frédéric Lordon, economista spinoziano, collaboratore di “Le Monde diplomatique”, ha realizzato una trasposizione teatrale della crisi in alessandrini (D’un retournement l’autre. Comédie sérieuse sur la crise financière. En quatres actes, et en alexandrins, Seuil, 2011). Il risultato estetico è poco convincente, ma i motivi di una tale esercizio sono da considerare con attenzione. Li esprime in « Surréalisation de la crise », il saggio che chiude il volume. I discorsi veri, le analisi corrette non hanno mai, per forza propria, guidato il mondo, nonostante alcuni universitari siano portati a credere il contrario. “Dovranno quindi arrendersi all’idea che, di tutti i discorsi, quello dell’astrazione è fin dall’inizio il meno capace, proprio perché si svolge in un’atmosfera povera di affetti – constatazione che non toglie nulla alla fondatezza di questi sforzi, ma chiede semplicemente di rivedere al ribasso le aspettative pratiche e politiche”. Se la verità non è portata dalla passione, essa rimane inefficace, fluttuante come un sogno, incapace di radicarsi nelle attitudini. “Il capitalismo non resiste forse all’oltraggio abnorme della crisi presente, non si mantiene in piedi nell’inverosimile sprofondamento intellettuale e morale che dovrebbe inghiottirlo? Contro i vantaggi inerziali della dominazione, tutti i mezzi sono buoni, tutto va preso in considerazione, cinema, di finzione o documentaristico, letteratura, foto, fumetti, istallazioni, tutti i procedimenti vanno considerati per poter realizzare delle macchine produttrici di affetti.”

 

Ragion pura finanziaria e sublime

Porre la questione estetica della crisi vuol dire chiedersi quale narrazione sarà in grado di darle consistenza e senso. Chi voglia narrare la crisi, innanzitutto, dovrà eludere le aporie della ragion pura finanziaria, dentro cui si dibattono discorsi esperti e divulgazioni. I mercati si autoregolano durante le crisi o sono rimessi in sesto da interventi esterni? La crisi nasce da una necessità economica o da una scelta politica? Va compresa come un fenomeno atmosferico o un piano ordito da una banda di criminali? Come una lotta tra paradigmi intellettuali o l’esito di puri rapporti di forza tra gruppi sociali? È un’impersonale concatenazione macchinica o una microfisica del potere, a cui ognuno contribuisce? Le risposte verranno dalle scienze dell’economia o dall’economia politica?

A questa difficoltà, se ne aggiunge un’altra, che possiamo ricondurre alla tradizionale tematica del sublime: com’è possibile manifestare in un artefatto artistico finito una realtà esorbitante, infinita, che trascende l’intendimento e la sensibilità umana? Come può una narrazione di tipo letterario o cinematografico, per articolata che sia, includere una realtà globalizzata come il capitalismo finanziario, che coinvolge miliardi di comparse e migliaia di protagonisti, istituzioni complesse come le banche d’investimento, oltreché una legione di oggetti non ben identificati come i Cdo (Obbligazioni collaterali di debito)?

In altri termini, chi vuole raccontare la crisi in modo che diventi davvero di pubblico interesse, deve innanzitutto trasporre fenomeni impersonali e entità astratte in un mondo di azioni e di agenti, che presentino a noi cittadini comuni i caratteri dell’intelligibilità e della verosimiglianza.

 

L’incarnazione dei subprime

Le opere che, dallo scoppio della crisi ad oggi, hanno contribuito maggiormente a costruirla come “cosa pubblica” e “discorso appropriabile” sono probabilmente alcuni documentari. Penso in modo particolare a Cleveland versus Wall Street dello svizzero Jean-Stéphane Bron (produzione francese, 2010), a Debtocracy, dei giornalisti greci Katerina Kitidi e Aris Hatzistefanou (autofinanziato e pubblicato gratuitamente in rete nel 2011[2]) e soprattutto a Inside Job[3] prodotto, scritto e diretto da Charles Ferguson nel 2010 e Oscar per il miglior documentario nel 2011.

Se considerati nell’ottica del semplice discorso critico sul genere del documentario, ognuno di questi lavori può prestare il fianco a diversi rimproveri od elogi. Qualcuno criticherà il carattere partigiano, che governa la selezione e l’esposizione dei fatti; altri, evidenzieranno approssimazioni, forzature, inesattezze. Altri ancora, considereranno l’approccio politico come ciò che valorizza e contraddistingue queste opere. Pochi, però, noteranno un fatto fondamentale: opere simili contribuiscono innanzitutto a portare la crisi dentro il nostro mondo, non per frammenti irrelati ed enigmatici, ma per articolazioni portatrici di senso, che ci permettono di sollevare delle domande specifiche su di essa, al di fuori della tutela degli esperti.

Il film di Bron mette in scena una class action promossa dalla città di Cleveland contro 21 banche di Wall Street, accusate di aver affibbiato in modo scorretto mutui subprime a un gran numero di cittadini. Nella realtà, le banche ottennero un rinvio sine die del processo, che Bron decise allora di svolgere davanti alle telecamere, coinvolgendo tutti i protagonisti reali in un animato dibattimento. Qui siamo al di là di ogni chiara categoria di genere: il film di Bron non documenta un vero processo, né ne propone la ricostruzione fittizia. Egli ha filmato delle persone che testimoniano, dibattono e giudicano sulla base della loro effettiva esperienza come se il processo fosse reale.

In questo modo, Cleveland versus Wall Street permette che siano formulate le domande fondamentali di pubblico interesse: chi sono le vittime, chi i colpevoli della crisi finanziaria? Ma l’importanza sta meno nella risposta netta che uno spettatore potrebbe trarre dalla visione del film, che dal mutamento di sguardo che egli porterà sulla crisi. Egli assiste, ad esempio, a un fenomeno inconsueto, ossia l’incarnazione del termine tecnico subprime, di cui avrà letto una definizione in qualsivoglia glossario divulgativo sulla crisi. Questo famigerato virus finanziario è ricondotto a una configurazione di relazioni tra persone concrete: il mutuatario, con la sua storia lavorativa precaria, il basso livello d’istruzione, un passato di insolvenze e il mediatore creditizio, giovane e aggressivo, motivato dalle commissioni che ricava sui mutui a rischio concessi per conto delle grandi banche. Di colpo gli eterei mercati finanziari si popolano di biografie innumerevoli e i suoi prodotti appaiono la scia astratta di relazioni asimmetriche tra persone. Un mondo complesso comincia a prendere consistenza laddove regnavano le ombre delle transazioni finanziarie e gli stemmi delle agenzie di credito.

 

La democrazia delle due ore

Un dibattito politico intorno alla crisi ha diritto d’esistenza solo nel momento in cui essa può venir imputata all’azione inadempiente o malevola di gruppi o persone, e non invece al caso o a necessità naturali. La domanda che verte sui responsabili è dunque centrale, in quanto permette poi di valutare i danni, di avanzare richieste di riparazione, ecc. Ciò che rende “politico” un documentario sulla crisi non è allora un documentario che risponde in modo univoco e definitivo a domande del genere. Se così fosse, il documentario piuttosto che favorire le condizioni di un dibattito politico democratico, le cancellerebbe, ponendosi come perizia e sentenza definitiva. Con questo non si vuol dire che il documentarista non debba avere un’intenzione o una propria convinzione politica, ma il carattere propriamente politico della sua opera sta altrove.

Nel pressbook ufficiale di Inside Job, l’autore, Charles Ferguson, scrive: “Questo film è un tentativo di offrire un quadro esaustivo di un tema estremamente importante e attuale: la peggiore crisi finanziaria dai tempi della Grande depressione (…). Era una crisi completamente evitabile (…). Io spero che questo film, in meno di due ore, dia al possibilità a tutti di comprendere la natura e le cause fondamentali del problema”. Ciò che rende politico un tale lavoro è: 1) lo sforzo per restituire una totalità, senza troncarla o rimuoverne degli elementi cruciali; 2) porre la questione delle responsabilità umane – eventi non accaduti per caso o necessità, ma per scelta o omissione; 3) assemblare tutti questi elementi in un prodotto della durata non superiore alle due ore. L’ultimo punto, che appare il più ovvio, è per certi versi quello decisivo in termini politici. Inside Job non è l’unico prodotto culturale che è stato in grado di fornire un quadro esaustivo della crisi, stabilendone natura, cause e responsabilità. Diversi studi, inchieste, libri hanno realizzato questi obiettivi. Ma difficilmente questi prodotti sono fruibili nell’arco di due sole ore, ossia in quell’intervallo di tempo che una persona qualsiasi è abituata, nel tempo del non lavoro, a dedicare allo svago o a particolari interessi. (Assemblare due ore d’informazioni, in modo approssimativo, arbitrario e caotico, è un esercizio giornalistico molto diffuso; fare la medesima cosa, in modo scrupoloso ed efficace, implica un non comune talento artistico e intellettuale.)

 

Architetti e guardiani di mondi

Che cosa s’intende per quadro esaustivo? Se il discorso esperto, immergendosi nella foresta dei dettagli tecnici, analizza e disarticola, il documentarista politico sintetizza e articola. Detto più precisamente, allestisce il mondo, che ha permesso a determinati attori di compiere determinate azioni. Non è sufficiente sbattere un Madoff o un Kerviel o qualche altro trader diabolico davanti alle telecamere e dire: abbiamo il peccato e pure il peccatore! Ciò che viene rimosso in queste esibizioni dei grandi colpevoli è proprio il tipo di mondo in cui essi hanno potuto agire, nel quale sono maturate le loro azioni, si sono formati i loro desideri.

Non è sufficiente additare, da un punto di vista politico, l’azione avida, l’agente senza scrupoli. Bisogna delineare un intero mondo, per comprendere come, nel corso del tempo, siano maturate le condizioni di una tale crisi. Ed è quello che Inside Job riesce a fare, permettendo di vedere quali statuti sociali, CV, discorsi ipocriti, stili di consumo, astuzie legali, tracotanze di classe, sotterfugi intellettuali, strumenti scientifici o pseudo tali, alleanze politiche, conflitti d’interesse siano necessari per preparare un crollo mondiale del sistema finanziario.

Ma nel momento in cui un Ferguson riesce a evocare lo specifico mondo che ha prodotto la crisi, anche ci permette di seguire la pista politicamente più feconda: l’individuazione di quelli che, con Frédéric Lordon, potremmo chiamare architetti e guardiani di mondi. Scrive Lordon: “Dobbiamo assolutamente distogliere lo sguardo dagli individui, considerati unici autori dei loro atti e desideri, per cogliere quelle che sono le strutture che configurano, (…) definiscono gli interessi degli agenti e fissano il margine di manovra concesso loro per perseguirli. (…) Poiché, se incriminare la responsabilità degli agenti una volta che sono inseriti nelle strutture è perfettamente vano, ben diversamente risulta la questione della responsabilità di coloro che hanno installato le strutture e di coloro che hanno lavorato alla loro eternità”[4].

