Art Game : alcuni esempi

Moondust - 1983di Giorgio Massoni
Attualmente il mondo dell’arte sta assistendo al diffondersi di un fenomeno poco noto, che negli ultimi anni è cresciuto – e sta ancora crescendo – in maniera lenta ma continua. Si tratta dei cosiddetti “videogiochi d’arte” o “art game”, veri e propri videogame nati secondo un uso espressivo e creativo, sviluppati da artisti, grafici e programmatori informatici per lo più in maniera indipendente, fuori dall’estetica e dal design convenzionali e seguendo la propria libera ispirazione.
Prendendo riferimento da Matteo Bittanti (nell’introduzione del suo catalogo-saggio GameScenes, 2006, scritto assieme a Domenico Quaranta) e da Wikipedia sotto le voci “Video game art” e “Art game”, si possono individuare almeno due forme d’arte derivate dal videogioco in quanto medium e dalla sua enorme influenza sulla cultura di massa. Da una parte troviamo la “game art”, che è sostanzialmente quel versante artistico che trae ispirazione dalle immagini e dall’immaginario dei videogiochi, prendendoli come base di partenza per la creazione di opere quali elaborazioni grafiche, stampe e filmati. Dall’altra ci sono invece gli “art game”, considerati una sottocategoria della game art e che sono dei veri e propri videogiochi-opere d’arte, prodotti modificando il software di videogame già esistenti – detti perciò “modification”, o “mod” – oppure creati ex novo da artisti e programmatori.
Tra videogiochi creati da artisti (già riconosciuti nel circuito dell’arte contemporanea) e titoli “elevati dal basso”, la storia degli art game si sviluppa comunque all’interno di quella – molto più ampia e articolata – dei “videogiochi in genere” e negli ultimi decenni ha visto un lento ma inesorabile moltiplicarsi di opere, in particolar modo nel recente periodo che va dal loro boom – tra il 2005 e il 2006 – ai giorni nostri. Tuttavia, l’origine dei videogiochi d’arte viene fatta risalire precisamente al 1983, anno in cui vennero alla luce Moondust e I, Robot.

Moondust

Secondo il parere comune (o quello maggiormente condiviso dai critici), Moondust è il titolo oggi riconosciuto come primo art game della storia e venne creato da Jaron Lanier, programmatore americano nonché compositore, artista e autore. In quest’opera il protagonista è un piccolo astronauta fluttuante nello spazio buio dello schermo.
Il giocatore, muovendo e spostando l’astronauta nello spazio, genera dei suoni coi quali è in grado di creare una piccola sinfonia. Si tratta per questo della prima esperienza sinestetica presente in un videogioco e, molto probabilmente, anche del primo videogame musicale. L’obbiettivo del gioco è guidare l’astronauta in giro per lo schermo, creando strani disegni e conquistando delle navette spaziali per passare attraverso le scie che l’astronauta stesso crea durante il suo passaggio. Questo titolo è stato spesso esposto sotto forma di installazione d’arte nei musei ed è stato comparato ai lavori di Jeff Minter, anch’egli autore di videogiochi stravaganti divenuti famosi per il loro particolare stile allucinato (come ad esempio Psychedelia, un sintetizzatore luminoso del 1984).

I, Robot

Sempre nel 1983 troviamo I, Robot, uno dei primi videogiochi dotati di grafica 3D nonché il primo art game realizzato da un “non-artista”, il programmatore Dave Theurer (noto per aver creato anche Missile Command e Tempest, entrambi del 1980).
I, Robot è suddiviso in due parti di gioco, l’avventura (il videogame vero e proprio) e Doodle City, la sezione più particolare di I, Robot, che ci consente di riconoscerlo come il secondo videogioco d’arte della storia e, oltretutto, come il secondo non-game di sempre (il primo fu infatti Alien Garden del 1982, anche questo di Jaron Lanier, precedente di un anno a Moondust). Stando alle intenzioni di Theurer, Doodle City venne creato come fonte di svago per rilassare il giocatore al di fuori del solito “spara all’alieno” dei videogame dell’epoca. Si tratta della parte più libera e creativa di I, Robot dove il giocatore può disporre (per soli tre minuti, finché dura il credito) degli elementi grafici poligonali presenti nel videogioco e usarli per “dipingere” sullo schermo nero del coin-op. Le forme infatti possono essere manipolate e trascinate, lasciando una scia con cui disegnare delle composizioni astratte analoghe, sotto certi aspetti, a dei veri e propri quadri.

