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La manutenzione della sega elettrica

di Francesco Permunian

la casa del sollievo mentaleGirolamo Toppi (paròn Giro, come era noto nel paese e in tutto il circondario) aveva perciò l’abitudine di passeggiare in casa con passo felpato e guardingo, fidandosi poco anche di transitare da una stanza all’altra. Il semplice atto di aprire una porta costituiva un problema, visto che poteva spalancargli d’incanto abissi sconosciuti.

Le finestre erano chiuse da anni, il portone d’ingresso sbarrato e apribile soltanto dall’interno. Per uscire, sua moglie era costretta a sgusciare da un pertugio che dava sul retro della casa. Al rientro, doveva suonare il citofono e pronunciare, con voce chiara e squillante, la formula scaramantica Chi non vigila è perduto!

Ombra tra le ombre, Girolamo vagava inquieto nella sua fortezza impugnando una piccola pila che dirigeva con sospetto verso il soffitto e nei cantoni più bui. A rovistare tra sporcizia e ragnatele, titubante eppur smanioso di scoprire chissà quale minaccia, chissà quale macchia o infamia oscura.

Dopo il pranzo, si impiantava regolarmente davanti allo specchio della sala e se ne stava là a guardarsi la lingua per ore intere. La lingua, si sa, è la cartina di tornasole della salute e quindi per esaminarla meglio, spesso Girolamo si legava la pila sulla fronte, il che lo faceva assomigliare – sia detto senza offesa – a un folle minatore casalingo.

In una tasca, mescolato ai santini e ai purganti, teneva un curioso campanello a manico. Nell’altra tasca custodiva invece la peretta del clistere, che doveva essere sempre a portata di mano. A pronto uso, soprattutto nell’eventualità di un attacco improvviso di panico, durante il quale il respiro gli diventava affannoso e la fronte s’imperlava di sudore.

Preso nella morsa del terrore, strisciava allora per terra come un verme e suonava febbrilmente la campanella.

Avvisava in tal modo la moglie del suo orribile incomodo, ragion per cui l’Adele arrivava in soccorso di gran carriera spingendo avanti una poltrona sanitaria a rotelle che era munita, nella parte inferiore, di un apposito contenitore per gli escrementi. E non appena sistemato su quel singolare trono cacatorio, il signor Girolamo s’infilava il clistere su per il culo liberandosi dai lacci dell’angoscia con tremende scariche corporali.

Dopo di che riprendeva finalmente a respirare come tutti i cristiani. A far ritorno nel mondo dei vivi, con la coscienza tragica di chi ha visto l’inferno.

“Ah, la mia amata sedia-travaglio, il mio unico e infallibile carminativo!”, così lui chiamava con affetto quel seggiolone, sopra il quale si sentiva un papa sulla sedia gestatoria.

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Sgravato quindi l’intestino, paròn Toppi gironzolava su e giù per la casa in piena libertà, tenendo le calze alla cacaiola. Ossia con i pantaloni cascanti, a mezza gamba, e ciò per dare un po’ di refrigerio al suo culo martoriato. Quindi si buttava sul divano e cominciava a sfogliare la Bibbia, una vecchia edizione illustrata che gli avevano regalato i frati di Assisi. E ogni volta rimaneva incantato a contemplare certe figure di angeli e profeti così belli, sani e forti che parevano il ritratto stesso della salute.

“Allora sì che si era tutti nella grazia del Signore!”, mormorava avvilito, avvertendo oscuramente la colpa di essere nato in un secolo sbagliato.

“In un’epoca di folli e di clisteri”, sospirava e per scacciare il malumore, dava una tiratina alla cordicella che gli girava attorno al collo, a cui teneva appesa una borsa d’acqua tiepida per favorire la digestione. Dopo di che controllava la fascia elastica al polpaccio, dato che le vene delle gambe – a furia di stare sempre in piedi dietro il bancone della falegnameria – gli si erano gonfiate come dei tuberi di patate.

La bottega non l’aveva chiusa però a causa delle vene, ma per via di un dannato incidente con un seghetto elettrico in cui aveva rischiato seriamente di perdere la mano destra. Ci rimise ben tre dita, quella volta, e fu l’inizio della fine.

In seguito a tale infortunio, Girolamo decise di cessare ogni attività lavorativa per non mettere più a repentaglio la vita. Cominciò allora a considerarsi alla stregua di un mutilato, un individuo irreparabilmente lesionato degno ormai della pensione. Ciò nonostante non volle mai separarsi dal seghetto con il quale si era ferito, esibendolo come un trofeo a ogni visita medica.

Amava illustrare ai dottori la meccanica precisa della sua disgrazia, con estrema dovizia di particolari, aspettandosi in cambio da loro un’altrettanto precisa e mirata terapia del caso. Alla fine riponeva il seghetto dentro la custodia e se lo portava via manco fosse una reliquia, manifestando un attaccamento a dir poco eccessivo verso quell’attrezzo micidiale.

