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Su “Coffe-table book” di Alessandro Broggi

di Andrea Inglese

Alessandro Broggi fa parte di quel drappello di autori che, in questi ultimi anni, hanno riflettuto criticamente sulla nozione di genere poetico e hanno approntato delle strategie per neutralizzare molte delle sue pretese tematiche, stilistiche e lessicali. Broggi, per utilizzare una metafora del poeta e teorico francese Jean-Marie Gleize, è uno scrittore intento ad “uscire” dalla poesia. Questa scelta appare già evidente nella predilezione per le prose brevi, che costituiscono, ad oggi, la parte più cospicua della sua opera edita. L’immagine dell’uscita dal genere si attaglia al lavoro di Broggi, anche perché implica una preventiva interiorità, ossia l’essere familiari con la tradizione e le caratteristiche di genere, ma suggerisce anche un percorso non costruito per contrasto e fratture, come accade invece in forme di scrittura che si riallacciano all’esperienza delle avanguardie letterarie del secolo scorso. Broggi non è mosso da una semplice attitudine polemica nei confronti della dimensione lirica. Non costruisce, insomma, il suo itinerario testuale per semplice opposizione nei confronti del genere. A lui interessa, semmai, esplorare dei territori che sono trascurati sia dalla poesia che dalla narrativa contemporanea.

Questa attitudine rende il lavoro di Broggi di difficile assimilazione nello spettro delle posizioni riconoscibili all’interno del campo poetico. Della postura del poeta, portatore di un’intima e rara verità, Broggi fa tabula rasa: sparisce la nozione di voce autentica, di tesoro autobiografico e di stile personale. Simultaneamente, Broggi azzera anche le pretese della visuale avanguardista: trasgredire la lingua, per trasgredire la realtà. Non c’è in lui né vitalismo rivoluzionario né convinzione di realizzare, nell’ambito della scrittura, una privilegiata esperienza di emancipazione. Questo volontà di smarcarsi da due delle posizioni più redditizie nell’ambito del campo poetico, non gli precludono però una specifica capacità critica. La scrittura per lui è una forma di critica nei confronti delle istituzioni letterarie e, più in generale, delle aspettative comuni, che governano la fruizione di un prodotto culturale.

Se molta poesia persegue ancora il fantasma di un’esperienza autentica e singolare, Broggi allestisce il suo laboratorio nel cuore dell’industria dello spettacolo, laddove le strategie di mercificazione giungono ad investire persino la sfera dell’intimità. (Fredric Jameson parlava all’inizio degli anni Ottanta di “colonizzazione dell’Inconscio”, riferendosi alla diffusione dei media generalisti e dell’industria pubblicitaria). Egli opera prevalentemente su materiali preesistenti, che sono caratterizzati dalla serialità e inautenticità tipica della produzione giornalistica, televisiva, cinematografica e digitale di massa. Ma tali materiali non sono trattati attraverso tecniche di montaggio o cut up, con lo scopo di creare effetti d’incongruenza e sorpresa. Essi, al contrario, subiscono quasi un processo di depurazione, manifestandosi in una sorta di asettica e levigata compiutezza. È quanto avviene nell’ultima plaquette di versi intitolata Coffe-table book, uscita nel 2011 nella collana “Inaudita”, per Transeuropa. Qui l’autore raccoglie ventisei quartine, che fungono da teche linguistiche, per un’archeologia critica della lingua contemporanea. Ogni verso esibisce un sintagma nominale, che sta in un rapporto vago con gli altri tre della quartina. Due esempi:

 

girotondo di luce

quel che resta del mare

la quiete tra le pietre

la forza del destino

 

*

 

la cronaca del paesaggio

dentro il calore dei giorni

grandezza del quotidiano

tra l’astratto e la figura

 

Abbiamo così l’esempio di una modularità e serialità del verso aberranti, nel contesto di una lingua che si vorrebbe poetica, ossia originale e individuale. Il lettore si trova confrontato a precipitati di lingua-merce, presentati in una fase intermedia del ciclo di vita del prodotto linguistico, tra lo stoccaggio delle componenti elementari e l’assemblaggio finale. Ovviamente Broggi non preleva alla fonte, dagli stampi linguistici, come se si potesse accedere a un fantomatico laboratorio della produzione massificata, ma compie un rigoroso lavoro di decantazione dell’italiano attuale, allo scopo di rendere questi sintagmi orecchiabili, perfettamente oscillanti tra significazione elementare e radicale insignificanza.

Il risultato di un tale lavoro ha spinto alcuni critici a parlare di un’assenza di differenzialità, che renderebbe indistinguibile la lingua letteraria da quella non letteraria. Secondo, ad esempio, Paolo Zublena, ciò che caratterizza la scrittura di Broggi, oltre che quella di Bortolotti, Giovenale e Zaffarano, è “la revoca in dubbio dell’esistenza stessa di qualcosa come un testo letterario (e quindi di un oggetto d’arte) quale ente distinto dal non letterario (dal non artistico)” [postfazione a Marco Giovenale, Quasi tutti, Polìmata, 2010]. Credo che questa distinzione concettuale sottolineata da Zublena sia indispensabile, per meglio apprezzare e comprendere il lavoro di questi autori. D’altra parte, penso che l’assenza di differenzialità sia un procedimento interno alla scrittura letteraria così come è interno alla pratica artistica. La non differenzialità non può acquisire senso e forza che a partire da alcune convenzioni proprie all’ambito letterario ed artistico. Si tratta, quindi, di una tensione irrisolvibile, che qui è radicalizzata in modo consapevole, ma è in qualche modo già costitutiva del paradigma lirico della modernità, dal momento che quest’ultimo si definisce, soprattutto nel Novecento, a partire non solo dalle “periferie antiliriche” – come ben le ha chiamate il critico Guido Mazzoni – ma anche dall’intrusione continua del non poetico (l’oralità, i linguaggi tecnici, la prosa, ecc.) nella lingua poetica.