Pokémon

La Game Freak (fondata nel 1989 da Satoshi Tajiri e Ken Sugimori) produsse il proprio titolo di punta, Pokémon, nel 1996. Si tratta di un esempio particolare tra gli art game creati da non artisti, entrato con discrezione ma inesorabilmente a far parte della cultura popolare di massa.
In Giappone l’hobby di collezionare insetti era uno svago molto diffuso tra i bambini e fu un passatempo condiviso anche dal main programmer Satoshi Tajiri. Sostenuto dai ricordi d’infanzia, negli anni ‘90 Tajiri elaborò l’idea di Capsule Monsters (rinominato Pocket Monsters e poi Pokémon), videogame nato per rendere possibile la cattura, la collezione e lo scambio di tante diverse creaturine digitali, i pokémon: surrogati virtuali degli animali domestici appartenenti ad un mondo fantastico senza violenza, che non sanguinano e non muoiono ma possono solamente svenire se vengono sconfitti durante le lotte.
Contrariamente a quanto in genere si pensa, Pokémon non ebbe un successo immediato al momento del suo lancio sul mercato giapponese, nel febbraio del ’96. Ma la cosa strana fu che continuava a vendere anche dopo le prime settimane, quando di solito tutti i titoli hanno ormai realizzato il grosso dei profitti. Sebbene Nintendo non stesse spingendo il gioco, fu il passaparola a farlo salire in classifica aumentando esponenzialmente il numero di copie acquistate. Alla fine del 1997 Pocket Monsters aveva già venduto quattro milioni di copie.
Ma cosa c’era di così affascinante in Pocket Monsters? Stando a quanto dice l’amministratore e direttore generale del Nintendo Entertainment Analisys and Development – nonché creatore di Super Mario – Shigeru Miyamoto, “Tajiri non aveva avviato il progetto con l’intenzione di realizzare qualcosa di popolare, ma soltanto il gioco che lui stesso avrebbe voluto giocare. Non c’erano ragioni commerciali ma solamente l’amore per la sua creazione. Voleva, in qualche modo, realizzare qualcosa per se stesso che fosse apprezzato sia dai suoi connazionali che dalla gente di altri paesi”. Satoshi Tajiri ha investito nel gioco una fortissima componente autobiografica, ambientandolo nel suo mondo di fantasia e condividendo con un vasto pubblico di giocatori l’immaginario della propria infanzia di piccolo collezionista di coleotteri. Tant’è vero che nelle prime versioni giapponesi del gioco il protagonista si chiamava proprio Satoshi (mentre il suo rivale invece Shigeru, come ironico omaggio a Shigeru Miyamoto). Ma non solo: le ambientazioni di Pokémon, le mappe del gioco, esistono veramente e si tratta, infatti, di alcune zone del Giappone (a cui nel gioco sono stati cambiati i nomi) che Satoshi ha trasferito dalla realtà all’interno del mondo immaginario di Pokémon. Tali regioni fittizie sono sovrapponibili alle loro omologhe reali e questo ci permette quindi di rintracciare le corrispondenze geografiche che intercorrono tra loro. La trama del primo Pokémon, ad esempio, si svolge in viaggio tra le città della regione di Kanto.
Una realtà, quella di Pokémon, che riflette a pieno la sfera ideale di Satoshi Tajiri ed il giocatore, impersonando Satoshi stesso da bambino, è in grado di entrare in questo suo piccolo ma meraviglioso mondo (forse chiuso in sé stesso, ma tenero e accogliente come la sindrome di Asperger di cui Tajiri è affetto) immergendosi nella sua mente, facendovi parte per condividerne fantasia e memoria. E questo il giocatore riesce in qualche modo a percepirlo, anche se in maniera sottile e indiretta, non pienamente cosciente: riesce a intuire il tepore e l’intimità del piccolo universo interiore di Satoshi e, come di un sogno, non può che compiacersene.