Sua moglie invece ne avrebbe fatto volentieri a meno di quel coso; fosse dipeso da lei, lo avrebbe sbolognato al ferrovecchio.

“Ti sbagli, cara, questo arnese può risultare ancora utile. Vedrai, Adele, un bel giorno vedrai e capirai!”, ripeteva lui con un’aria misteriosa e sibillina.

Ogni sera perciò lo tirava fuori e lo rimetteva in moto e poi se ne stava a fissarlo mentre girava a vuoto. Lo osservava in silenzio con una luce inquietante negli occhi e intanto si accarezzava la mano destra, quella mutilata.

La manutenzione della sega elettrica avveniva di solito dopo cena, era un modo per passare la serata. E spesso si protraeva fino a notte fonda dal momento che paròn Giro – ascoltando il ronzio ossessivo di quella lama metallica – s’illudeva di segare, sminuzzare e neutralizzare il male oscuro che l’opprimeva, le tenebre che sentiva avanzare minacciose nella sua mente.

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Allattare un mostro

Tali erano dunque le curiose e lamentevoli condizioni in cui versavano i coniugi Toppi nel momento in cui il figlio, dopo tanti anni, finalmente li rivide.

Sembrano due mendicanti in attesa di un miracolo, pensò Ludovico, e si avvicinò a sua madre per abbracciarla.

“Mamma!”, fece appena in tempo a balbettare che suo padre, con una mossa a sorpresa, afferrò la donna per i capelli e gliela strappò via senza tanti riguardi.

“Non vogliamo nulla da te, sappilo. Le tue manine di bibliotecario, abituate ai libri, sono troppo delicate per dei vecchi infermi come noi”, gli rinfacciò quell’ingrato. E poi, con insopportabile magnanimità: “Ciò nonostante, noi siamo pur sempre i tuoi genitori, ti piaccia o no. Ti prego di portare le valigie e accompagnarci nei nostri alloggi presso l’Albergo del Mutilato, dove sarai ospitato per tutto il tempo necessario”.

I tre si avviarono quindi lungo il viale della stazione e dopo un po’ arrivarono davanti a un palazzo che sorgeva nella parte bassa del paese, la più povera e malfamata.

L’edificio doveva certamente aver conosciuto giorni migliori, dato che era ricoperto in lungo e in largo da grosse crepe e da numerose macchie di umidità. Eppure, nonostante sembrasse sul punto di crollare, appariva ancora così imponente che a malapena se ne poteva intravedere il tetto, il quale si dileguava nella luce crepuscolare della sera.

“Da quando tuo padre si è ammalato, abbiamo dovuto sostenere tante di quelle spese che neanche te lo immagini, figlio mio!”, si scusò sua madre. “E di conseguenza ogni volta che ci mettiamo in viaggio per ospedali o santuari, veniamo accolti in qualcuno dei vari Alberghi del Mutilato sparsi in Europa, sono gli unici ostelli che ci possiamo permettere.

“Certo, se tu avessi seguito le orme di tuo padre, avresti potuto prendere il suo posto quando lui si è infortunato. La Premiata Falegnameria Toppi non avrebbe chiuso i battenti, non c’è alcun dubbio, e invece hai preferito fuggire dalla nostra casa e rifugiarti in quella di zia Arpalice, la pazza di famiglia! Era inevitabile che tuo padre, il quale contava soltanto su di te, sprofondasse nei gorghi della depressione e della malinconia. Con la tua fuga, in pratica, gli hai sferrato il colpo di grazia e la sorte per noi fu segnata, è giusto che tu finalmente lo sappia.

“‘Abbiamo allevato un mostro!’, fu il suo commento il giorno in cui ci voltasti le spalle. Da allora non volle più sentir pronunciare il tuo nome e ogni volta che io mi arrischiavo a parlargli di te, invariabilmente lui mi ammutoliva con queste parole: ‘Stai zitta tu, che hai allattato un mostro!’.

“Adesso perciò ascoltami bene, ti prego. Per permettere a tuo padre di riprendersi dalle fatiche del viaggio, è necessario che tu ti allontani da lui visto che la tua vicinanza non gli consente di rilassarsi, né tanto meno di chiudere occhio. Il fatto che un giorno tu lo abbia ripudiato gli ha rovinato il sonno per sempre. Sembra incredibile, ma è la verità. E quindi mentre ora noi ci riposiamo un po’ in portineria e scambiamo quattro chiacchiere con la signora Ninetta, tu vai pure a dare un’occhiata in giro in compagnia di Cristoforo, il custode dell’Albergo, il quale sa esattamente ciò che deve fare. Vai dunque con lui, ti mostrerà i segreti di questo antico palazzo di cui tuo padre è un socio onorario. Vedrai, non tutto qui è da buttare, ci sono ancora degli appartamenti più che decorosi in cui anche tu potresti vivere da gran signore”.

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[tratto da La casa del sollievo mentale di Francesco Permunian, Nutrimenti edizioni, 2011] Amazon

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