In ogni caso, nelle prose come nelle poesie di Broggi vi è un esplicito sforzo, per eliminare dal testo tutte le marche tipiche della letterarietà. Questi procedimenti, però, non sono fini a se stessi, e vanno compresi alla luce di quelle che sono le tematiche privilegiate dall’autore. Nella poesia, l’autore sembra concentrarsi – stando a Cofee-table book – sulle formule verbali della felicità, che paiono inesauribili, in quanto come una sorta di flusso ininterrotto devono fare da supporto alla merce, sono il mezzo dentro cui la merce trascorre, sostenuta e nutrita. Per quanto riguarda le prose, invece, Broggi è interessato principalmente alla sfera delle relazioni umane, di potere e d’affetto, familiari e sociali. Egli esplora questi ambiti, a partire da quel deposito di stereotipi che penetrano capillarmente ogni forma di narrazione quotidiana. Nel fare questo, Broggi si caratterizza per una metodicità e radicalità fuori dal comune. Egli non si limita a giocare ironico o compiaciuto con gli stereotipi, come tanti scrittori fanno ai giorni nostri; li tratta semmai con occhio clinico, impietoso: li allestisce in piccoli ritagli testuali, che non concedono nulla al gusto del lettore colto. Siamo così confrontati al fascino enigmatico dell’anodino. I racconti per schegge e segmenti di Quaderni aperti e di Nuovo paesaggio italiano sembrano interrogarci sulle possibilità residue di significazione di una lingua incolore. Eppure, in questo lavoro rigoroso, Broggi si mostra perfettamente padrone dei suoi mezzi di poeta e riesce a trasferire con grande efficacia la cura per il ritaglio verbale, la scansione strofica, la sospensione del senso, su materiali narrativi usurati e poveri stilisticamente. In questo modo, ci permette una sorta di esercizio della vigilanza nei confronti dei territori più intimi, familiari, apparentemente spontanei e singolari, della nostra lingua quotidiana. Il suo corpo a corpo con gli stereotipi mostra che, nonostante tutto, è possibile guadagnare una posizione di esteriorità rispetto alle produzioni e ricombinazioni seriali di enunciati, che transitano nei flussi dei media di massa.

 

 

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49 Commenti

  1. a chi fosse interessato mi permetto di segnalare proprio riguardo al libro di Alessandro Broggi il bell’ articolo di Stefano Guglielmin del novembre 2011 che suscitò diverse impressioni tra le quali anche le mie che sono le stesse che scriverei a questo oggi. grazie.

    qui

    un saluto
    paola

  2. Articolo molto bello, traccia una chiara mappa sopra un territorio impervio, indicandone i possibili tesori. “Possibili” perché aldilà del piacere di riuscire a comprendere tutti questi elementi di orientazione, si tratta poi di stabilire se possa bastare così oppure sia il caso di inoltrarsi “di persona” in questi territori. Personalmente, impegnarmi in un simile “esercizio di vigilanza” non mi sembra così prioritario, soprattutto a causa dell’impressione che si tratti di un lavoro volto a creare epifanie di senso – ed a quadagnarsi credito – fra colleghi e addetti ai lavori, e non certo rivolto all’Average Joe, del quale in fondo non si fa che postulare un’abissale imbecillità anche quando tenta di elevarsi attraverso i trascurati scaffali della poesia.

  3. ho letto le sue prose (altrove – Le parole e le cose) con grande piacere e trovo precisa l’analisi che qui viene fatta senza troppi giri di parole; le poesie, mi pare che non rispecchino esatamente la fuga né il rifiuto dal lirismo, come si è detto, e non credo che sia un male, anzi, trovo che abbiano una chiave tutta personale e “secca” che funziona, bene.

  4. caro elio,
    io non credo tanto nella figura del “lettore standard”, credo invece molto in quella del lettore che non è per forza un adetto ai lavori. Non ne conosco tantissimi di lettori di poesia, che non sono anche critici, studiosi di letteratura, o poeti essi stessi. Ma ce ne sono e di profilo culturale molto vario. Non credo che esista nessun abisso tra lettore non addetto e lettore addetto, per quanto riguarda la poesia. Essendo io un wittgensteiniano, credo che la familiarità sia tutto. In ogni campo, anche il tennis, il gusto si affina vedendo molte e molte partite di grandi giocatori. Anche se non si è neppure capaci di fare un rovescio. Così con la poesia. Più se ne legge, più si irrobustisce sia la curiosità che la fermezza del giudizio.

    L’aspetto più spinoso della faccenda riguarda secondo me un punto preciso. Non c’è essenza della poesia, non c’è una lista di norme chiare, si tratta di una pratica aperta, senza confini netti. Questo fa impazzire un sacco di gente. Ma è anche la forza della poesia. Proprio per questa mobilità dei confini, un lavoro di riflessione – come quello proposto qui sopra – dovrebbe essere utile per tutti.

    • mi piace l’idea di Andrea che la poesia non abbia essenza. così come non ha essenza nessun aprirsi del senso ad una comunità. Si dà, direbbe Heidegger, e ciò ci riguarda profondamente. Troppa poesia in rete mima invece un’essenza imparata malamente a scuola e soprattutto in rete, con grande danno per la comunità che così si acquieta nel bel canto, nel verso che consola, da portare in tasca per quando siamo tristi: un verso-medicina che non cura la malattia, ma solo aiuta a sopportarla. Forse questo può bastare ad un lettore, ma non deve bastare ad un autore. E questo Broggi lo sa bene.

  5. interessante.Resta da sperare che non si voglia far diventare di moda una tendenza artistica,un movimento,per lasciarlo indietro al primo guado,o sotto il vulcano.E anche in quest’ultimo caso mi piacerebbe avere il tempo e la concentrazione necessaria per capire come a finire le idee abbandonate a metà strada.Urgerebbe che qualcuno,corredato di cartografia adeguata,si ritagliasse il ruolo di ufficiale di collegamento tra i media e le ispirazioni scappate dai laboratori in territorio comanche.Buona marcia