A livello tecnico, Pokémon non è che un gioco di ruolo bidimensionale con poche tonalità di colore e animazioni limitate, un videogame nato senza aspirare al realismo cinematografico dei moderni titoli per consolle. Anche se crea una realtà completamente fittizia, lascia al giocatore la possibilità di immaginare da solo gran parte del mondo dei pokémon, dimostrandoci che l’esperienza di gioco trascende del tutto le apparenti limitazioni delle consolle e sbaraglia i tentativi di comprendere i videogiochi come semplici spettacoli audiovisivi.
In ciascuna versione di Pokémon il protagonista è un bambino (o, a scelta, una ragazzina, a partire dalla terza edizione del titolo) desideroso di diventare un allenatore di pokémon, che si assume il compito di aiutare un suo amico professore a completare la lista di tutti i mostriciattoli presenti nella regione del gioco. Per aiutarlo a svolgere il proprio compito, il buon professore permette al giocatore di scegliere la sua prima creatura fra tre “pokémon starters”, che gli viene lasciata in dono e che diverrà il suo più affezionato compagno d’avventura fin dall’inizio della storia.
Non esiste un’unica finalità di gioco. Si potrebbe dire che, seguendo la linea narrativa, lo scopo principale sarebbe catturare nuovi pokémon da collezionare per creare una propria squadra di lotta, percorrere tutta la serie di città per battere i “capipalestra” di ogni zona e sconfiggere infine il proprio antagonista per ottenere il titolo di miglior allenatore di pokémon. Ma una volta terminata l’intera avventura il gioco prosegue, dando così al giocatore la possibilità di “andare a zonzo” tra le aree della mappa per continuare ad allenare la propria squadra e renderla sempre più forte, oppure catturare altri mostriciattoli per creare un nuovo team di lotta.
Il successo di questo titolo è dovuto, fra i suoi molteplici aspetti, anche al fatto di avere una straordinaria durata di gioco – virtualmente infinita – per la quale si può continuare a giocare a Pokémon anche parecchio tempo dopo averne conclusa la storia, terminando solo quando viene a spegnersi l’interesse del giocatore. Oltretutto, a rendere ancora più longevo ed interessante il gioco contribuisce pure la peculiare “fragilità” del software. Fattore, questo, che consente al giocatore di farne una sorta di hackeraggio, un uso libero e creativo del videogame stesso tramite l’utilizzo di “cheat” (imbrogli e trucchi) e lo sfruttamento di “glitch” (bug, errori nel funzionamento o nella programmazione del gioco) accessibili con o senza l’aiuto di periferiche esterne. Alcuni glitch più semplici consentono al giocatore di duplicare i pokémon o gli oggetti posseduti nel proprio inventario, catturare creature normalmente inottenibili, accedere ad alcune aree esterne alla mappa di gioco ecc. Altri invece, più complicati, vanno ad intervenire direttamente nella struttura del videogame, modificando alla radice il funzionamento di alcune parti del programma stesso. Tra i glitch complessi i più noti sono MissingNo (cioè “missing number”), ‘M, Charizard ‘M, Bad Egg e Glitch City. Quest’ultimo è un bug particolare che visualizza in maniera erronea tutto lo sfondo della mappa di gioco – o solo una determinata zona – raffigurando un mondo disgregato, completamente astratto e costruito in maniera random dal gioco utilizzando gli elementi grafici a disposizione.