Gli architetti della crisi, allora, sono innanzitutto i responsabili della deregolamentazione, coloro che a partire dagli anni Ottanta, hanno contribuito a eliminare istituti e norme che permettevano allo stato di porre limiti e controlli al potere finanziario. La deregolamentazione è una storia di attori politici che cedono a pressioni di lobby economiche e una storia di autorevoli esperti che forniscono legittimazioni ideologiche a questi cedimenti, permettendo che non vengano successivamente messi in questione. Le banche non hanno conquistato il mondo da sole, così come il potere economico non domina su quello politico per intrinseca superiorità: nell’arco di un trentennio, è possibile ricostruire negli Stati Uniti un deliberato ripiegamento del potere politico a favore di quello economico, ossia il passaggio da un regime imperfettamente democratico a un regime quasi perfettamente oligarchico. La deregolamentazione, anche se avviene attraverso piccole e discrete mosse d’ingegneria tecnocratica, è un’opera resa interamente possibile da chi detiene il potere politico.

 

Necessità dei mondi comuni

Nel 2010 è stato pubblicato in Francia, il Manifeste des économistes atterrés (Manifesto degli economisti sconcertati), firmato da 630 economisti, mobilitati per proporre delle alternative alle politiche di austerità varate in Europa. Nell’introduzione si legge: la scienza economica “deve anche ricordarsi che appartiene ai cittadini, non agli esperti, di determinare in comune, attraverso la deliberazione democratica, gli obiettivi dell’azione economica, i criteri della sua efficacia e i mezzi per approssimarsi ad essa”. Parole sacrosante. Ma politici ed esperti potranno parlarsi tra di loro, e parlare al popolo sovrano, solo in virtù della necessaria collaborazione di artisti, scrittori, registi, che concorreranno a costruire mondi comuni, a partire dai quali abbia senso avviare il dibattito democratico.

 


[1] Non faccio qui che seguire un ragionamento del sociologo francese Bruno Latour : “composizione progressiva del mondo comune è il nome che attribuisco alla politica”. Si veda in particolar modo “From Realpolitik to Dingpolitik or How to Make Things Public”, in Making Things Public. Atmospheres of Democracy, a cura di Bruno Latour e Peter Weibel, Exhibition at the ZKM – Center of Art and Media Karlsruhe, 2005.

[2] Si può vedere anche qui : www.alfabeta2.it/2011/06/22/debtocracy-sul-debito-greco/.

[3] Disponibile da settembre 2011 nella collana « Real Cinema » di Feltrinelli, che associa al DVD un volume di materiali diversi, tra cui una guida per gli insegnanti.

[4] Frédéric Lordon, La crise de trop. Reconstruction d’un monde failli, Fayard, 2009, pp. 37-38.

*

Questo articolo è uscito sul n° 15 di “alfabeta2”

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67 Commenti

  1. L’articolo propone la quanto mai tradizionale divisione tra esperti e gente comune, e tutto l’argomentare si svolge a partire dalla supposta validità di tale forma di classificazione.
    La mia personale impressione è in verità che questo stendere i panni in pubblico degli economisti ne sveli impietosamente la poca fondatezza del loro stesso costituire una congrega di iniziati a competenze a loro soltanto riservate.
    Analogamente, non esiste secondo me la gente comune, esistono persone con la loro specifica e differenziata capacità di astrazione e quindi anche una graduazione nella possibilità di comprendere discorsi più o meno tecnici che vengono loro presentati.
    Alla fine, come dovrebbe essere ovvio, si palesa la natura politica delle scelte fin qui fatte come di quelle che si dovranno intraprendere oggi e nel prossimo futuro.
    Fare un film, o una qualsiasi altra opera di divulgazione è anch’essa un’operazione pienamente politica, così che non posso convenire sull’utilità di distinguere l’opera di divulgazione come se si trattasse di un’attività a sé stante. Nel momento in cui mi prefiggo di spiegare, di narrare al feticcio costituito dalla gente comune la crisi finanziaria, non posso evitare, proprio per onestà, di esprimere la mia personale opinione, e quindi finisco inevitabilmente per tentare di convincere altri del mio punto di vista.
    La cosa strana nel contesto dell’articolo è che sparisce il ruolo specifico della politica, stretta a questo punto da una parte tra le competenze economiche e le esigenze divulgative. Sparisce perché la politica esiste solo se ha il posto di comando, non può svolgere un ruolo subalterno, e se essa ha il posto di comando, deve essere essa a dettare agli esperti di cosa ha bisogno e ai divulgatori quale sia il messaggio da diffondere.
    La politica a sua volta deve trovare il suo radicamento in una comunità organizzata, abbastanza coesa al proprio interno, e che naturalmente non abbia forme di riverenza verso nessuno, meno che mai verso supposti esperti.
    Scegliendo la suddivisione tra esperti e gente comune, sparisce l’esistenza stessa dei veri potenziali soggetti politici che, senza avere conoscenze specialistiche, sappiano leggere i fatti e ne vogliano fare oggetto di iniziativa politica organizzata.
    In questo modo, l’articolo trasforma la questione tutta politica di lettura dei fatti, in una questione di capacità di comprensione e di traduzione per i non esperti. Ciò evidentemente presuppone il pensiero unico per cui lo spazio della politica diventa l’esercizio di una certa capacità tattica di mediazione rispetto ad interessi diversi, senza che ci sia quindi spazio per visioni differenziate.
    Le divisioni politiche non possono basarsi soltanto sul privilegiare certi interessi rispetto ad altri, ma è lo stesso modo di leggere la realtà che costituisce lo spazio specifico della politica.

  2. “La cosa strana nel contesto dell’articolo è che sparisce il ruolo specifico della politica, stretta a questo punto da una parte tra le competenze economiche e le esigenze divulgative. Sparisce perché la politica esiste solo se ha il posto di comando, non può svolgere un ruolo subalterno, e se essa ha il posto di comando, deve essere essa a dettare agli esperti di cosa ha bisogno e ai divulgatori quale sia il messaggio da diffondere.”

    Caro Vincenzo, limiti miei o novità della tematica, resta il fatto che ti è sfuggito l’impianto centrale dell’articolo. Spero di essere riuscito a trasmetterlo a qualche altro lettore. Ma comprendo che la prospettiva aperta da Latour sia appunto inedita rispetto alle usuali partizioni concettuali, nelle quali anche tu ricadi. Se ho tempo, ci rittorno su in seguito.

  3. Ricito Latour, la cui riflessione costituisce la chiave di volta del mio pezzo: “composizione progressiva del mondo comune è il nome che attribuisco alla politica”.

  4. La rappresentazione allevierà la crisi della rappresentanza? Può l’arte alimentare e formare la partecipazione politica degli esclusi per contribuire a risolvere la crisi della civiltà che è crisi economica, politica e sociale?
    E’ necessario comunque portare l’arte sul campo. Gli esempi dei documentari sono importanti, altri documentari potrebbero raccontare cento altre cose della crisi, la fiction narrativa letteraria, teatrale e cinematografica possono contribuire portando i loro conflitti, i loro simboli. Il novecento l’ha fatto, non c’è motivo per gli artisti di tirarsi indietro oggi, forse per la paura di allontanare gli sponsor, paura che è la nuova censura (la rima è casuale). Non è indispensabile raccontare tutta la crisi in due ore (Inside Job è un lavoro fondamentale di questi anni, gli altri documentari non li ho visti ma traggo il link dei greci e lo vedrò stasera). Si può accerchiare la rappresentazione con centinaia di opere che raccontino il generale ed il particolare. Se rappresentare la crisi diverrà sistema la crisi sarà rappresentata. E’ necessario farlo, sarebbe patetico non farlo.
    E forse così la rappresentazione parteciperebbe alla “composizione progressiva del mondo comune”.
    Mario

  5. “com’è possibile manifestare in un artefatto artistico finito una realtà esorbitante, infinita, che trascende l’intendimento e la sensibilità umana? Come può una narrazione di tipo letterario o cinematografico, per articolata che sia, includere una realtà globalizzata come il capitalismo finanziario, che coinvolge miliardi di comparse e migliaia di protagonisti, istituzioni complesse come le banche d’investimento, oltreché una legione di oggetti non ben identificati come i Cdo (Obbligazioni collaterali di debito)?”

    ci si prova, continuando a fallire, sulle officine di poesia LIN

  6. @vincenzo cucinotta
    Il tuo commento è singolare.
    Tu rivendichi per la politica il ruolo che essa ha perduto.
    Andrea Inglese ha descritto quel che dicono coloro che ci vengono presentati come “esperti” e quel che compare in tre documentari (e in altro) per “raccontare” la crisi.
    Ma tu contesti l’impostazione perché è la politica che si deve servire degli esperti, è la politica che deve raccontare la crisi.
    Ma se la politica di oggi non ne è (più) capace, non esiste più, se la deve inventare Andrea Inglese?

  7. @lorenzo galbiati, Inglese non deve inventarsi nulla ma neppure sedersi sul sepolcro della politica. L’arte avrebbe sicuramente un ruolo importante se non fosse anch’essa materia trita della comunicazione. Comunicazione intesa nella sua più ampia accezione, capace di stravolgere la realtà, presentarla nella forma di volta in volta più conveniente a questo o a quel fine. Se la politica è moribonda o addirittura sepolta, la comunicazione ne è stata l’arma letale. Sono anche persuaso che dentro quella macchina infernale svaniscono le pur apprezzabili ambizioni di “pezzi” come quello di Inglese e degli stessi testi e autori citati. “Il percepito” (alimento divorato dal mostro comunicante) deve ricongiungersi col suo oggetto e sottrarsi alla speculazione distorsiva d’ogni forma di realtà. E’ forse brutto dirlo ma la realtà per tornare ad essere riconosciuta come tale ha bisogno dei corpi, della loro carne viva . I pochi esperimenti ed atti vincenti in questi mesi hanno il loro denominatore comune nel corpo dell persone che si riappropria della realtà tacitando “il percepito” e con esso l’astrazione speculativa della comunicazione. In Islanda come nel Nordafrica, la realtà ha vinto quando ha incontrato il corpo delle persone, sconfiggendo ogni simulazione che in nome del “percepito” si sarebbe imposta attraverso la macchina comunicante. L’arte, dunque, se è davvero tale e rivoluzionaria deve aiutare questo processo, nello sforzo, per essa contro natura, di rinunciare alla rappresentazione simbolica (perchè sarebbe anch’essa manipolata ), come forma di proptesta estrema, ricongiungendosi al corpo, alla realtà ( http://www.youtube.com/watch?v=shUiFXIxUs8 )