    http://www.youtube.com/watch?v=EpzwVJHZxdU

  6. Caro Andrea
    io vedo un problema tanto nella poesia di Broggi che nella difesa che ne fai. Se mi devi convincere che l’operazione di critica e messa a nudo delle aspettative comuni e delle istituzioni letterarie va fatta, sfondi una porta aperta, in me. Da questo punto di vista non potrei che essere d’accordo con Broggi. Mi limiterei a obiettare che il XX secolo ha già ripetuto più volte questa operazione di carattere critico, da Duchamp a Piero Manzoni, da Tzara che espone la sua ricetta di poesia estratta a caso, a Balestrini che trova modi brillanti per fare in fin dei conti qualcosa di simile.
    Il problema di queste operazioni è che in molti casi si risolvono nella provocazione, il che potrebbe anche non essere poco (in certi momenti è moltissimo) ma che alla lunga smette di essere sentita come tale: i borghesi non si spaventano più, dopo un po’. Credo che questo dipenda essenzialmente dalla natura di operazione critica che lavori di questo genere esibiscono, compresi quelli di Broggi. Una presa di posizione è infatti qualcosa che richiede l’accordo (o il disaccordo); e, lo ripeto, non ho nessun problema a sentirmi d’accordo con Duchamp, Balestrini, Broggi, e le tue osservazioni qui sopra.
    Tuttavia, mi pare, un prodotto estetico non si limita a chiedere un accordo (o disaccordo). Se il problema di Broggi fosse questo, meglio farebbe a scrivere saggi. Se non lo fa, è evidentemente perché ritiene che la forma di espressione che sceglie (che la chiamiamo poesia o meno) gli permetta di ottenere qualcosa di più da parte del lettore.
    E allora qui non si tratta più soltanto di difendere una posizione teorica. Mi si dovrebbe spiegare, piuttosto, perché dovrei apprezzare il lavoro di Broggi (al di là del sentirmi d’accordo con il principio etico che gli sta dietro). Poesia o non poesia che sia, mi interessa poco: certo sul modello della poesia essa lavora e con quello si confronta. Posso osservare e apprezzare (meglio, osservo e apprezzo) il lavoro sulle singole espressioni delle sue quartine, persino quello sul metro. E tuttavia, dopo che ho letto la seconda, la terza, la quarta, non riesco a trovare il senso dell’andare avanti nella lettura: il gioco mi annoia, mi sembra di averne già colto pienamente il senso. Provo la sensazione di avere davanti qualcuno che mi ripete troppe volte un’affermazione che condivido, sì, certo – ma basta, per favore!
    Se riduco la poesia (ma anche la prosa o qualsiasi altra forma espressiva) alle istanze critiche che la spiegano, l’ho già uccisa; o era già morta da sola. Le istanze critiche sono importanti, ma l’interesse del testo sta nella sensazione che, oltre a quello che ci è stato spiegato, ci sia ancora dell’altro, e poi dell’altro ancora – e che resterà ancora dell’altro, dopo qualsiasi interessante e utile spiegazione.
    Se vogliamo, l’essenza della poesia è quella di non essere riducibile a nessuna essenza. Ma il tuo testo critico rispetto alla poesia di Broggi opera proprio una riduzione di questo genere, a una qualche specifica essenza. E la poesia di Broggi, almeno ai miei occhi, non riesce poi a salvarsi da sola, proponendomi ancora a sua volta qualcosa di più.
    Sarà un limite mio, non lo escludo affatto. Credo però che la critica non mi dovrebbe spiegare solo perché dovrei trovarmi d’accordo con il testo poetico (quasi che fosse a sua volta un testo critico), ma anche perché mi ci dovrei, in qualche modo, appassionare. Non so quanto sia possibile – però dovremmo provarci.
    Ciao
    db

  7. Caro Daniele,

    sai che apprezzo il tuo lavoro, e anche la tua disponibilità al confronto. Ora, trovo che in questo tuo intervento emergano degli spunti importanti, ma anche – con tutto il rispetto – delle “vecchie solfe”, e un po’ di confusione.

    Partiamo dalle solfe, che così ce ne liberiamo subito. Purtroppo per alcuni, Duchamp e altri figuri simili hanno determinato il destino dell’arte nel Novecento. Non è colpa nostra, né di Broggi. Concedi una sorta di amnistia al passato. Le colpe di Duchamp non ricadono su Broggi. Anche perché Broggi è un’altra cosa. E, se lo si vuole prendere seriamente, bisogna prenderlo mettendo assieme i due versanti, prosa e poesia, facendo i conti con lui e non con gli spettri. In quasi ogni poeta possiamo trovare echi del passato, troviamo echi di Montale, di Sereni, addirittura di d’Annunzio, Pascoli. Dovremmo passare la vita a sollevare il ditino: eh ma c’è stato Montale, c’è stato Sereni… E dunque?

    Veniamo ora a un punto fondamentale.”Sarà un limite mio, non lo escludo affatto. Credo però che la critica non mi dovrebbe spiegare solo perché dovrei trovarmi d’accordo con il testo poetico (quasi che fosse a sua volta un testo critico), ma anche perché mi ci dovrei, in qualche modo, appassionare.”
    Correggiamo solo un punto. Nel mio lavoro critico, io non ho spiegato perché un lettore dovrebbe trovarsi d’accordo con Broggi. Tanto meno gli ho spiegato, che leggendo la poesia di Broggi fatalmente lui se ne appassionerà. Io quello che ho semplicemente fatto è stato il lavoro insostituibile del critico, almeno dalla modernità in poi. Ho cercato di spiegare perché Broggi nonostante i dubbi che si possano avere scrive “poesie” o, se non proprio poesie, qualcosa che ha che fare con la letteratura, che s’inscrive dentro questa pratica. E che quindi è in questo modo che va letto. Fine.
    Non posso dire altro. Al lettore poco familiare con le tante pieghe del fare poetico e che di fronte a Broggi potrebbe esclamare: ma cos’è questa roba?, a questo lettore io dico: guarda che la puoi leggere come una fuoriuscita dalla poesia, qualcosa che viene dalla poesia.
    Sto dicendo che la poesia di Broggi gli deve piacere perché è la migliore in circolazione? No. Gli sto dando delle istruzioni per l’uso. Se la leggi come poesia, o nei suoi paraggi, può funzionare bene.
    Questo secondo me può fare il critico. Cercare di spiegare perché certi colori sulla tela sono un quadro, un certo assemblaggio di materiali sono un’istallazione. Leggi quel “sono” in questi termini: “possono essere fruttuosamente visti come…”.
    So benissimo che le poesie di Broggi possono non piacere e essere considerate noiose. Perché non è il critico a decidere del successo di un testo, ma il lettore. Il critico serve a dire: guarda, questo è un testo, queso si legge come un testo. Io te lo dico, te lo segnalo. Ora che lo sai, giocatela tu con il testo. E vedi che succede.
    Tu troverai noioso Broggi, io trovo noiosa una gran quantità di poeti, che con le loro metafore, immagini ricercate, versi regolari o liberi, appassionano alcuni lettori. E’ bene e giusto dire cosa proviamo in quanto lettori, indipendentemente da ogni discorso critico.
    Ma bada bene, questo non significa in nessun modo inficiare il discorso critico. Infatti, il lettore e il critico non stanno facendo lo stesso discorso, e non mirano al medesimo oggetto.