Ico

Creato nel 2001 dal Team Ico (diretto da Fumito Ueda), Ico è un videogame la cui bellezza risiede nell’intera atmosfera di gioco, data dalla delicatezza dei protagonisti e dagli scenari meravigliosi che il giocatore è chiamato a esplorare. Si tratta di un’avventura dinamica in 3D dall’ambientazione fantasy che racconta l’avventura del piccolo protagonista, Ico, un bambino esiliato dal suo villaggio perché munito di un paio di corna e perciò considerato portatore di sventura. Condotto in un castello abbandonato nella foresta, rinchiuso in un sarcofago e destinato a morirvi di stenti come sacrificio a misteriose forze oscure, il piccolo Ico riesce a liberarsi fortuitamente e ad incontrare la giovane e indifesa Yorda, una fanciulla luminosa intrappolata in una grande gabbia incatenata al soffitto.
Una delle peculiarità di Ico sta nella sua sobrietà stilistica. È insolitamente privo di tutti quegli elementi convenzionali presenti negli altri videogame, quali l’inventario, gli indicatori di punteggio ed energia, i menu a scomparsa e ogni altra interfaccia di gioco. Fumito Ueda evitò di inserire nello schermo qualsiasi cosa che potesse ostacolare il suo design, semplicemente perché non apprezza i videogiochi complicati. Ha creato Ico pensando al videogame che più gli sarebbe piaciuto giocare, quello ideale.
Altra caratteristica del gioco sta nei vasti ambienti disabitati, suggestivi e tutti da esplorare, impregnati di un’atmosfera surreale ed eterea. Ma la vera stranezza della storia di Ico, e forse anche uno dei suoi punti di forza, è che in realtà racconta molto poco. Raramente i personaggi parlano tra loro: ci sono solo pochi e preziosissimi dialoghi in cui Yorda si esprime in una lingua sconosciuta e intraducibile. Si raccolgono molti indizi ma quel che accade di preciso è lasciato all’immaginazione del giocatore, che è quindi indotto a legarsi ai protagonisti in altri modi. L’ambientazione realistica e i personaggi vividi portano infatti l’utente a un livello di emotività difficilmente raggiungibile da un videogioco.
Eliminando tutti gli stereotipi, Ueda voleva dimostrare che non si tratta di un “semplice videogame” (concetto generalmente troppo limitato) ma di intrattenimento controllato tramite un joypad. Uno dei primi passi verso nuovi videogiochi dove anziché tentare di replicare lo stile dei cartoni o dei film con lunghe sequenze animate non interattive e moltissimi dialoghi, si cominci invece a raccontare davvero una storia. E, così facendo, si possa raggiungere un livello analogo di coinvolgimento sentimentale puntando l’accento su quegli elementi che possono essere comunicati soltanto dai videogame.

Iconoclast Game

Di Lorenzo Pizzanelli va ricordato Iconoclast Game, videogioco sulla storia dell’arte creato nel 2003. Si tratta di un’avventura artistica elaborata in forma di videogame nel tentativo di introdurre un ragionamento critico sulla stessa storia dell’arte. Nato per proporsi come la prima opera-videogioco in assoluto (anche se non lo è affatto), utilizza il linguaggio videoludico per condividere una riflessione colta sulle radici e il destino dell’arte occidentale – dal tempo dei bizantini ai giorni nostri – in maniera partecipata, accessibile a tutti e divertente.
Tempo prima di togliersi la vita nella notte tra il 27 e il 28 settembre 2010, Pizzanelli aveva denominato tale pratica “Play Art” e Iconoclast Game ne è un esempio raffinato e intelligente. L’eroe di questo titolo è Marcel Duchamp (che nel gioco ha il volto dello stesso Pizzanelli), agente speciale del pensiero anticonformista in missione nel museo/tempio dell’arte occidentale per riconsegnare la libertà ai capolavori tenuti prigionieri, distruggendoli allo scopo di redimere le idee originare che vi sono intrappolate e innalzarle in volo verso l’Iperuranio celeste. La critica del videogioco è chiaramente rivolta alla musealizzazione che ha reso “aggressivi” i capolavori, imprigionati come belve in cattività. Per poterli restituire all’originaria pienezza di significato, il giocatore deve muoversi all’interno di smaglianti livelli (costruiti da collages con particolari di diverse opere d’arte) per raggiungere e sfidare il David di Michelangelo, la Medusa di Caravaggio, la Gioconda di Leonardo, quella “ritoccata” dallo stesso Duchamp e tanti altri loro magnifici compagni in una serie di duelli. L’ultima allegoria nonché ironica analisi dell’arte, della sua storia e dei meccanismi della fruizione, donataci da parte di Pizzanelli.