  8. @ carlo
    intendi che l’arte deve farsi cronaca e smettere di cercare tra le pieghe della realtà? Giustamente noti che compirebbe uno sforzo contro natura.
    Se sarà una sola opera a raccontarci come vanno le cose, il “percepito” subirà senz’altro l’azione manipolatoria del ragionamento che vi ha agito, anche se dovesse riuscire nell’intellettuale congiunzione dell’arte con il corpo, perché la sola scelta del punto di vista con cui osservare, anche senza intervenire, è di per sé una manipolazione.
    Se saranno in molti, come credo che presto saranno, a raccontare, ma soprattutto a porre domande sulla crisi nei modi diversi che conosciamo, anche con la videocamera del cellulare che riprende di nascosto un licenziamento dal vero, o con delle autointerviste reali di vittime della crisi, ma perché non con un racconto o un cortometraggio inventato da un liceale o da un autore affermato, il corpo e l’arte forse non collimeranno, ma si avvicineranno, diventando una sorta di youtube delle opere, una azione collettiva.
    L’arte non deve temere di scottarsi nel confronto e nell’immersione nella realtà: è necessario che si presenti nella forma che ogni attore o fruitore preferisce. E’ per questa paura che è “materia trita della comunicazione”, come fai notare giustamente, e continua a crogiolarsi allo specchio, raccontando se stessa e le tendenze del gusto e del mercato (tranne molte eccezioni), anziché la realtà. A mio avviso non c’è un modo migliore di farlo, però c’è un’urgenza. E saranno gli artisti più toccati dalla crisi a farlo per primi; sarà una specie di torta tra arte, pensiero, sguardo e corpo (scusate l’ironia)

  9. “Le opere che, dallo scoppio della crisi ad oggi, hanno contribuito maggiormente a costruirla come “cosa pubblica” e “discorso appropriabile” sono probabilmente alcuni documentari”

    Falsissimo.

    Le opere che, dallo scoppio della crisi ad oggi, hanno contribuito maggiormente a costruirla come “cosa pubblica” e “discorso appropriabile” sono i conflitti.

    Non ho mai visto quei documentari, per capirci, potrebbero anche essere interessanti, ma senza la percezione individuale a livello di prossimità, di sguardo, di tatto, di esperienza, degli effetti della crisi, non avrei persone realmente interessate a guardarli.

    Penso che sia da capovolgere totalmente il discorso fatto nell’articolo: non un passaggio dal generale al particolare, che articoli analisi complessive della crisi e le divulghi al “popolo sovrano”, bensì un passaggio dal particolare al generale, dai problemi contingenti che muovono i corpi, problemi che bruciano sulla carne viva, per arrivare, attraverso un percorso di conflitto inevitabile, a riappropriarsi di sè e a cercare di costruire, allora sì, un mondo comune.

    In tutto questo vedo poco spazio per la narrazione in quanto tale, più che analizzare e raccontare la realtà della crisi ci serve qualcuno che ne immagini il superamento, perchè chi la crisi la vive non ha bisogno di sentirsela raccontare, ha bisogno di vedere una via d’uscita, che ora non si vede.
    Immaginare il superamento della realtà attuale è un atto creativo infinitamente superiore al semplice raccontarla così com’è, tra l’altro.

  10. Ho apprezzato gli interventi di carlo e mario r, perché sono entrati nel merito della questioni. Il punto che entrambi toccano e hanno colto è l’articolazione estetico-politico. Il problema è che il mio tentativo di porre questa articolazione, seguendo Latour, impone una ridefinizione delle categorie per come fino ad oggi sono state considerate. Carlo sembra dire: torniamo al corpo, all’arte come azione collettiva (è la pista che è stata dei situazionisti, ad esempio); la posizione di mario è quella però che più condivido, a patto che non diventi un elogio dell’arte impegnata e di denuncia, secondo schemi vecchi e riduttivi.

    Ciò che Latour propone è innanzitutto una ridefinzione del politico, che incuda non solo la questione della rappresentanza – che è poi la questione odierna dei movimenti. Ossia tutto non si esaurisce, in democrazia, chiedendosi se siamo o meno rappresentati, e come possiamo revocare la rappresentanza, per agire direttamente, ecc. L’altra questione è di carattere epistemologico: intorno a quale mondo, e per quale mondo, ci mobilitiamo, entriamo in conflitto? Qui le osservazioni di Carlo sono giuste: di che mondo parla l’informazione e i fantasmi del dibattito pubblico? Una collazione di frammenti irrelati, che di volta in volta vengono smonati e rimontati per l’interesse di qualche soggetto particolarmente potente sul campo. Da qui l’esigenza di porre, in politica, anche la questione della “rappresentazione”. Chi porta le prove? Come si costituisce una prova? Quali energie convochiamo intorno a queste questioni? Possiamo fare a meno degli esperti? La parola ultima l’hanno gli esperti? Gli artisti che ruolo giocano, in tutto ciò?
    Tutte queste domande non possono rivere le usuali risposte: quella tecnocratica, quella della supremazia della politica, nella sua perfetta autonomia, quella dell’antinomia tra scienza ed arte. Ovviamente tutto questo discorso non può essere ridotto a un semplice problema di divulgazione. La divulgazione del pensiero economico, ad esempio, su quasi tutte le pagine di affari finanza ed economia dei giornali occidentali è in mano a editorialisti affiliati ai precetti del neoliberismo.

  11. a un dado a venti facce,

    costruisci anche tu una gerarchia di temi che non è mia, e che il mio discorso smentisce; ma anche tu devi seguire la tua narrazione unilaterale: quella dei movimenti dal basso. Come se i movimenti dal basso si muovessero in una specie di prossimità assoluta, senza possibilita di articolare visuali ampie, capaci di integrare segmenti storici, segmenti geografici, che esorbitano dal proprio particolare. Naturalmente stiamo dicendo la stessa cosa, solo che come al solito vi è la tendenza a ridurre la complessità. E lo capisco: è molto più eroico pensare che un soggetto rivoluzionario trae tutto da sé, come un entità perfettamente autonoma, aderente al reale senza scarti, illusioni, malintesi, forme estetiche di trasmissione e articolazione dell’esperienza.
    Ecco. Proprio in virtù di idee come quelle di “un dado”, mi sembra che il mio discorso possa essere necessario.
    A “dado” non viene in mente, ad esempio, che gli scienziati come gli artisti hanno in ogni conflitto sociale costituito non solo il braccio del potere dominante, ma anche quello della critica di questo potere. Altrimenti perché Marx è rimasto in casa a scrivere “Il capitale”, invece di spendere tutto il suo tempo in qualche bella manifestazione di piazza o riunione di partito?

  12. Grazie per l’apprezzamento, Andrea. Nelle mie parole non c’è l’elogio dell’intellettuale organico, né dei vecchi schemi, anche se, proprio perché non me ne sento influenzato né minacciato, non ho preconcetti nei loro confronti perché testimoniano delle posizioni che esistono nella società (purché non tornino ad essere egemoni).
    Non era nemmeno un elogio dell’arte in generale, a dire la verità, ma l’affermazione della necessità che essa si metta in gioco con tutti i suoi mezzi.
    Come deve mettersi in gioco ogni elemento critico della società.
    La necessità della partecipazione collettiva alla composizione progressiva del mondo comune è un impellenza oggi più che mai, perché oggi più che mai ci sono i mezzi per farlo.
    L’opera d’arte che può raccontare la crisi è la somma della partecipazione di tutti, tecnici, politici, artisti, intellettuali, professionisti, lavoratori, studenti. Artisti, lavoratori e studenti dovrebbero essere quelli più motivati, come è sempre stato, anche al tempo dei vecchi schemi.

  13. Intanto dico subito, questo dibattito mi piace parecchio. Se sostengo che l’arte deve incontrare il corpo (delle persone, i loro bisogni, la sofferenza mai davvero raccontata se non , appunto , col corpo) è perché essa ormai appartiene all’apparato commerciale e valoriale decretato dalla comunicazione. Non si tratta di degradare a cronaca ma di tornare alla sua propria materia prima che è l’umanità. I significati simbolici che essa esprime,oltre che essere manipolati dalla comunicazione e dal mercato, spesso nascono più da un compiacimento, da una condiscendenza che come atto di rifiuto, di rivolta Ricordo un po’ a tutti il bel libro di Carla Benedetti “Disumane lettere” che immagino conosciate bene. Il ritorno al “corpo”, come atto di estrema ribellione, di rifiuto d’accesso ad un simbolico preconfezionato. L’arte, la letteratura, la cultura devono tornare al corpo. Questo significa rifiuto d’essere stritolati nello stesso meccanismo che alla fine produce consenso, omologazione.
    Se questa stessa discussione, con le medesime parole la facessimo in questo preciso momento in piazza di Monte Citorio, impegnati a non andar via se nulla cambia, quella sarebbe un’opera d’arte

  14. Marx è stato organizzatore e
    membro fondamentale della prima internazionale, in prima fila nel propagandare e imporre le sue idee nelle sedi dove si costruiva l’organizzazione politica del socialismo, mica è “rimasto a casa”; e l’analisi che propose non era semplice analisi dell’esistente, ma anche delle condizioni per un suo superamento.

    In ogni caso, allo state attuale non mancano le rappresentazioni della crisi, sovrabbondano decisamente, e sono in espansione continua; siamo sommersi di narrazioni, è uno dei motivi di sconcerto, disorientamento e frammentazione che impediscono il formarsi di un qualunque soggetto reale in grado di porsi in contrapposizione dialettica col sistema della crisi (posto che questo soggetto possa mai formarsi).

    Abbiamo miliardi di complottisti, signoraggisti, geopolitici vari, decrescita felice o meno, cognitivisti, vetero marxisti, anarchici, situazionisiti, democratici di varia specie, grillini, femministe, femminazi, indignados, gente che sta male, licenziati, disoccupati, studenti del dopo onda, economisti sconcertati, terzomondisti, altermondialisti, pacifisti, teorici della non violenza, gaylesbotrans, intersessuali, comunità terribili, precari organizzati o meno, movimenti dei pirati, consumatori critici, neofisiocratici, sindacalisti dissidenti, artisti impegnati, mediattivisti, terroristi mediatici, scrittori che firmano appelli, comitati per i beni comuni, attivisti di partito, fricchettoni vecchi e nuovi, casseurs, writers, ultràs, ragazzi pazzi dei palazzi, gente che s’arrangia, sindacalisti, gente col piede in due staffe, alto borghesi pentiti, slow food, volontari, contadini con l’acqua alla gola, pignorati da equitalia, ex fascisti in cerca di verginità, neofascisti travestiti, indipendentisti, commercianti incazzati, personaggi in cerca d’autore, fuoriusciti da qualunque partito, fulminati dalla visione di zeitgeist, cristiani di vario orientamento, rivoluzionari, riformisti, teorici del tumulto, sovrasocializzati vari, primitivisti, freegans, punks, punx, crew hip hop, indie rockers solo disperati, disperati veri, gente che “continuate così ragazzi, siamo con voi”, elettori delusi recidivi, gente che “ma allora cosa faccio?” e ancora e ancora…

    Non ci sono esperti, non c’è mai parola ultima, spesso non c’è alcun appiglio per proporre un’interpretazione dei fatti piuttosto che un’altra, parlando di ciò che esula l’esperienza diretta.
    L’opinione pubblica è dispersa in mille rivoli, l’epoca dei movimenti d’opinione sta tramontando a velocità supersonica, tutt’al più sopravvive ancora di riflesso nei grandi conglomerati di scontento, ma anche questa sembra una fase passeggera.