    Confusione. Scrivi:”Se riduco la poesia (ma anche la prosa o qualsiasi altra forma espressiva) alle istanze critiche che la spiegano, l’ho già uccisa;” Ma chi ti ha detto che devi ridurre un testo alle istanze critiche, che non spiegano il testo, ma spiegano semmai come avvicinarti ad esso, da che angolo utilizzarlo? Poi sono affari tuoi vedere che succede, se funziona o meno.

    E ancora: “Se vogliamo, l’essenza della poesia è quella di non essere riducibile a nessuna essenza. Ma il tuo testo critico rispetto alla poesia di Broggi opera proprio una riduzione di questo genere, a una qualche specifica essenza.” Scusa, Daniele, ma sei uno studioso. Nei tuoi libri le usi con attenzione e in modo pertinente le parole. Che cosa intendi dire con questa frase? Se la poesia non ha una determinata essenza, vuol dire che NON ha un’essenza. Un sacco di pratiche umane non sono riconducibili ad essenze. Dire che la loro essenza è non avere essenza non mi sembra sia molto significativo. Ma ancora meno ha senso dire che io riduco la poesia di Broggi a una specifica essenza. Chi ha una visione essenzialistica della poesie dice fondamentalmente una cosa: tutti i tipi di poesia, sotto sotto, fanno la stesso cosa, riflettono una stessa legge. Io non nego che esistano dei paradigmi poetici dominanti, ma dico anche che la pratica poetica rimane una pratica aperta, mai riconducibile in tutto e per tutto a uno o più paradigmi già definiti. Il lavoro di Broggi è UNA delle cose che con la poesia, o partendo dalla poesia per andare oltre, altrove, si può fare.
    Se c’è una cosa che difficilmente mi si può attribuire è un’attutudine essenzialista, perché il pluralismo delle forme e delle pratiche è per me una convizione fondamentale. E gli strumenti teorici di cui mi servo – come il secondo Wittgenstein – confortano questa partito preso teorico.

    Mi hai fatto scrivere un quasi saggio. Bè, la tua, almeno, di provocazione è servita.

    A presto

    a.

  8. una osservazione sulla proposta liquidazione (a firma di inglese) delle “vecchie solfe” (a firma di barbieri).

    provo a riassumere per chiarezza.

    la “vecchia solfa” in questione proposta da barbieri è che il lavoro di broggi è inefficace o debole perché ripete forme e soluzioni espressive già largamente utilizzate dalle avanguardie storiche e da ciò che è seguito loro nel novecento. la “liquidazione” proposta da inglese è che è normale essere influenzati e ripetere soluzioni espressive dei maestri del passato e che gli autori di punta delle avanguardie storiche sono maestri del passato.

    a me sembra che la risposta sia fallace, per il motivo seguente. quando lo scopo di una poesia è quello di mettere a nudo delle aspettative comuni e delle istituzioni letterarie (ossia di agire contro l’inerzia e l’entropia dei sistemi di significazione) allora *è* un problema se si usano forme di messa in allerta, sovvertimento, ribaltamento, straniamento già usate ed abusate tanto da passare dall’essere – per dirla con lotman – “sistema primario” e non più “secondario”.
    perché queste forme hanno perduto, in conseguenza del loro uso, abuso e canonizzazione, la loro efficacia. se invece lo scopo di un’operazione
    poetica è un altro (magari di conservazione o riproposta di una tradizione)
    allora *non è* un problema riproporre tecniche soluzioni di maestri del passato.

    sbaglio?

    se non dovessi sbagliare, una posizione risolutiva potrebbe essere la seguente: il lavoro di broggi non è una mera riproposta delle soluzioni espressive delle avanguardie storiche ma ha caratteri di originalità e di ulteriorità molto significativi rispetto a quelle. sembra che inglese accenni a questa posizione quando scrive “Le colpe di Duchamp non ricadono su Broggi. Anche perché Broggi è un’altra cosa.” mi sembra una soluzione percorribile. sembra però richiedere uno sforzo critico più concentrato sulla caratterizzazione della discontinuità e della novità del lavoro di broggi rispetto a quello delle avanguardie che lo hanno preceduto. mi sembra però che in generale si preferisca sottolineare i tratti di continuità, come per esempio l’elaborazione di “strategie per neutralizzare molte delle” “pretese tematiche, stilistiche e lessicali” della nozione di “genere poetico” e simili tentativi di ‘messa in allerta’ o straniamento.

    ciao,
    lorenzo carlucci

    • > allora *è* un problema se si usano forme di messa in allerta, sovvertimento, ribaltamento, straniamento già usate ed abusate tanto da passare dall’essere – per dirla con lotman – “sistema primario” e non più “secondario”.

      Infatti, mi sembra che venga suggerita l’esistenza di una “modulazione” originale di tali forme. Banalizzando alquanto: le poesie di Broggi sono abbastanza ambigue da poter sembrare “belle” agli ingenui, i quali però, avvertiti che questa prima esca gastronomica è da evitare, saranno costretti a ricercare livelli di senso più difficile, astratto e paradigmatico e – come al solito in questi casi – converrà loro dare segno di riuscire a coglierlo, altrimenti non dimostreranno altro che insensibilità ed estraneità ai giochi e alle loro poste.
      D’altra parte non credo che la risposta di Inglese sia “fallace”: il critico deve cercare di estendere il più possibile la quota intersoggettivabile però un successo completo dissolverebbe la componente estetica, oscura, viscerale, ineffabile e *facoltativa* che costituisce l’oggetto come artistico o poetico.
      Anche in campo artistico, nessuno ripropone più il “ready-made” puro e semplice di Duchamp, che rappresenta un punto terminale sul piano concettuale: poiché l’arte si è rifiutata di terminarsi in quella mossa magistrale, è stato giocoforza reintrodurre in essa elementi degli fascinazione viscerale, per quanto sorvegliati e finemente intellettualizzati.

  9. Caro Andrea
    l’apprezzamento è reciproco. Se no non mi darei la pena di muoverti obiezioni.
    Rispondo alle tue controobiezioni.