Super Columbine Massacre RPG!

Super Columbine Massacre RPG! è un art game controverso che deve la sua fama proprio alle moltissime critiche che lo hanno colpito nell’arco degli ultimi anni. Venne creato da Danny Ledonne nel 2005, ispirandosi al dramma della strage di liceali americani nella Columbine High School del 1999 (argomento trattato pure dal film Elephant di Gus Van Sant, 2003) e, proprio per questo, fu al centro di durissime polemiche.
Realizzato in sei mesi di lavoro con RPG Maker 2000 e rilasciato gratuitamente online, si tratta di un piccolo gioco di ruolo amatoriale in 2D – graficamente povero e dall’audio scarno – che ripropone l’episodio di cronaca nera dal punto di vista dei giovani criminali.
Prendendo spunto dal dolore causato da un fatto reale e inserendolo nella finzione del mezzo videoludico, Super Columbine Massacre RPG! permette di esplorare le ore finali nelle vite degli studenti assassini Eric Harris e Dylan Klebold, dei quali il giocatore assume i ruoli per “giocare al massacro”, vivendo dei flashback relativi a parti delle loro esperienze. Il videogioco ricostruisce l’intera vicenda di Eric e Dylan cominciando proprio dal mattino della sparatoria e seguendone le azioni fino alla tragica fine. Ed esattamente per questa fedeltà alla cronaca ha fatto nascere un acceso dibattito riguardo ai videogame e alla loro influenza sociale.
Le reazioni a Super Columbine Massacre RPG! furono contrastanti. Da un lato venne rimproverato di banalizzare la strage di vite innocenti e di incitare alla violenza, mentre dall’altro fu contemporaneamente lodato come un’opera degna di plauso. La grafica cartoonesca venne considerata dai critici come oscurante il messaggio drammatico del gioco. Tuttavia ricevette anche acclamazioni come videogame che trascendeva le associazioni stereotipiche del medium come intrattenimento per bambini. I temi e il contenuto dell’opera di Ledonne emersero prepotentemente all’attenzione dell’opinione pubblica, essendo inclusi in discussioni sulla possibilità che i videogames causino violenza. Poco più tardi il titolo fu additato perfino come uno dei possibili fattori motivanti la sparatoria del 2006 al Dawson College. Venne oltretutto rifiutato dall’edizione 2007 del concorso Slamdance Guerrilla Games Competition per videogiochi indipendenti e, come segno di protesta contro la sua esclusione, diversi sviluppatori di indie-game decisero di appoggiare Ledonne ritirando i loro titoli, come Braid di Jonathan Blow, Castle Crashers di The Behemoth e flOw dei Thatgamecompany.
Ledonne concepì Super Columbine Massacre RPG! partendo dalla sua stessa esperienza come vittima di bullismo e dall’effetto negativo che l’annuncio della strage ebbe nella propria vita. Molto semplicemente, il gioco rappresenta una critica su come i media abbiano fatto sensazionalismo sulla tragedia, colpevolizzando il ruolo dei videogame e presentandola come una parodia dei videogiochi stessi. L’obbiettivo dichiarato di Ledonne era unicamente quello d’invitare il pubblico a rivivere l’intera triste vicenda a partire dalla prospettiva dei due protagonisti, non tanto per discriminarli o prendersi gioco delle loro vittime ma per provare a capire qualcosa di più sul loro disagio esistenziale, sulle motivazioni che li hanno spinti.
Ad oggi Ledonne è ufficialmente riconosciuto tra i massimi esponenti dei videogame in quanto forma emergente di arte e nel 2008 ha prodotto Playing Columbine, un documentario riguardante l’impatto mediatico causato proprio dal suo gioco.