    “Chi porta le prove? Come si costituisce una prova? Quali energie convochiamo intorno a queste questioni? Possiamo fare a meno degli esperti? La parola ultima l’hanno gli esperti? Gli artisti che ruolo giocano, in tutto ciò?”
    Allo stato attuale:
    1. Chiunque si sbracci abbastanza da ottenere un seguito; 2. A volte da analisi sensate e approfondite, a volte come si creano le leggende metropolitane, e in centinaia di altri modi, rigorosi o meno; 3. Non le convochiamo noi, non è in nostro potere, possiamo aggiungerci, sottrarci, spingere verso una qualche direzione, lasciarci spingere, ma è praticamente impossibile che un nostro sforzo giunga a risultati decisivi; 4. Gli esperti non esistono più, il campo è incommensurabile per chiunque, ciò che fa o disfa un esperto è perlopiù materia di fede; 5. gli artisti possono tentare di entrare nel campo come tutti, diventare esperti, oppure spingere in una direzione, produrre delle prove, o cercare di riordinare quelle esistenti, spogliarsi del ruolo di artisti e diventare altro, spogliare altro dal suo ruolo e trasformarlo in arte, non ci sono coordinate, nè leve cui fare riferimento.

    Le uniche leve su cui si possa operare sono nelle contraddizioni tra la rappresentazione dominante e la vita delle persone coinvolte negli effetti della crisi, queste leve operano anche sulla narrazione che ognuno di noi si da di sè stesso, ed è questo uno dei lati più interessanti dell’operazione, qualora riesca, perchè la linea del fonte passa attraverso ognuno di noi.
    Per questo parlo di carne viva, nessun eroico soggetto rivoluzionario, perchè il soggetto non esiste, esiste solo una nebulosa di scontento che non riesce a generare un qualsiasi centro di attrazione gravitazionale.

  15. @Andrea
    Leggendo i tuoi nuovi interventi, sono più che mai convinto che tu pensi di trovare politica dove politica non c’è, dove il massimo di politica starebbe nel capire chi sono i cattivoni che c’hanno portato a questo punto. Ed ecco che coerentemente la missione politica può essere affidata a documentaristi.
    Sta qui l’equivoco, nel senso che io quando parlo di politica, ne parlo come un fatto collettivo, ben più che un’opinione più o meno brillante, ben più di uno sguardo particolarmente lucido sulla realtà, la politica è innazitutto, e non può non essere, che un progetto collettivo, e solo al suo interno è possibile identificare un documentario come un’operazione politica.
    Quello sguardo diverso non può nascere col documentario, deve preesistere, non può nascere nel documentario e ovviamente non può esaurirsi nel ristretto soggetto del documentario.
    Il problema insomma è che non ci siamo intesi su cosa sia questa politica, e quindi sul significato generale, se non universale del suo sguardo in cui ogni attivista gioca un suo specifico ruolo, ma che richiede comunque una condivisione senza cui sarà filosofia, sarà teoria politica, ma non potrà essere politica nel suo senso più pieno.

  16. @Lorenzo
    Beh, qui non si trattava di registrare una realtà, ma mi pare si tentava di avanzare addirittura un’ipotesi di pratica democratica con un ruolo rilevante se non addirittura preponderante dei documentaristi e degli artisti in genere.
    Dire questo, significa negare la politica, il suo specifico spazio e ruolo, in cui il singolo artista può operare politicamente singolarmente perchè il pensiero è unico dall’ìinizio e non richiede una condivisione ideologica.
    Ma qui non ripeterò ciò che ho risposto ad Andrea nel commento precedente.

  17. a mario

    “L’opera d’arte che può raccontare la crisi è la somma della partecipazione di tutti, tecnici, politici, artisti, intellettuali, professionisti, lavoratori, studenti. Artisti, lavoratori e studenti dovrebbero essere quelli più motivati, come è sempre stato, anche al tempo dei vecchi schemi.”
    Sì, mantenendo però la consapevolezza che ognuno contribuisce a partire da suoi limiti e suoi punti di forza. Un certo lavoro di messa in forma e distanziamento estetico, che l’artista, lo scrittore e il cineasta realizzano, non hanno equivalenti dal punto di vista delle pratiche scientifiche o delle retoriche politiche. Questo non significa esaltare allora l’artista, ma costringerlo a misurarsi in una campo di tensioni più ampio, dove possa assumere pienamente senso per tutti il suo comportamento. Poi è anche vero – ed è quanto tu sottolinei – che nella composizione dei mondi non vi sono funzioni rigide e stabilite una volta per tutte. Anche l’artista è un’identità di comodo, che può variamente essere attraversata e abitata.

    su dado,
    cerchiamo di ascoltarci e magari di capire che non stiamo dicendo cose diverse; Marx è stato organizzatore, militante, per le strade e le piazze, ed è anche stato studioso, a casa. E se ricordo qui questo dato banale è solo per mostrare che la pancia non è l’unica e infallibile bussola che l’uomo ha per sfuggire alla dominazione. Tutto serve, e tutti, a diversi livelli, con pratiche diverse.

    Poi scrivi: “In ogni caso, allo state attuale non mancano le rappresentazioni della crisi, sovrabbondano decisamente, e sono in espansione continua; siamo sommersi di narrazioni, è uno dei motivi di sconcerto, disorientamento e frammentazione che impediscono il formarsi di un qualunque soggetto reale in grado di porsi in contrapposizione dialettica col sistema della crisi (posto che questo soggetto possa mai formarsi).”
    E’ esattamente uno dei punti cruciali del mio ragionamento nell’articolo. A volte mi chiedo perché è tanto difficile ammettere di condividere visuali e idee, quasi fosse un peccato mortale, un dissanguamento dell’identità. Leggendo, poi, il seguito, e i punti dall’1 al 5, mi sembra che tu sia un altro di quelli che tutto il discorso lo hanno ben compreso e grosso modo concordano con esso.
    Poi dici:
    “Le uniche leve su cui si possa operare sono nelle contraddizioni tra la rappresentazione dominante e la vita delle persone coinvolte negli effetti della crisi, queste leve operano anche sulla narrazione che ognuno di noi si da di sè stesso, ed è questo uno dei lati più interessanti dell’operazione, qualora riesca, perchè la linea del fonte passa attraverso ognuno di noi.”
    Questo è un punto fondamentale, ma anche molto controverso. E ci si potrebbe scrivere un altro pezzo solo su questo. Io riformulerei il tuo discorso così: “come la mente umana, soggetta a egemonie ideologiche, opera nella contraddizioni tra la rappresentazione dominante e la vita propria?” La linea del fronte, mio caro, PUO’ passare attraverso ognuno di noi, oppure – e questo son sicuro che lo sai – può passarci la linea della prigionia, il muro dell’autoillusione, il fantasma della servitù volontaria, la scissione dell’allegra alienazione, o falsa coscienza, ecc.
    Un filosofo un tempo molto in voga, e ora morto, diceva che anche la presenza a sé è un mito: circola una gran corrente, grandi spifferi di suggeritori, a volte buoni, ma spesso cattivi, nel proprio io corporeo, ben ficcato in sé, aderentissimo e medesimo. Tanto vale che ci lavorino anche gli artisti, gli scienziati, facendosi interferenza l’un con l’altro, in quella faglia che ci attraversa tutti, noi così malamente noi stessi.

  18. a vincenzo:
    “la politica è innazitutto, e non può non essere, che un progetto collettivo, e solo al suo interno è possibile identificare un documentario come un’operazione politica.”
    Non ho inteso dire altro.

    “Quello sguardo diverso non può nascere col documentario, deve preesistere, non può nascere nel documentario e ovviamente non può esaurirsi nel ristretto soggetto del documentario.”
    Corrego. Quello sguardo diverso può nascere col documentario. Sennò tutta la storia del movimento operaio non sarebbe che una semplice reminiscenza platonica della propria condizione di sfruttati. Invece le analisi, i documenti, le teorie, le canzoni, i quadri, gli slogan, oltre che le lotte, e i presupposti etici (emozionali), sono ciò che ha prodotta la sua storia.

    Che poi lo sguardo non si possa esaurire nel ristretto soggeto del documentario è quel tipo di constatazione su cui credo tutti possano concordare.

  19. Andrea, la difficoltà nel comprenderci reciprocamente mi pare stia nel fatto che la distinzione che io opero tra teoria e narrazione (tra la’ltro mi pare di ricordare che già ne parlammo in altra occasione) non trova traccia in ciò che tu invece scrivi.
    Non so se tu abbia dei riferimenti di tipo marxista, e che quindi, similmente a dado, non cerchi una nuova teoria. In questo caso però, dovresti del tutto convenire con lui e con il suo sguardo coerente che torna sempre al livello delle contraddizioni strutturali, inevitabilmente ridimensionando il livello sovrastrutturale.
    Forse la difficoltà sta tutta qui, che senza che una nuova teoria prima formulata, poi condivisa e divenuta così pratica politica, le narrazioni rimangono un chiacchericcio su cui efficacemente dado ironizza.
    Per esemplificare, tu citi Ferguson che dice che la crisi poteva essere evitata. Questa frase, seppure a rigore vera, nasconde la natura sistemica della crisi del capitalismo, e dire che ci sono persone fisicamente identificabili che ne sono responsabili, può essere fonte di fraintendimento.
    La sua visione è cioè, presumo da ciò che che scrivi, differente dalla mia perchè ognuno di noi si porta dietro la sua visione complessiva del mondo che, insisto, presesiste ai singoli fatti e alla loro specifica analisi. E’ nella pratica politica che una nuova weltanshaug come tale fatto collettivo, può nascere e svilupparsi. La singola opera non crea weltanshaug, ma lo applica ed eventualmente lo modifica, prima ci devono necessariamente stare degli strumenti teorici.