    Sulla solfa. Non solo non ho paura degli echi (di Montale, Sereni, D’Annunzio, Pascoli o Duchamp), ma li trovo persino un fattore positivo. Senza echi non solo non c’è poesia, ma non c’è proprio niente: nemmeno un discorso innovativo può svilupparsi senza avere uno sfondo di riferimento riconoscibile. Mi spavento solo quando non riesco, in un testo, a vederci altro oltre a quello che ho già visto altrove. Questo è più facile che accada per un discorso critico che per un discorso poetico (o comunque espressivo), perché il discorso critico può essere riassunto, ridotto a un nucleo di idee, mentre quello poetico no. Nella misura in cui il discorso di Broggi viene ridotto a una semplice prospettiva di critica del linguaggio, allora mi emergono fortemente i discorsi di altri autori con cui è stata fatta la stessa cosa, a partire da Duchamp.

    Ma assumiamo che questa riduzione non sia possibile. Il mio problema con i testi di Broggi è che, leggendoli, non riesco a uscire dal piccolo orto di questa riduzione. Nota che questo non mi succede, per esempio, con molti testi, p.e., di Giovenale, che tu gli accosti (testi poetici – coi testi critici di Giovenale la polemica è aperta), ma che io ho forti motivi per apprezzare, e che non sento come riducibili a una qualche specifica istanza critica (tantomeno la mia, quando ci ho provato).
    Intendiamoci, il problema che ti pongo è un problema che mi sto ponendo io stesso, sulla funzione della critica, e io stesso, nel fare critica, non so quanto riesco a essere coerente (o quanto sia possibile esserlo) con l’idea di critica che mi sto facendo. Se ti ho scritto è proprio perché ho avuto la sensazione che attorno a un lavoro come quello di Broggi, i nodi dello stesso fare critica vengano un poco di più al pettine.
    Tu dici che, come critico, fornisci al lettore delle istruzioni per l’uso. Lo trovo corretto. Poi distingui il discorso del lettore dal discorso del critico, e anche questo mi trova d’accordo. E tuttavia, se funzione del critico è quella di far osservare al lettore che “qui c’è poesia”, è evidente che il critico deve aver già fatto una scelta precedente, e aver già deciso che ne vale la pena, che quello che ha letto e che sta presentando è stato trovato, almeno da lui, “non noioso”. Il fatto stesso di presentare, dunque, un testo poetico è in sé già un operazione di lettore che si rivolge ad altri lettori dicendo “Guarda qui, questo è interessante”.
    Questo, il critico non lo può ignorare. Ciò che mi domando è se sia sufficiente fornire al lettore delle istruzioni per l’uso per fargli capire le ragioni di un possibile apprezzamento. Non è una domanda retorica. Me lo domando davvero, perché sono consapevole che in molti casi io stesso non sono capace di andare più in là. Nello specifico, il tuo intervento non mi ha dato strumenti per apprezzare Broggi, ma solo per essere d’accordo con la sua operazione. In questo senso l’ho sentito come un’operazione di riduzione. Dovrei lavorare più a lungo di quanto non mi possa in questo momento permettere, per capire se, per esempio, il tuo modo di rapportarti criticamente a Giuliano Mesa fosse davvero diverso (mi riferisco a vari post degli scorsi mesi), visto che quegli interventi non mi sono affatto apparsi delle operazioni di riduzione; oppure se la differenza non stia piuttosto nel mio diverso apporto con il lavoro degli autori stessi di cui parli, giacché Mesa mi apre un universo che è, per me, chiaramente non riducibile alle parole della critica (con tutta l’utilità che, comunque, essa ha).

    Quella dell’essenza della poesia che starebbe nel non avere un’essenza era una boutade, ma una boutade anti-essenzialista. Il lavoro di Broggi è certamente UNA delle cose che con la poesia, o partendo dalla poesia per andare oltre, si può fare. Magari il punto è che questo “oltre”, stavolta, io non riesco a vedercelo e, stavolta, i tuoi suggerimenti non mi bastano. Resto fermo lì, in un’essenza da cui non riesco a uscire.
    Ciao
    db

    • Caro Daniele,

      1) certo, io come critico, dicendo “qui c’è poesia”, esprimo anche implicitamente un giudizio, testimonio di un apprezzamento, di un piacere estetico, ecc. Son d’accordo con te.

      Quando poi scrivi: “Ciò che mi domando è se sia sufficiente fornire al lettore delle istruzioni per l’uso per fargli capire le ragioni di un possibile apprezzamento. Non è una domanda retorica. Me lo domando davvero, perché sono consapevole che in molti casi io stesso non sono capace di andare più in là.”
      Qui ci vedo due questioni distinte.
      Una la formulerei così: le istruzioni per l’uso che il discorso critico che io ho fatto sono indubbiamente non esaustive, incomplete, magari fuorvianti. In ogni caso sono parziali. Nel caso qui sopra, poi, stiamo parlando di una recensione, il raggio d’esplorazione è limitato. Quindi c’è innanzitutto un limite del critico. L’oggetto poetico è altro, e se è una valido oggetto poetico dovrebbe resistere alla presa della critica, rivelare altri aspetti, anche muovendo da visuali diverse. Io per altro son ben consapevole di questo limite del mio discorso., dato dallo spazio, dai mezzi che ho potuto utilizzare, dal pubblico a cui ho pensato di rivolgermi, ecc.
      L’altra questione a me sembra quella che, come ho già detto, trovo molto importante e difficile.La mia idea è che la critica, in ogni caso, non ha come obiettivo principale di dire e dimostrare qual’è l’opera migliore.Al massimo può cercare di persuadere il lettore dell’importanza di una certa opera. Saranno poi i lettori, nel tempo, che decideranno, sperimenteranno, la capacità di quell’opera di coinvolgerli o meno.
      Il critico dovrebbe essere sopratutto un rivelatore di pieghe, densità, relazioni, che si stabiliscono tra l’opera il mondo, tra l’opera e altre opere, tra l’opera e se stessa. Ma questo inventario di relazioni non garantisce di per sé che esse procurino piacere al lettore.

      ok per ora abbandono perché sono cotto; spero di aver contribuito a abbozzare almeno una risposta rispetto alle domande che ponevi

      a.