Okami

Nel 2006 Clover Studio produsse Okami. Diretto da Hideki Kamiya, questo titolo nato per PlayStation 2 e poi convertito per Nintendo Wii è un gioco d’azione e puzzle di notevole grafica cel-shaded, ispirata allo stile delle antiche xilografie del Medioevo giapponese (che gli dà pure un’ambientazione cronologica e geografica) e si sviluppa attorno all’utilizzo del “Pennello Celestiale”, una particolare tecnica divina che permette di disegnare per compiere miracoli e progredire nel gioco, consentendo al giocatore di partecipare al grande disegno complessivo che l’intero videogame rappresenta, invece che limitarsi a guardarlo.
Una caratteristica particolare del gioco è proprio l’uso di tale funzione, con la quale il giocatore può “dipingere” sullo schermo usando lo stick analogico sinistro del joypad o, meglio ancora, il telecomando Wii (a seconda della consolle utilizzata). In base alle forme che disegnerà si creeranno nel gioco effetti diversi (ad esempio è possibile generare un forte vento disegnando una spirale, tagliare i nemici a metà disegnando una linea su di loro, creare ponti, ecc.) grazie alle tecniche imparate man mano nel corso del gioco, dopo aver liberato le dodici divinità del Pennello Celestiale dalla loro prigionia.
Quest’opera racconta la vicenda di una terra antica che si salvò dall’oscurità grazie all’intervento ultraterreno della dea del sole, Amaterasu, scesa nel mondo degli umani sotto forma di lupa bianca. In Okami il giocatore controlla proprio tale insolita protagonista dai poteri sovrannaturali e, nei combattimenti, può sconfiggere i nemici adoperando una combinazione di armi usate insieme alle varie tecniche di combattimento e l’ausilio stesso del Pennello Celestiale.

flOw

Thatgamecompany è un team di giovani sviluppatori americani di videogiochi fondato nel 2006 da Kellee Santiago, Jenova Chen e Nicholas Clark, emersi da un gruppo di sette studenti dell’Interactive Media Division della University of Southern California che nel 2005 aveva realizzato il videogame Cloud (dove il giocatore interpreta una nuvola in cielo guidata da una bambina volante).
Dopo aver visto il loro primo titolo, la Sony chiese a quelli che sarebbero stati i membri della Thatgamecompany di formare tra loro un gruppo per produrre tre giochi scaricabili per PlayStaion 3. Purtroppo Cloud era un videogame impossibile da realizzare per una compagnia così piccola, così decisero di creare flOw, nato a partire dal progetto di tesi di Jenova Chen, nel quale il giocatore conduce l’esistenza di un microrganismo acquatico in un fondale marino, mangiando creature più piccole per crescere e combattere organismi più grandi e per non finire a sua volta mangiato. Le differenti creature che il protagonista assimila nel corso del gioco danno luogo all’apprendimento di nuove capacità, portandolo di volta in volta ad evolvere anche nell’aspetto fisico.
In Flower – sviluppato come “successore spirituale” di flOw e rilasciato nel 2009 – il giocatore controlla invece i movimenti di un petalo sospinto dal vento che deve volare verso i fiori presenti nei prati dei livelli di gioco per aggregare vari altri petali a quello principale. Ritenuto un’esperienza emotivamente coinvolgente (nonché un successo di critica), l’arco narrativo di questo titolo prende forma attraverso la rappresentazione visiva di spunti sentimentali: Flower è stato infatti destinato a suscitare emozioni positive nel giocatore, piuttosto che essere solo una sfida o un videogioco divertente.
Sul loro sito, i Thatgamecompany hanno dichiarato che nei loro giochi intendono “comunicare diverse esperienze emotive che l’attuale mercato dei videogame non offre”. Ritengono infatti che la gamma di sentimenti che la maggior parte dei videogiochi suscitano nel pubblico sia stata finora molto limitata e, proprio per questo, hanno scelto d’impegnarsi nella ricerca per la creazione di “opere d’arte videoludiche”, rimuovendo dal loro operato gli elementi di gioco e le meccaniche che non provocano la risposta desiderata nei giocatori.
Attualmente il gruppo continua a collaborare con la Sony per la produzione di videogames scaricabili dal servizio PlayStation Network, per il quale il primo gioco sviluppato da loro è stato una versione migliorata di flOw (che in origine era in Flash) pubblicata nel 2007. Ad oggi stanno lavorando sul loro terzo titolo, Journey, un online-game per PlayStation 3 che verrà rilasciato nel corso del 2011.