  20. Davvero apprezzabile il respiro prospettico di questo articolo, specialmente le prime 6 enunciazioni. Dopo qualcosa si perde, pur rimanendo interessante. Ciò che mi lascia un po’ perplesso è l’idea di eludere “le aporie della ragion pura finanziaria”. Concordo di cuore sull’esistenza di aporie, ma temo che se tutte le categorie e concettualizzazioni economiche vengono rubricate sotto l’etichetta infamante di “neo-liberismo” o, ancora più genericamente, di “capitalismo”, si farà certamente spazio a discorsi estremamente interessanti e molto più artistici, ma che rischiano confinarsi nella prefigurazione di un paese dei balocchi.

  21. a vincenzo, che scrive:
    “Forse la difficoltà sta tutta qui, che senza che una nuova teoria prima formulata, poi condivisa e divenuta così pratica politica, le narrazioni rimangono un chiacchericcio su cui efficacemente dado ironizza.”

    Lordon – che ho ampiamente citato – è un economista anti-capitalista, eterodosso, di formazione marxiana, che combina analisi economica e teoria politica attraverso spinoza. Ok? Quindi è uno di quelli che hanno proposte alternative (la “teoria”), fa parte di “Le monde diplomatique” che non è proprio una banda di buontemponi velleitari. Ebbene, Lordon, LUI, ti dice che la semplice “teoria” non basta, se non trova spazio in narrazioni, forme estetiche, espressioni artistiche che la portano. D’altra parte, anche tu lo dici, ma ci passi sopra magicamente. Tu dici: senza una teoria prima formulata… Bene, di teorie alternative ce ne sono. (Io ho segnalato l’osservatorio di alfabeta2 cartaceo e web su questo tema. Solo sul versante italiano, di nomi e proposte teoriche ce ne sono: Marazzi, Fumagalli, Brancaccio, per citare solo tre nomi.) Poi tu dici, una volta che è formulata, va “magicamente” CONDIVISA. Già. Come? Per telepatia? Regalando le riviste specialistiche di economisti eterodossi all’uscita del metrò? Lordon che la teoria ce l’ha si è posto il problema. E l’ho citato chiaramente su questo punto. E’ così difficile prendere atto che esiste un’articolazione decisiva tra dimensione conoscitiva, estetica ed etica? E che non si può ridurre al vecchio catechismo – già criticato dai nonni più accorti – della struttura che determina la sovrastruttura. Nessuno ha mai letto Jameson, “L’inconscio politico”? Insomma, alcuni conti teorici su queste faccende dovrebbero essere regolati da almeno un ventennio.
    Comunque spero, stavolta, di essermi fatto capire Vincenzo.

  22. Andrea, non sono stato chiaro: nella chiusura del mio commento ho smesso di riferirmi alla dimensione artistica e sono passato a riferirmi ad una generica azione politica dei vari attori della società con la visione un pò ironica e molto retorica che quest’azione comporrebbe una singola grande opera d’arte. La tua osservazione è giusta.

    continuo a partecipare al dibattito perché lo trovo importante.

    Mi sembra di non essere il solo che passa da una dimensione artistica ad una politica e viceversa, dato che è il tema dibattuto a trovarsi sulla soglia che le divide e l’articolo stesso a più riprese la varca, tornado poi al motivo che lo guida.
    Mi sembra che l’articolo si interrogasse più sulla forma artistica che sia in grado di raccontare e, secondo me importantissimo, porre domande a tutti sulla crisi.
    Nell’attraversare il limite invisibile tra arte (che è di per sé, a vari livelli, politica) e teoria e azione politica, bisogna avere accortezza per non perdere di vista il concreto, la possibilità effettiva.
    Non credo che l’arte sia in grado di formulare una teoria economica alternativa, né credo che debba aspettare che tale teoria sia formulata o esca dalla sua crisi (perché il marxismo è in crisi dagli anni venti del novecento, una crisi pratica, come è pratica la crisi ciclica secolare del capitalismo) per mettersi in linea e agire con efficacia.
    Se è questo che ci aspettiamo dall’arte allora la risposta alla questione dell’articolo è semplice, l’opera più efficace è una puntata di superquark che spieghi il nuovo sistema, per poi metterlo in atto tutti insieme.
    La crisi del capitalismo, se la sommiamo alla crisi del socialismo, sia rivoluzionario, sia riformista, alla crisi dell’identità dell’individuo e dei gruppi (perdita delle tradizioni, delle nazionalità, delle appartenenze e loro recrudescenze), alla crisi della religione, della filosofia e dell’arte stessa che sono costrette a chiedersi di cosa trattare e come, anziché rincorrere gli argomenti necessari che appaiono polverizzati; vediamo che ad essere in crisi è una civiltà, non solo un sistema economico, la civiltà industriale è in crisi ed a ricordarcelo non sono le teorie, è l’ambiente in cui viviamo, sia nella sofferenza della natura, sia e forse in modo più toccante, nella sofferenza di miliardi di persone, di cui noi vediamo solo una piccola parte, i migranti.
    Il livello del conflitto non è solo tra un sistema economico ed un altro, o tra ricchi e poveri. Il conflitto tra priorità naturali e morali, con cui l’uomo ha convissuto da sempre, oggi sembra vicino alle sue estreme conseguenze. Forse l’arte potrebbe riappropriarsi dell’argomento e rilanciarlo fuori dall’ambito filosofico da cui lo trae ed in cui lo mantiene con accademia.
    A livello pratico significa spostare l’attenzione delle persone dalla manovra del governo a cui giustamente pensano i cronisti, alla necessità o meno di avere la lavastoviglie, di avere uno stile o un milione di altre cose che connotano il nostro modo di vivere e di pensare. Negli ultimi decenni le questioni poste dagli artisti sono state di natura esistenziale individuale: nichiliste, le più apprezzate dai critici ma anche le più scontate, dato lo stato della civiltà e quelle di natura edonistica, le più apprezzate dal pubblico che così si sentiva sollevato dal nichilismo. Va superata questa dicotomia che si limita a ripetere la domanda “sei sicuro di saper riconoscere la cacca dal gelato al cioccolato?” e che si mantiene su un piano solo individuale. Non significa perdere la dimensione individuale che è quella dei fatti concreti, ma trovare argomenti non solo esistenziali, ma pratici e politici e sistemi di narrazione che mostrino l’individuo nella dimensione sociale. Il documentario è efficace e giusto ma non ha la potenza estetica delle storie inventate. Sono entrambi indispensabili.
    Occorre mettere in crisi i motivi della crisi, di tornare a porre i grandi quesiti (anche di porre il problema della rappresentanza), di mantenere l’attenzione sui piccoli.
    A mio avviso non si deve perdere di vista l’aspetto globale della crisi, ma allo stesso tempo non si devono perdere i riferimenti concreti dell’agire possibile. Il mondo è frammentato? Compito dell’artista è far capire la tragedia sociale che soggiace dietro la frammentazione. La lista di dado è un bubbone scoppiato, è efficace perché mostra la tragedia della nostra civiltà.
    La situazione è più complessa della possibilità di una teoria condivisa dall’oggi al domani di risolverla. E la visione del mondo che preesiste ai fatti è costantemente messa in discussione dai fatti. L’azione deve essere condivisa e fattuale, ma partire da una partecipazione ampia, sia delle menti sia dei corpi (artistici e reali), sia delle teorie sia dei fatti. E la partecipazione nasce dalla condivisione delle esperienze, artistiche e non. E’ per questo che nei miei commenti dico che domandarsi quale sia la forma più efficace di raccontare la crisi è utile solo se serve da sprone a farlo.
    Ma mi sembra che l’articolo già dicesse in un modo o nell’altro quello che ho scritto, anche attraverso varie citazioni, ed è per questo che l’ho apprezzato.
    La mia risposta alla domanda dell’articolo è: un documentario di due ore non basta. E, proprio a partire dai presupposti dati dalle osservazioni e dalle citazioni dell’articolo, non basta la forma documentario.

  23. Dibattito davvero molto interessante. Grazie ad Andrea per l’illuminante articolo, che ha soprattutto, a mio modo di vedere, un fondamentale pregio: quello di sottolineare come la scienza dominante della nostra epoca (che è anche un’ideologia e una “grande narrazione”, così come in passato lo sono state la retorica, le teologia, la Storia, per esempio), ossia l’economia capitalista centrata “libero mercato” capace di autoregolarsi, sia giunta al tramonto, proprio nel momento stesso in cui teorizzava la propria unicità e la fine delle altre ideologie o narrazioni, proprio mentre ambiva a identificarsi come naturale. A questo punto servono strumenti d’analisi nuovi, servono pance che spostino occhi capaci di guardare (un “theaomai” che è un theorei) in modo da indicare percorsi ad altri corpi e nuovi sguardi, e così via. Serve questa interazione complessa, serve che artisti e scienziati, stiano nel vivo delle cose, della storia (che non è finita), e non nel chiuso dei mestieri (per citare il Roversi di molti anni fa…). Serve davvero un po’ di illuminismo e di realtà, come qualcuno ha auspicato di recente, e di mondi condivisi, di terreni davvero comuni in cui incontrarsi…

  24. Scusa Andrea, certamente tu ti sei spiegato benissimo e chiaramente sono io ad aver difettato in chiarezza, tanto che io parlo di teoria politico-filosofica, e tu mi citi alcuni economisti. Brancaccio l’ho sentito, e lo ritengo una persona certo preparata, ma non mi pare che si sia mai presentato come portatore di una nuova weltanshaug, e così è evidente che non ho il pregio di farmi comprendere.
    Non posso qui che ribadire l’opinione che la formulazione di una nuova weltanshaug non avrà nulla del carattere di un sapere specialistico e sarà quasi inevitabilmente individuale, che la condivisione, lungi dall’avvenire per magia, richiede la costituzione di un’avanguardia consapevole che la viva nella pratica politica, e solo a partire da una situazione di questo tipo già definita, sarà possibile la sua divulgazione, il suo farsi senso comune di ampi strati sociali. Se ci tenete, chiamiamola pure narrazione, purchè ci si intenda sulla portata rivoluzionaria che essa deve avere (altro che rendere comprensibile la crisi…).
    A rischio di sottolineare la mia pedanteria, ci tengo particolarmente ad esprimere questa successione di passaggi, perchè sono convinto che perfino chi formula la teoria rivoluzionaria, il grande pensatore, non è egli stesso esente da influenze sociali, e che quindi finchè non si sarà costituita una microcomunità attorno alla condivisione di una teoria rivoluzionaria sarebbe vano credere di avere qualcosa di davvero rivoluzionario da narrare.
    Dopodichè, che ciascuno rimanga della propria opinione se lo ritiene, a me toccava solo chiarire il mio punto di vista.