  10. A – Uscire dalla poesia?!
    B – Per andare verso dove?
    A – Verso la prosa breve, parrebbe.
    B – E dove sta la novità?
    A – Già; Mallarmé si girava i pollici.
    B – Territori inesplorati …
    A – … da attraversare non per contrasto o fratture …
    B – E se si scopre, guidando i carri, che i territori sono già abitati?
    A – S’invoca la Cavalleria Critica.
    B – E quindi si apre un contrasto, uno di quei conflitti di interpretazione che fanno la materia stessa della critica … Ah, le parole!
    A – Stiamo sul testo di Inglese.
    B – Sì, è meglio; come sai, quello di Broggi l’ho dato in pasto al mio pesce rosso. Dunque, parto dal rilevare un’incongruenza. La sparizione della voce autentica è impossibile. Sfido chiunque a dimostrarmi il contrario. Ogni poeta, anche il più propenso all’uscita, è voce particolare, pure se si limita al montaggio di lacerti rubati altrove. Ma su ciò tutto è già stato detto. Consiglio i volumi sul montaggio di Ejzenštejn.
    A – La stessa cosa possiamo dire sul “tesoro autobiografico” e sullo “stile personale”.
    B – Certo. Più corretto sarebbe dire che Broggi non fa della sua autobiografia materiale poetico; la sua vita, però, entra nella sua poesia. Ogni sua scelta di poeta è in relazione alla sua biografia. Sullo stile, poi, che dire? Sono tutti sanguinetiani mancati. Solo che, come il loro progenitore, lo stile non lo mancano affatto; tant’è che sono riconoscibili, riconoscibilissimi. Se mi metti di fronte, senza mostrarmi i nomi, sei componimenti di poeti-Gammm, riesco a dirti i nomi degli autori.
    A – E dunque lo stile esiste …
    B – … ed è personale. Anche il non-stile è una postura.
    A – A sentire l’Inglese, nel libro di Broggi si trova traccia d’una critica delle aspettative del lettore.
    B – Mah! Permettimi una certa perplessità. Chi legge il libro di Broggi? Chi ha certe aspettative rispetto all’autore e/o rispetto al “giro” a cui appartiene (e pochi altri, lettori casuali che però non influiscono sul mio discorso). Se l’Inglese avesse ragione, aprendo il libro dovrei trovarmi di fronte a componimenti che mettono in crisi gli assunti del gruppo di riferimento, non d’una astratta comunità poetica. Si rompe il guscio che si abita. Il resto è, ancora una volta, postura.
    A – Senza apparato critico, i testi non sarebbero poi così male …
    B – Sai che la penso diversamente; però è vero che le formule critiche, almeno in questo caso, imbrigliano il testo snaturandolo. Un dramma didattico venuto male.
    A – Ma a Broggi, immagino io, non dispiaceranno.
    B – E come potrebbero? A chiunque fa piacere sentirsi dire: Quanto Sei Critico, Che Versi Abberranti, Quanto Rompi Aspettative, Che Esibizione di Sintagmi Radicali, Che Assenza di Differenzialità (qui rido; mi scusi il moderatore), Che Mancamento di Letterarietà, Oh Signorina Felicita che bello sentirle gridare l’addio al Luogo Comune … Una postura.
    A – Nel corpo a corpo con gli stereo-tipi …
    B – … vince il mono-tipo …
    A – … e sempre nel campo del tipo siamo …
    B – … e nel tipo, al di là delle formule, resta lo sguardo personale del poeta; e resta la sua “ispirazione”: programma individuale di poesia – e dunque di stile. Il tentativo di Broggi – e degli altri che Inglese nomina, tutti in apparentamento – nei confronti della poesia sfugge all’alternativa a cui si vorrebbe invece che appartenesse: e ciò perché non si congeda dall’ambiente di riferimento. Si tratta, in questo caso, di mimare l’addio, di nominarlo, con ciò stesso svuotandolo della sua fattività; un disfattismo che riguarda le intenzioni, più che l’opera …
    A – Non a caso rifiuta la parabola.
    B – La parabola è un disturbo nel campo della lingua. Qui si rifiuta il “vitalismo rivoluzionario”, e dunque il testo diventa un gioco. Se resta, in forma appena accennata, un riferimento alle avanguardie, l’aratro è posto nel solco dei giochi di John Cage e non in quello che da Majakovskij arriva a Mesa, dopo aver transitato in Artaud.
    A – E poi, al di là di tutto, siamo sempre nel campo della letteratura.
    B – Del lirismo, addiritura, come santamente qualcuno ha già sottolineato.
    A – Cos’è il lirismo?
    B – Un borborigmo fatto con la lira.
    A – Dunque ha ragione l’Inglese: essendo il dominio quello del mercato, e avvenendo le transazioni in euro, il lirismo non ha più senso.
    B – Ma torna, come balletto di se stesso alle prese con la forma-parola. I versi-coriandoli sono lanciati non da una macchina, bensì da un umano, il quale umano – a differenza di me che faccio il sub – si esprime, foss’anche togliendosi. Sempre nella lirica siamo. Ma forse è un problema di definizioni, oppure di senso che diamo alle parole tipo “lirica”, “poesia”, etc..
    A – Già; manca un vocabolario condiviso.
    B – Mi pare che Fortini, in un’intervista, affermasse qualcosa del tipo: il lirismo può anche trarre i suoi spunti dall’esterno, e quindi non più dalle interiora del poeta; l’Io poetante può essere diverso dall’Io del poeta. Ciò non toglie, però, che è il poeta – quel tipo anagrafico di poeta preciso – che alla fine fa la poesia. La poesia è tutta lirica.
    A – A meno che non sia epica o drammatica.
    B – Certo. Ma qui che c’entra? Broggi privilegia un lavoro sul metodo; i temi, le immagini, gli stessi contenuti, derivano dallo svolgimento “a deriva” del dettato; è come se, giocando sull’incastro di elementi eterogenei, volesse dare peso più alla dimensione materica che a quella concettuale, o fare derivare la seconda dalla prima. Però anche questo procedimento è “personale”, e dunque, alla fine della fiera, lirico. Forse è più opportuno parlare di una lirica diversa, più che di una non lirica.
    A – Scontiamo il predominio di Croce.
    B – E di quello stronzo di Heidegger.
    A – Lo stesso Fortini afferma, prendendo a esempio Brecht, che ciò che fa diversa una lirica dall’altra è il baricentro attorno alla quale si costruisce.
    B – E Broggi non è Duchamp.
    A – ??? (lunga sospensione) Ma allora cos’è la poesia?
    B – Sarò wittgensteiniano anch’io: è l’uso che viene fatto di un certo grumo di parole. (faccina con ghigno) No, dai, scherzavo; non meriti una risposta così inglese.
    A – Allora accontentami.
    B – Premessa: la domanda è una domanda senza risposta, oppure dalle mille risposte possibili. Se non dai risposta, quando quella di Broggi ti viene presentata come poesia, allora è poesia; se, invece, hai una tua risposta, allora quella di Broggi ci può rientrare oppure no. Come vedi, tutto è relativo nella sua assolutezza. Uscirei dalla metafisica, restando là dove più ci piace stare: tra i corpi. Ora, la poesia è un lavoro. Hybris e melancholia; rito e ontologia; per se stessa e differenza; humour e morte; eros e noia; bisogno e sogno …
    A – Alt! Ti prego, fermati! Non siamo a un seminario. Stiamo al doppio Broggi-Inglese, altrimenti ci bannano. Broggi è poesia?
    B – Se lo dice l’Inglese, sì. Io posso solo dire che il libro di Broggi l’ho dato in pasto al mio pesce rosso.
    A – L’ha digerito?
    B – Non ho notato cambiamenti, quindi parrebbe di sì. Allora è poesia!
    A – Ah! Ti fidi più dello stomaco del pesce che della critica dell’Inglese!
    B – Toglimi una curiosità: ti piace la poesia di Broggi?
    A – Non corriamo, subito, a dire solennemente o pateticamente che liquidare questa poesia è obbedire alle vecchie solfe. Per quanto poss’io trovarla decadente e inespressiva nel suo esprimere il già espresso da altri, mi affascina la sua vocazione teologica, in particolare la sua tensione a farsi diversa. Se posso esprimermi in termini planetari, è una poesia che obbedisce alla gravità del non-poetico, con una evidente nostalgia delle spinte struttural-casuali cageaiane, per lo più ermeneuticamente tenendosi a distanza dalla troppa astuzia dell’Io. Esiste del resto, in questa poesia, il paesaggio; sfocato, oppure colto per frammenti, reso indigeno e, in definitiva, preso di mira …
    B – Hai rubato il libro al pesce rosso!
    A – (imbarazzo totale) …
    B – E adesso come faccio a sapere se si tratta di un buon libro?