Braid

Creato da Jonathan Blow (gruppo Number None) e rilasciato in versione definitiva nel 2006 dopo tre anni di sviluppo, Braid è uno splendido platform 2D con elementi rompicapo che consente al giocatore di manipolare le leggi fisiche dello spazio/tempo per sconfiggere i nemici, evitare la morte e concludere i puzzle di ogni livello. Si tratta di uno dei migliori esempi di videogame d’arte che ha ispirato vari altri titoli del versante indipendente, tra cui Limbo dei Playdead Studios e Time Fcuk di Edmund McMillen (autore, inoltre, anche di Aether).
A differenza della prima versione del 2005, che presentava gli sprite dei vari personaggi realizzati dalla mano dell’illustratore e game designer Edmund McMillen, quella definitiva – ridisegnata completamente da David Hellman, che ne aveva già curato gli sfondi – risulta essere meno fumettistica e dallo stile pittorico ed ispirato.
All’interno di Braid il giocatore si trova nei panni di Tim, un “uomo qualunque” in giacca e cravatta che cerca di salvare una principessa, sua ex fidanzata, rapita da un cavaliere malvagio. Come menzionato poco sopra, si tratta di un platform piuttosto classico all’apparenza, ispirato sotto più di un aspetto alle avventure di Super Mario. In quest’opera sono infatti presenti alcuni omaggi ai titoli Nintendo: uno dei livelli richiama Donkey Kong (per l’esattezza è il secondo livello del quarto mondo, intitolato non a caso “Jumpman”) mentre alla fine di ogni mondo vi è un castello con una bandierina, una volta ammainata la quale veniamo raggiunti da un tirannosauro di pezza che gentilmente ci riferisce: “Mi spiace, ma la principessa è in un altro castello” – aspetto ripreso dal celeberrimo Super Mario Bros.
Braid racchiude al suo interno gli elementi più tipici dei videogiochi a piattaforme, ma la vera particolarità di questo titolo è la possibilità di “riavvolgere” il tempo, similmente a Prince of Persia: Le sabbie del tempo (Jordan Mechner per Ubisoft, 2003). Il riavvolgimento temporale rappresenta le fondamenta del videogame, rivelandosi infatti una caratteristica necessaria per risolvere la maggior parte degli enigmi, e si può attuare ogni qualvolta lo si desideri. In questo modo il giocatore ha la possibilità di tornare sui propri passi, imparare dagli errori e correggerli. La trama ed il gameplay particolare di Braid ruotano attorno a questo assurdo immaginifico, il paradosso del “what-if”.
In quest’opera non esiste quindi il concetto di morte perché lo scorrere del tempo è relativo e soggetto alla nostra volontà. Non essendoci la possibilità di morire, non esistono game over e neppure limiti temporali (Braid è anch’esso privo di barre di stato, ripristini d’energia, vite extra, power-up e così via). Ad ogni morte accidentale di Tim, il giocatore può infatti premere un tasto e riavvolgere la timeline al fine di rimediare all’errore, evitandolo o correggendolo. Ma questo è solo l’inizio, la punta dell’iceberg dell’intero meccanismo. In verità il gioco ci costringe a ragionare in maniera più ampia e non lineare, cercando di capire come questo potere possa rendersi utile nelle situazioni di ogni livello per essere sfruttate a proprio vantaggio. Il giocatore è infatti sollecitato a usare il cervello piuttosto creativamente, a differenza di quanto viene normalmente richiesto nei soliti platform game. Ogni mondo, oltre a presentare una propria affascinante ambientazione, richiede utilizzi differenziati delle abilità temporali di Tim.
Braid ci aiuta a scardinare quell’invisibile porta che divide il mondo materiale – fatto di scelte che portano a delle conseguenze – da quello introspettivo ed inconscio, onirico, dove il tempo perde completamente di significato. Fin dai primi istanti di gioco scopriamo il fine ultimo che ha animato Jonathan Blow nella creazione di Braid, ossia quello di creare una sorta di “metafora videoludica” della vita e dell’inconsistenza del tempo all’interno della nostra mente – memoria e fantasia – allegorizzata dalla casa di Tim che si presta magnificamente a questa particolare interpretazione dell’esistenza, del desiderio e della frustrazione umana, che inconsciamente si sbarazza del tempo per darsi modo di rimediare ad errori fatti in un passato altrimenti immodificabile.
La casa è lo scenario di gioco ed è divisa in sei stanze: dietro ogni porta, un mondo immaginario con i suoi livelli. Mondi dove Tim trova ristoro, dove tutto è possibile ed in cui comincia a cercare la sua amata principessa. Come in un sogno idilliaco che, man mano che si avanza nel gioco, diventa presto un incubo terribile. Oltretutto questo gioco ha anche una profondità di trama tale da contenere almeno tre livelli di lettura, ripiegati uno dentro l’altro, in modo da permettere varie interpretazioni del suo significato intrinseco.