  25. a mario,
    “La mia risposta alla domanda dell’articolo è: un documentario di due ore non basta.”
    Nulla, mi verrebbe da dire, da solo e nella sua assolutezza, basta. Ma il documentario di due ore è uno degli elementi necessari, per contrastare mesi di falsi dibattiti. Non si può parlare come se il reale fosse lì a portata di mano, e bastasse agli sfruttati uscire di casa, per toccarlo con mano e reagire. Vi è un enorme fuoco di sbarramento mediatico, propagande ad ogni livello. E con questa faccenda bisogna fare i conti. Ho preso il documentario come pars pro toto: verrà il teatro, il cinema, i fumetti (in spagna e francia, già circolano “cartoni animati militanti” che raccontano la crisi), il romanzo, ecc. Di tutto questo abbiamo bisogno. E ovviamente nell’ottica di “muovere le passioni” delle persone e di sollecitarle a reagire.

    Vincenzo,
    tutto quello di cui tu parli già esiste, ma è ancora minoritario. Non è che dobbiamo aspettare un nuovo messia che inventi una nuova visione del mondo e un nuovo discepolato. Le due questioni chiave del XXI secolo non sono mistero per nessuno: come combattere lo sfruttamento, nella sua forma capitalistica (tema già del XIX secolo) e come evitare la distruzione del pianeta (tema di fine XX secolo). A questo puoi aggiungerci il tema dell’identità di genere. I pensatori già ci sono, i libri pure, i gruppi di militanti anche. Le avanguardie autoproclamate pure. Ma l’egemonia culturale del neoliberismo e della destra governano su tutti noi – una minoranza ha imposto il proprio modello di vita a una maggioranza – le loro idee fanno presa, le nostre molto meno. Ed è su questo aspetto problematico che io mi sono concentrato in questo pezzo.

  26. Andrea, che dire, rispetto certamente la tua opinione, ma davvero non penso per niente che le problematiche politiche si esauriscano nel superare lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e sulla questione ambientale. Per dirla tutta, stento a credere che tu la possa pensare così come dici, mi pare più un intento polemico che una reale convinzione.
    In realtrà, a mio parere il problema teorico esiste, altrocchè, in parte aggravato dall specializzazioen dei saperi e dalla sostanziale perdita di un quadro unitario di riferimento. Andrò oltre, non credo neanche un istante che ci sia davvero un problema reale di consenso a livello di massa, mi pare che questa massa, la ggente con tre g, sia ben disposta a seguire ogni parvenza di nuovo punto di vista. Ciò che io vedo è una certa elaborazione teorica, insufficiente, ma lo stadio più lento, la strozzatura, sta nell’incapacità degli intellettuali di fare squadra, di unirsi in un progetto politico realmente innovativo.
    Ciò che proprio non capisco sta nella tua pretesa che il tuo personale punto di vista sia l’unico possibile e che chi la pensa diversamente lo faccia per sostanziale ignoranza e distrazione. Capisco che chiunque di noi, anche il più sistematico lettore, può sempre trovarsi impreparato visto l’universo di saggi esistente, ma davvero non mi pare che questi giganti del pensiero siano merce così abbondante in giro, e se pure ci fossero, sono ignorati non dico dalla ggente con tre g, ma dal circolo intellettuale, anche quello più sensibile a tematiche rivoluzionarie.
    Del resto, dire che ce ne stanno tanti, è per molti versi equivalente a dire che non ce ne sta nessuno.

  27. Tutto molto ricco e interessante…
    Provo a dire due cose abbastanza immediate e magari mi incasino.
    L’elenco di Dado mi ha fatto molto ridere e mi è parso un ottimo esempio, presumo suo malgrado, di ciò che può voler dire il pezzo di Andrea.
    L’elenco mostra con invenzione minimal-grottesca la galassia dei troppi attori che propogono una una lettura della crisi, ma li mette appunto insieme, mostrando attraverso una rappresentazione unica uno dei problemi con cui abbiamo a che fare.
    Sono d’accordo che ci vogliono gli incontri tra le persone in carne e ossa, ma non mi convince l’opposizione secca tra l’inaffidabilità della comunicazione (facilmente manipolativa, ideologica, passivizzante) e la concretezza (anche quasi mistica) dei corpi.
    Scusate se la metto così, ma la testa è parte del corpo. C’è bisogno di capire, ma di capire in modo che la comprensione possa relazionarsi all’esperienza. Per questo rappresentare (e anche comunicare) rimane indispensabile. Esempio semplice: non so per quante persone che non entrano nell’elenco di Dado abbia fatto clic lo slogan di Occupy, ripreso da tutti i movimenti in giro per il mondo: noi siamo il 99%.
    Questa è – mi pare – non solo comunicazione, ma anche rappresentazione capace di aggregare. Nel senso di portare le persone in carne e ossa nelle piazze.
    Ma non basta, chiaramente. Per cui, per entrare a un livello di complessità maggiore, ci vogliono documentari che ti facciano capire come è andata la faccenda di Lehman Brothers o della Grecia ecc.
    Purtroppo, però, mi viene da dire, con la crisi che si allarga sempre di più, la difficoltà di darne rappresentanza aumenta. E questo va tutto a vantaggio di chi propone, paese per paese, la mancanza di alternative nel cercare di arginarla.

  28. a vincenzo c,
    no, non credo mai che il mio punto di vista sia l’unico possibile, sono troppo autocritico per fidarmi di me due giorni di seguito; il punto è però che c’è un momento in cui i punti di vista non si accordano; inutile insistere. Inizialmente, davvero mi sembra che c’è stata incomprensione. Ora mi sembra semplicemente che abbiamo punti di vista diversi. Ma è interessante per me considerare il tuo punto di vista. Tu pensi che le soluzioni alternative non ci siano, e che tutti siamo fatalmente ingorgati in un grosso pasticcio. Io credo si che il pasticcio sia grosso, ma che soluzioni ci siano, ma non sono condivise. C’è chi ha interesse diretto a lasciare le cose come stanno e sopratutto ha il potere di imporre la sua visione sugli altri. (Insomma, tu citi spesso Marx ma non mi sembra che la tua sia una visione marxiana della storia, ossia che metta al centro il conflitto di classe.)

    a helena,

    si hai colto perfettamente un punto che è emerso. Io direi: da un lato c’è la famiglia dei panmediali e braudilliardiani: il reale è perso, qui si naviga nel puro mezzo, esiste un puro e nicciano conflitto di finzioni, ecc. ecc. Costoro hanno dominato il campo amche a sinistra per molto tempo. Ora, dopo che è venuto giù quasi il sistema, e il conflitto si è riaperto ovunque, saltano fuori i mistici del corpo e dell’azione. L’unica realtà è quella della pancia che brucia, e della vetrina che faccio saltare (per esempio). Basta con la mediazioni: rappresentanza e rappresentazione. La realtà è solo qui e ora.
    Solo che la politica, come sfera dell’agire collettivo intorno a un mondo comune di cui si parla, implica della articolazioni più complesse. Anche perché appena quelle articolazioni si troncano, l’agire collettivo si smarrisce. E così l’1% per cento domina facilmente.

  29. il reale è perso/
    qui si naviga nel puro mezzo/
    esiste un puro nicciano conflitto di finzione/
    Ora, dopo ch’è venuto giù quasi il sistema
    e il conflitto si è riaperto ovunque/
    saltano fuori i mistici del corpo e dell’azione

    (mi sono permessa il singolare di finzione. per la rima.)
    paola

  30. grazie. per esagerare c’è anche il pezzo seguente
    che s’ incastra col precedente con altra rima
    e chiusa ad hoc, direi. :-)

    L’unica realtà è quella della pancia che brucia
    della vetrina che faccio saltare (per esempio)/
    Basta con la mediazioni: rappresentanza
    e rappresentazione/

    mi si perdoni la divagazione OT ma il testo
    era lì che chiamava. :-)
    ciao
    paola

    paola

  31. Alla fine della serata, dopo aver corretto una montagna di compiti in classe, e intercalato con un paio di bottiglie di buon nero d’avola, rileggendo il tutto mi vien da dire che le parole di andrea inglese sono un tentativo di indagine che non chiedeva di essere condiviso né confutato, ma semplicemente chiede altre idee. C’è da far narrazione delle verità essenziali, strutturali, della nostra epoca, in qualche modo. La narrazione va fatta in molti e incompossibili modi. Dunque anche quel dice dado è a sua volta una narrazione necessaria. Ci tocca tutti, ci tocca a tutti.

  32. Trovo affascinante l’ultimo articolo di Costanzo Preve su Megachip (“le lacrime della signora Fornero”).
    Qualche opionione flash di Costanzo Preve, tanto per orientarsi?

  33. Anche se il mio ultimo commento è stato sovrabbondante, vorrei aggiungere una cosa perché, narrativamente parlando, ad un certo punto ho dato un pò troppa importanza alla lavastoviglie. Ho scritto:
    “A livello pratico significa spostare l’attenzione delle persone dalla manovra del governo a cui giustamente pensano i cronisti, alla necessità o meno di avere la lavastoviglie, di avere uno stile o un milione di altre cose”
    Tra questo milione di cose ce ne sono di più importanti della lavastoviglie come la necessità che il lavoro sia una merce anziché una forza di coesione ed il porsi domande sulle basi dei valori della società che il sistema economico ultra finanziario e ultras speculativo (non solo finanziario) ha minato pesantemente e quindi vanno rifondate (e credo che un progetto di rifondazione dei valori potrebbe influenzare anche l’estetica delle opere e innescare una serie di idee, la cui necessità ha notato Marco con il nero d’avola).

  34. paola lovisolo,
    prima di scrivere poesie (poesie?) dovresti comprendere il senso delle parole altrui. incontrare la realtà, l’esigenza che l’arte incontri il corpo, non è sfasciare vetrine. Se è questa l’interpretazione che ne dai semplificando alla Maroni, dovremmo arrestare parecchia gente e processare defunti come Pasolini per vandalismo. La “leggerezza” di Calvino è condimento indispensabile affinchè il “tragico” greco che forse oggi stiamo un po’ tutti sublimando) non imploda dentro se stesso ma produca nuova e diversa vita. Non mi pare che i tuoi sorrisetti e le battutine che tracimano sufficienza la onorino. Non a caso cito Pasolini e Calvino riferendomi a quell’ampia, ricca e dura polemica ed al relativo dibattito tenuto anche su N.I. all’indomani della pubblicazione del provocatorio lavoro di Carla Benedetti. “Pasolini contro Calvino” (1998) . Se si ha pazienza di rileggere alcuni interventi di quell’epoca forse si smetterà di supporre d’aver ben compreso il pensiero altrui e di semplificarne arbitrariamente il senso

  35. @Andrea

    Nessuna difficoltà ad ammettere di essere d’accordo, ma prima dovevo rendermi conto, di essere d’accordo, la discussione è servita a questo. Per poter comprendere il tuo discorso (ed un accordo generale con esso) ho dovuto riformularlo in maniera a me più comprensibile, semplicemente. D’altronde, se intervengo in questi dibattiti in rete, aldilà dell’interesse per i discorsi in sè, è anche per formarmi attraverso un confronto con persone diverse da quelle che frequento abitualmente.