  11. @stan
    sei un po’ prolissino e un po’ troppo dottorino per essere spiritoso, ma con un buon editing qualcosina la si puo’ salvare

    @ inglese
    il trauma non è ancora rimarginato, purtroppo le solfe in Italia ce le porteremo dietro in eterno

  12. @ Inglese
    Mi scuso se vado leggermente OT, ma “il critico Guido Mazzoni” che lei cita a un certo punto non è l’autore di “I mondi”, che ho conosciuto grazie a Nazioneindiana?

    https://www.nazioneindiana.com/2010/03/11/i-mondi-di-guido-mazzoni/

    Mi sembra che questi testi si inseriscano molto bene nel discorso che lei fa sulla scrittura che “esplora territori trascurati dalla poesia e dalla narrativa contemporanea”. Al tempo stesso Mazzoni non può essere accusato di ripetere provocazioni già viste o “vecchie solfe” del primo Novecento. L’intenzione non è quella di provocare il senso comune, ma quella di allargare il senso comune della poesia, correndo anche il rischio di fare della filosofia.

    • caro luca,

      quel Mazzoni critico (di un libro molto bello sulla “lirica moderna”) è anche l’autore del libro di poesia “I mondi”. Sono ben d’accordo che il Mazzoni poeta non è nelle provocazioni già viste, e nello stesso tempo si pone anche lui il problema non forse di uscire dalla lirica, ma di starci dentro in modo consapevole. Tra i miei testi preferiti di quel libro, le prose.

  13. Poesia da Sandro Bondi,
    pur contro i Sandro Bondi.

    E chi combatte il nulla,
    al nulla è assimilato.

  14. @elio_c: mi scrivi che “D’altra parte non credo che la risposta di Inglese sia “fallace”: il critico deve cercare di estendere il più possibile la quota intersoggettivabile però un successo completo dissolverebbe la componente estetica, oscura, viscerale, ineffabile e *facoltativa* che costituisce l’oggetto come artistico o poetico.” scusami ma non capisco in che senso questo risponde al mio rilievo sulla fallacia non dell’intera risposta di inglese ma di un particolare argomento proposto da inglese per liquidare una particolare vecchia solfa.

    lorenzo

    • Ciao Lorenzo. Il mio argomento complessivo era abbastanza banale.. se non si “applica” vuol dire che ho inteso male, segmentato malamente, qualche parte dei discorsi. E però se mi restringo alla sola “solfa” la questione mi diventa sottodeterminata e inafferrabile.. insomma non riesco a emendarlo, venga pure ignorato.

  15. grazie ad andrea e ai commentatori.
    ho trovato interessanti, e come al solito intelligenti e autocoerenti, anche i commenti “negativi”, di daniele e di lorenzo (di cui ben conosco i punti di vista), ai quali hanno peraltro già risposto – con più di qualche efficacia – andrea stesso ed elio.
    grazie anche a stan per il suo divertissment dialogico, davvero gustoso.
    un saluto,
    alessandro

  16. A me le scritture di Broggi fanno pensare a certe opere di Katharina Fritsch, tipo

    http://www.biennaledelyon.com/data/modules/diaporama/7/44.jpg,

    di cui si dice che deformi la logica dell’oggetto da design presentando “oggetti per la casa costretti tanto a lungo in una forma grafica perfezionata da conseguire l’esatto contrario di quella simpatica individualità che caratterizza i prodotti moderni offerti ai consumatori.”

    Anche questi testi vivono in un simile straniante, iper-splendido (senza ombre) isolamento, come alieni tra i terrestri, di cui simulano l’evidente inessenza, la perfetta arbitrarietà.

    Siccome non funzionano all’interno del paradigma edificante, chiamiamolo di ‘scoperta della verità’ (nemmeno quello delle avanguardie qui sopra citate), ma sullo spazio orizzontale della serialità (e non a fini ironici), sono abbastanza impermeabili alla citazione: riportarne uno o due non funziona, ci si comincia a divertire dopo la decina insomma.