 

 

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4 Commenti

  1. Questo è il genere di articoli che vorrei leggere più spesso su Nazione Indiana. Oltre a cercare su en.wikipedia maggiori informazioni sui giochi citati, che non conoscevo molto, mi viene in mente il videogame come letteratura, ad esempio nelle polistorie pubblicate da Quintadicopertina, casa editrice il cui fondatore e alcuni degli autori sono stati progettisti di giochi e MUD.

  2. C’è sempre una concorrenza, una ostilità da autodifesa prevenuta ed eccessiva, tra i “generi dell’arte”, e allora lo scrittore si sentirà sempre e comunque superiore al fumettista come fino a poco fa chi faceva “narrativa” si sentiva sempre e comunque superiore al “giallista”, al “fantascietifico”, e via così.

    La contaminazione verso l’altro, e verso l’alto – verso una maggiore intensità, lo intendo così – è sempre proficuo, e un videogioco che apprende dall’arte sarà più potente, così come sara più potente lo scrittore che saprà cercare in ambiti spesso snobisticamente relegati a roba-per, secondo la logica che relega i Simpson ai bambini perché sono cartoni animati e Michelangelo agli imprendiotir perché gli operai c’hanno le battaglie-concrete da affrontare.

    Perciò mi è piaciuto questo articolo! e per come non ha forzato nessuna parola, come ad abbassare i bip-bip e le colonne sonore e i lampi di luce che assordono e abbagliano il mondo stesso dei videogiochi, rendendo difficilissimo cercarci qualcosa di valore nell’accozzaglia commerciale.
    Proprio come nell’editoria, essì.

    Un saluto!,
    Antonio Coda

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