    La frammentazione che viviamo, prima ancora che frammentazione di infinite narrazioni, è frammentazione di linguaggi con cui portarle, quelle narrazioni, specialmente a livello di pragmatica, per cui non è raro trovarsi a polemizzare dicendo praticamente le stesse cose, solo in maniera differente.

    La questione estetica, riguardo la comunicazione politica, della fruibilità e interesse che deve saper suscitare, non riguarda d’altronde solo opere comunemente ritenute artistiche, ma anche la redazione di un volantino: considerare il volantino come genere letterario potrebbe essere un superamento interessante di certe partizioni concettuali.

    Il volantino generalmente si occupa di realtà più definite, più vicine alla pancia che brucia e al movimento dei corpi, ma non può rinunciare a un collegamento con la realtà più generale in cui sono calati i fatti specifici di cui si occupa, e qui torna il problema di come manifestare in un artefatto finito una realtà esorbitante è predominante, tanto più visto che la fruizione è compressa in pochi secondi, non in due ore.

    Faccio l’esempio del volantino perchè negli ultimi anni mi son trovato molte volte a dover difendere certi “abc” della comunicazione di movimento nei confronti di una certa fede messianica verso “nuove” forme comunicative fondate su performance “creative”, che ci possono stare, ma funzionano solo accompagnandosi e sovrapponendosi a quell’abc, non sostituendolo.

  36. “e qui torna il problema di come manifestare in un artefatto finito una realtà esorbitante è predominante”
    refuso
    togliere o “e qui torna” oppure “è predominante” oppure alternativamente prima uno e poi l’altro.

  37. @ anonimo (carlo)
    non ho capito niente di quanto mi contesta. e va beh. solita solfa,

    dopo essere carlo (carlo? un carlo? il carlo? chi?) lei avrà anche un cognome, immagino. come l’ ho io. sinceramente ne ho davvero abbastanza di essere apostrofati da perfetti anonimi che finché restano anonimi fanno cucù come ragazzini. nome e cognome e il dialogo è alla pari. Lei lo rende impari e la cosa non merita ma annoia.
    quando avrà un cognome potrò risponderLe che non so dove Lei abbia letto i miei sorrisini e battutine e riguardo cosa. mi sono limitata a rendere in un semplice sunto quanto avevo recepito nei vari commenti. non so come semplifichi maroni ma so quanto interagiscano i maroni in certe situazioni in cui l’ ormone libero prende troppo piede e alla ragione rimangono incastrati gli alluci nella tagliola testosteronica.

    ps: non vedo cosa c’ entri il Suo incipit:

    “prima di scrivere poesie (poesie?) dovresti comprendere il senso delle parole altrui. incontrare la realtà, l’esigenza che l’arte incontri il corpo, non è sfasciare vetrine.”

    ecco. da questo Suo incipit – incomprensibile tanto più lei non conoscendomi che ne sa dei miei incontri con l’ arte? – si comprende quanto lei sia poco motivato ad entrare intelligentemente nel contesto con il post e si merita un mio bel sorrisino :-)
    un saluto si rassereni e tralasci senz’ altro in futuro di interessarsi alle mie “poesie” poesie?
    paola

  38. il reale è perso/
    qui si naviga nel puro mezzo/
    esiste un puro nicciano conflitto di finzione/
    Ora, dopo ch’è venuto giù quasi il sistema
    e il conflitto si è riaperto ovunque/
    saltano fuori i mistici del corpo e dell’azione.
    L’unica realtà è quella della pancia che brucia
    della vetrina che faccio saltare (per esempio)/
    Basta con la mediazioni: rappresentanza
    e rappresentazione/

    carlo, per intenderci le dedico ancora qualche minuto e mi scuso con gli ospiti per l’ insorta inutile discussione con anonimo carlo… che pare non abbia mica ben inteso: se per poesie poesie? si riferisce al testo che ho riportato sopra esso è formato da frasi di Andrea estrapolate da un suo commento. mi pareva fosse un corpo unico qualcosa che aveva vita a sé con un “inizio” e una “fine”. e non l’ ho fatto per prendere sottogamba l’ articolo. tutt’ altro. Andrea ha compreso – ed è quello che più mi interessa.

  39. paola lovisola, a me della tua opinione sull’anonimato interessa poco. Un cognome o l’altro cosa cambia in ciò che è stato detto? valuta le opinioni se ne sei in grado, a chiunque appartengano. Non vedo che differenza faccia. Se ritieni, esprimiti sulle cose dette e non argomentare su altro, sul dito. E se pensi i di esprimere rinnovata ironia da bar dell’angolo sottolineando “l’anonimo carlo” , un po’ come Berlusconi apostrofa “signor tizio”, per sottolineare che non conta nulla, appunto, in quel sistema valoriale, che molto somiglia al tuo, mi interessa ancor meno.

  40. a dado

    la questione del volantino è in realta azzeccatissima, e pone ad un altro livello la questione toccata dall’esempio dei documentari; così come “Inside Jobe” permette in due ore una comprensione del mondo che ha reso possibile questa crisi a una quantità di gente che non ha tempo o magari gli strumenti o solo la pazienza di leggersi uno o più libri che analizzino i vari aspetti della crisi, così il volantino deve saper far circolare, in un numero di frasi ridotte, delle idee guida, capaci di aggregare più persone. Il punto fondamentale che però distingue il nostro discorso da quello che la destra fa sulla comunicazione (e che spesso fanno anche coloro che si credono di sinistra), è che il problema non riguarda le tecniche più o meno efficaci per far passare un contenuto qualsiasi. Il problema nostro sta sopratutto nella scelta del contenuto, e delle persone a cui vogliamo comunicarlo.
    Pensiamo al 68, a gente come Debord, autore di quella dinamite teorica che è “La società dello spettacolo”. Lui e i suoi compagni passavano le ore a pensare , nei giorni di maggio, quale nuovo slogan avrebbero incollato sui muri del quartiere latino.
    Ma l’esempio dei situazionisti mostra bene come sia del tutto riduttivo parlare nel loro caso di “efficaci tecniche di comunicazione”, secondo un’idea di marketing politico che ha inquinato anche tutta la cosidetta sinistra parlamentare. Dietro i situazionisti c’era un complesso di pratice e di riflessioni estetiche che rimontavano al lettrismo degli anni cinquanta, da un lato, e dall’altro, tutta la questione dei nuovi saperi sulla metropoli e lo spazio urbano legati a pensatori come Lefebvre. Insomma il loro scarto comunicativo, derivava da una complessa articolazione di nuovi saperi critici e di sperimentazioni artistiche radicali.
    Comunicare efficacemente, nella pratica politica, significa sempre avere innanzitutto qualcosa di diverso da dire, e sapere a chi dirlo, e quando è il momento di dirlo.

    a carlo
    ma che ti ha fatto paola da scatenare tale ira funesta?

  41. andrea, dove leggi ira? Tu trovi i miei commenti inappropriati o incomprensibili? E’ fuori luogo richiamare Pasolini e Calvino, il bel dibattito che c’è stato attorno al ruolo della letteratura e l’oggetto di questo post? Ho replicato ad un atteggiamento che mi è parso derisorio di una posizione (la mia e quella di dado e forse di altri) perchè banalizzava l’incontro dell’arte col corpo riducendola ad atti vandalici o qualcosa di simile. Io invece insisto, mi sbaglierò ma credo davvero che ci sia un nesso strettissimo tra l’impossibilità di esprimere in ogni senso ed il tritacarne della comunicazione che tutto imbudella come salsicce da mettere sul banco del consumo.

  42. carlo,
    da quello che ho capito nelle incontrollabili dinamiche di rete, paola non mi sembrava deridere te, e nemmeno me, al massimo viaggiava sulla sua tangente…

  43. va tutto bene, magari ho compreso male. ciò che infastidisce è quell’atteggiamento di distanza da aristocratici un po’ retrò

  44. tutto è nato dalla sua frettolosa malacomprensione, carlo, e la sua reazione irragionata.
    ho solo ripreso una sequenza a cadenza di frasi – credo sette – da un commento di Andrea perché mi sembrava interessante evidenziare non solo per il pensiero contenuto ma anche per il modus espressivo se vuoi poetico almeno alla mia lettura. lettura condivisibile o meno. e certo che seguivo una mia tangente e forse il mio è stato un commentare “strano” che nulla ha tolto o aggiunto al totale… – vedila come una sorta di sottolineatura a uno stralcio di un pezzo che mi è piaciuto come si fa con la matita sui libri… – ma credimi molto lontano da quanto mi hai accusato di intendere.
    scrivi che va tutto bene ma non ti scusi con me anzi ancora mi accusi. ma di che?

    “ciò che infastidisce è quell’atteggiamento di distanza da aristocratici un po’ retrò”

    :) boh.
    e va beh.

    paola

  45. > Insomma, alcuni conti teorici su queste faccende dovrebbero essere regolati da almeno un ventennio.

    Mi sa proprio di no.. e quando mai è stato fatto, al di fuori della matematica? Ma basta, non devo inquinare di pessimismo questi nobili fermenti. Tutto mi sembra ancora molto velleitario e divergente in mille rivoli ma forse, quando la realtà “morderà” ancora di più, altri fronzoli cadranno dalle nostre menti e ci ritroveremo forzati ad a un qualche accordo.

  46. “quando la realtà “morderà” ancora di più, altri fronzoli cadranno dalle nostre menti e ci ritroveremo forzati ad a un qualche accordo.”
    la penso anch’io così; sperando di accordarci però sul fronte giusto.

  47. paola lovisolo. di cosa dovrei scusarmi? apprezzabile o meno (concordo) c’è stata una derisione del pensiero altrui, certamente non colpevole di voli pindarici – che potrei anche apprezzare perchè allargano lo sguardo – ma fondata sulla leggerezza approssimativa. i successivi interventi hanno avuto in modo esplicito una modalità aristocratica ed altezzosa di apostroforare l’altro, la sua scelta di (supposto) anonimato (oltre al nome dobbiamo dichiarare il cognome, data di nascita, indirizzo, codice fiscale, stato civile, reddito prodotto, e cos’altro? – volendone così stigmatizzare l’origine orfana della identità. Insomma, come dire, non sei nessuno sig. anonimo, è già tanto ch ti dedico i miei preziosissimi attimi d’attenzione. Ora, per cortesia, chiudiamola qui

  48. Vorrei che il consommé a base di dado a venti facce facesse parte degli alimenti base del movimento!!! (tipo pozione di Miraculix, per capirci)

  49. magari non tutti hanno abbastanza tempo per andare a leggere tra le righe e dentro le stesse,e ugualmente vuole provare a lasciare un contributo,anche se fosse solo una sfumatura poetica sperando di non urtare le sensibilità altrui.Forse dovremmo fare nostra,perlomeno in senso lato, la filosofia di mario andretti,colui il quale sosteneva che “quando di sembra di avere tutto sotto controllo vuol dire che non stai andando abbastanza veloce”

    http://eng.shiwaw.net/J/Jimi%20Hendrix/The%20Jimi%20Hendrix%20Experience%20-%20The%20Last%20Experience%20%28CD1%29%20-%2008%20-%20Sunshine%20Of%20Your%20Love.mp3

  50. Gli articoli di Inglese su questo argomento li trovo di una piacevolezza che mette proprio il buon umore.

    Io non credo qui si stia a pianificare chi deve distribuire i volantini e chi nasconde le roncole e i rastrelli per la insurrezione rubricata alla voce “prossimamente” dal ’45 in qua, ma che si voglia ricordare, ribadire e focalizzare l’importanza che possono avere le arti nel raccontare gli eventi, nel rappresentarli, e questa è già una grande azione politica – e tanto più lo è se esteticamente valida – senza per questo dover puntalizzare se è di destra-sinistra-capitalista-anarchica-marxista-democristiana-eccetera-eccetera.

    Chi racconta il mondo, chi ne ri-crea uno da rendere comune, si prende in carico una grande responsabilità e una grande fatica, e il punto di domanda interessante e, per me, fondamentale è proprio: chi se la sta prendendo questa responsabilità e con quali risultati?

    Non si tratta di pedagogizzare “l’uomo della strada” che è mezzo secolo che non trova riparo su nessun marciapiede figurati se un mezzanino che gli garantisca un po’ di sicurezza esistenziale, ma proprio di attuare quell’assurdo dell’arte che, tramite un lavoro creativo, produce una rappresentazione realistica, ovvero sintetica: che non può esaurire il reale, dicendolo dall’inizio alla fine, ma che può rivelarne l’immanenza che, più o meno capziosamente, si cerca di far passare – da parte di chi di questa anestesia generale ci campa – per ovattata, sempiterna, inesorabile; con una parolaccia: naturale, logica a modo suo.

    Grazie quindi ad Andrea Inglese per l’articolo, le riflessioni e la capacità di tradurre in discorso un malessere che credo sia tra i maggiori dell’epoca corrente: il non riuscire neanche più a chiedersi quali domande porre e porsi.

    Un saluto!,
    Antonio Coda

  51. grazie antonio (in ogni caso devi essere uno che ama il genere apocalittico :)

    ho trovato nel frattempo un possibile esergo al mio pezzo, e alla discussione che ne è seguita; mi piacerebbe sapere che ne pensano mario dado helena vincenzo carlo ecc.

    “L’edicola e il video sono i soli strumenti – con la scuola – di cui disponga la quasi totalità dei nostri concittadini per razionalizzare la propria esperienza. Sono gli strumenti necessariamente corrotti d’una funzione insostituibile. Sono strumenti corrotti anche per la complicità dei sacerdoti dell’augusto vero, avvezzi fin dai giovanili anni studiosi a spregiare il volgo delle edicole; e anche dei sacerdoti della rivoluzione, avvezzi fin dai giovanili anni funzionari ali a imitare a fin di bene la cultura di massa venduta dall’industria.”
    Franco Fortini, 1968, una premessa a “Ventiquattro voci per un dizionario di lettere”

  52. Chiarezza ed espressività

    Chiarezza innanzitutto con se stessi; sapere cosa si vuole trattare, impegnarsi nella conoscenza degli argomenti e degli strumenti, poi decidere cosa dire e dirlo con chiarezza.
    Chiarezza verso gli altri che sono i fruitori, che sono persone, poche o molte. Dire le cose che si hanno direttamente: se si rende difficile la comprensione altrui, se la direzione del messaggio è incerta, è per mascherare la pochezza della sostanza della comunicazione oppure perché si hanno le idee poco chiare; se no è disonestà. Oppure è arte concettuale che spesso viaggia da se.

    Nella chiarezza, Espressività. Conoscenza degli argomenti, chiarezza nel messaggio, quindi volontà di arrivare all’altro e, con la scelta dello strumento espressivo, investimento di se per codificare con forza e originalità il messaggio in un linguaggio artistico (letterario, figurativo, audiovisivo, teatrale) o anche divulgativo (basta che non sia propaganda, che non la sopporto).

    Spregiare il volgo è spregiare le persone e temere il confronto con la realtà, imitare chi sa conquistarle è già di per se sottomettersi alla sua maggiore forza.

  53. Non vorrei apparire come il monsignor Fisichella di turno, ma penso davvero che bisognerebbe contestualizzare.
    Le parole di Franco Fortini si riferiscono ad un periodo storico in cui in Italia vi era la chiara contrapposizione tra due differenti visioni del mondo, e naturalmente la parte di Fortini aveva tutte le ragioni per etichettare gli altri come dei venduti che nascondevano la verità, che poi coincideva semplicemente con la propria visione delle cose.
    Adesso, la situazione mi pare ben più disperata, perchè torti e ragioni sembrano molto più intrecciati tra loro. Non è che manchino le analisi, anzi sovrabbondano, ma nello stesso tempo diventano sempre più specialistiche, parziali, non in grado di soppiantare l’ideologia liberale in cui noi siamo immersi e l’ideologia marxista che pur sconfitta nelle sue realizzazioni, continua ad occupare gran parte dello spazio dell’intera area che si può definire di opposizione.
    Rimango dell’opinione che le divisioni teoriche, pur lecite e perfino benvenute, dovrebbero trovare una sede di dibattito, a tale sede non può che essere costituita a partire dalla volontà di costituire un progetto comune.
    Non voglio certo svalutare il lavoro utilissimo di divulgazione, la creatività nel trovare nuove e più adeguate forme di comunicazione, quei nuovi sguardi di cui si diceva, ma mi sembrerebbe come voler costruire una piramide a partire dal proprio vertice piuttosto che sulla propria base, che l’artista, il divulgatore non può essere creatore di una nuova weltanshaug, a meno di essere egli stesso a costituire la nuova teoria.

    • Vincenzo, trovo legittimo il tuo richiamo alla necessità di una sede e una piattaforma di dibattito, ma ciò non toglie che sia legittimo e non meno importante per qualcuno porsi il problema della rappresentazione che non è solo divulgazione, è prima il dare risalto a un conflitto. Anche tu noti che c’è bisogno di un dibattito perché c’è una crisi di idee che sono molteplici e contraddittorie. Finché si avvertirà questa crisi qualcuno prima della necessità di risolverla sentirà la necessità di capirla o di esprimerla. Io non l’ho capita del tutto e, sinceramente non saprei dare consigli a chi volesse rappresentarla. Ma proprio perché la rappresentazione non è una soluzione, né una spiegazione, o almeno non è solo questo, potrebbe dare un suo contributo: spesso la soluzione di un problema sembra molto difficile perché la domanda è mal posta. Continuare a rappresentare il problema potrebbe richiamare l’attenzione sulla giusta domanda, che se pure è stata formulata, non è stata raccolta dai più. Magari non era stata ben rappresentata.

  54. caro Andrea,

    nomini bene il punto: “è necessario porre anche il problema della rappresentazione, ossia di come sia possibile fare della crisi una cosa pubblica, strappandola alle cerchie che, attraverso il loro stili e vocabolari, la privatizzano”. La domanda è: com’è possibile agire il principio della democrazia diretta sul piano delle pratiche (e politiche) di scrittura? L’uso del sarcasmo, costante nella tua prosa indignada, non è necessariamente “relazionale”.

    una breve riflessione sul tema (sul dilemma) del binomio “protesta” e “linguaggio”, con riferimento a una microstoria #OWS @ http://micheledantini.wordpress.com/2012/01/07/ows-insurrezione-e-linguaggio/

    un caro saluto MD

  55. […] [1] Non faccio qui che seguire un ragionamento del sociologo francese Bruno Latour : “composizione progressiva del mondo comune è il nome che attribuisco alla politica”. Si veda in particolar modo “From Realpolitik to Dingpolitik or How to Make Things Public”, in Making Things Public. Atmospheres of Democracy, a cura di Bruno Latour e Peter Weibel, Exhibition at the ZKM – Center of Art and Media Karlsruhe, 2005. […]

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andrea inglese
Andrea Inglese (1967) originario di Milano, vive nei pressi di Parigi. È uno scrittore e traduttore. È stato docente di filosofia e storia al liceo e ha insegnato per alcuni anni letteratura e lingua italiana all’Università di Paris III. Ora insegna in scuole d’architettura a Parigi e Versailles. Poesia Prove d’inconsistenza, in VI Quaderno italiano, Marcos y Marcos, 1998. Inventari, Zona 2001; finalista Premio Delfini 2001. La distrazione, Luca Sossella, 2008; premio Montano 2009. Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, Italic Pequod, 2013. La grande anitra, Oèdipus, 2013. Un’autoantologia Poesie e prose 1998-2016, collana Autoriale, Dot.Com Press, 2017. Il rumore è il messaggio, Diaforia, 2023. Prose Prati, in Prosa in prosa, volume collettivo, Le Lettere, 2009; Tic edizioni, 2020. Quando Kubrick inventò la fantascienza. 4 capricci su 2001, Camera Verde, 2011. Commiato da Andromeda, Valigie Rosse, 2011 (Premio Ciampi, 2011). I miei pezzi, in Ex.it Materiali fuori contesto, volume collettivo, La Colornese – Tielleci, 2013. Ollivud, Prufrock spa, 2018. Stralunati, Italo Svevo, 2022. Romanzi Parigi è un desiderio, Ponte Alle Grazie, 2016; finalista Premio Napoli 2017, Premio Bridge 2017. La vita adulta, Ponte Alle Grazie, 2021. Saggistica L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo, Dipartimento di Linguistica e Letterature comparate, Università di Cassino, 2003. La confusione è ancella della menzogna, edizione digitale, Quintadicopertina, 2012. La civiltà idiota. Saggi militanti, Valigie Rosse, 2018. Con Paolo Giovannetti ha curato il volume collettivo Teoria & poesia, Biblion, 2018. Traduzioni Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008, Metauro, 2009. È stato redattore delle riviste “Manocometa”, “Allegoria”, del sito GAMMM, della rivista e del sito “Alfabeta2”. È uno dei membri fondatori del blog Nazione Indiana e il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it), per un’installazione collettiva di testi, suoni & immagini.
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