    Nella ripetizione incrementale scopri persino i suoi ‘temi’: la felicità, come dice Inglese, o, appunto, l’autenticità (o la procedura di autenticità: penso a Nuova vita), o, come in Daily Planet, il tempo (o meglio: la simultaneità). Motivi che sono smontati dai congegni retorici della poesia più tradizionale, certo, e che, così facendo, mostrando le molte altre vite della testualità, smettono di esserne feticcio, ritornano a interrogare criticamente.
    Questa cosa, almeno per me (e inaspettatamente) è fonte di piacere, e non solo intellettuale.

    Ciao, un saluto a tutti i presenti
    r

  17. è giugno
    A questa marea di polmoni si spegne il Deserto
    Abbacinare gli occhi e si fonde giallo e verde e così al nero gli occhi finiscono
    Come sei nel fuoco vuoto del vetro di casa
    Di lunghissime mani accurate spinte fino alla voce
    Ti guardo
    Sole altissimo e
    Dietro abbraccio me sciolto
    Nero di pelle buia

  18. Cara Renata grazie per questa integrazione critica su Broggi, che illumina ulteriori e importanti aspetti. Per altro (ri)scopro Katharina Fritsch, di cui avevo visto distrattamente qualche riproduzione in rete o su rivista.
    Mi trova poi d’accordissimo questa osservazione

    “Siccome non funzionano all’interno del paradigma edificante, chiamiamolo di ‘scoperta della verità’ (nemmeno quello delle avanguardie qui sopra citate), ma sullo spazio orizzontale della serialità (e non a fini ironici), sono abbastanza impermeabili alla citazione: riportarne uno o due non funziona, ci si comincia a divertire dopo la decina insomma”.

  19. a elio, che scrive:

    “il critico deve cercare di estendere il più possibile la quota intersoggettivabile però un successo completo dissolverebbe la componente estetica, oscura, viscerale, ineffabile e *facoltativa* che costituisce l’oggetto come artistico o poetico.
    Anche in campo artistico, nessuno ripropone più il “ready-made” puro e semplice di Duchamp, che rappresenta un punto terminale sul piano concettuale: poiché l’arte si è rifiutata di terminarsi in quella mossa magistrale, è stato giocoforza reintrodurre in essa elementi degli fascinazione viscerale, per quanto sorvegliati e finemente intellettualizzati.”

    Perfettamente d’accordo con la tua concezione del critico,e sull’inesauribilità dell’opera. Vedi risposta che ho dato a Barbieri. Il discorso critico non può mai essere sostitutivo di nessuna opera, tanto meno poetica: non ne ha il ritmo, la musica, la scansione grafica, gli scivolamenti di senso, ecc.

    D’accordissimo anche quanto dici di Duchamp: i gesti di Duchamp hanno aperto territori molto ampi, che permetteno di essere tracciati, abitati, esplorati in forme plurali ed estremamente diverse le une dalle altre. Questo naturalmente vale per tutti i grandi artisti, d’avanguardia o meno. Nelle avanguardie l’elemento “rivelatore di mondi” è semplicemente più accentuato e tematizzato.

  20. Apprezzo molto anch’io l’intervento di Renata che, attraverso il parallelismo con l’arte, sembra offrire uno spiraglio “afferrabile” sul tipo di ingaggio – la peculiare compenetrazione fra dimensioni sensibili ed intellettuali – che è possibile intrattenere con opere di questo tipo.

    Vorrei d’altra parte sottolineare l’opzionalità di un tale ingaggio: a me per esempio, quei toponi artificiali in disposizione semiradiale ispirano piuttosto una tetra connotazione da “semiotic psychosis” (nel senso che ne dà Kuspit in un bel saggio in rete che non mi stanco di segnalare: http://www.artnet.com/magazine/features/kuspit/kuspit4-20-01.asp ). Non si tratta, in altre parole, dell’arte dalla quale mi attenderei qualcosa di veramente vitale e dunque, se valesse uno stretto parallelismo, è ben possibile che un analogo ingaggio con la poesia di Broggi a me non riuscirebbe.

    Il punto è che io non credo si possa dare argomentazione “critica” in grado di “ridurre” (in un senso o nell’altro) le differenze fra me e Renata, p.es. in termini di credenza nell’autenticità – tanto per dire – delle narrative costruite intorno alla serialità warholiana, con tutto quanto ne consegue (negli anni) in termini di investimenti libidici e di associazioni fra contenuti sensuali e idee astratte, che vanno nel tempo a sedimentarsi e a costituire una “seconda natura”, che magari poi scambiamo pure per archetipale.

    E’ per questo che trovo congeniali i confini che Andrea chiaramente assegna all’attività critica. Il suo “inventario di relazioni” corrisponde esattamente alla quota intersoggettivabile della faccenda. Mentre non sembra ancora possibile forzare nessuno a trovare “bello” un certo artefatto (se non con i metodi sleali che fanno leva sul mimetismo, ovvero sulle debolezze umane) pare invece – almeno in linea di principio – possibilissimo sommergerlo con una fitta trama di considerazioni storiche, sociologiche, filologiche, linguistiche, statistiche, neurobiologiche ecc. tale da costringerlo a firmare una quietanza sulla “rilevanza” dell’artefatto stesso, per lo meno all’interno dello specifico campo di attività (pena l’essere sospinto ai margini dello stesso per patente trasgressione dei suoi taciti accordi costitutivi). Ma questo mi sembra ricadere in quella “violenza simbolica” di cui tanto ha parlato Bourdieu, un concetto che, se venisse più largamente assimilato, penso aiuterebbe moltissimo a purificare l’aria (beh, la semiosfera) da tanti veleni.

    Un caro saluto a tutti.
    (ps, per la fretta ho compresso un po’ il discorso, spero che qualcosa si capisca ugualmente).

    • caro elio,

      sono contento di essermi fatto capire, e mi sembra che tu abbia perfettamente colto il punto che mi premeva. Anzi, lo hai riformulato in modo ancora più chiaro. E trovo molto azzaccato il termine “rilevanza”. Il critico non può che persuadere, attraverso prove specifiche – che sono le trame di relazioni, ecc. -, della rilevanza di un certo testo, come “testo poetico”, di un certo insieme di colori, come “dipinto”, ecc. Il lettore potrà poi farsi portare da questo tessuto “ricostruito” verso il testo stesso, e sperimentare in proprio quanto può accadere. E qui può avvenire o non avvenire una risonanza tra testo e lettore, che in nessun modo può essere anticipata, inclusa, governata dal discorso critico.

      Sul fatto che il discorso critico implichi una violenza non sono invece d’accordo. Se espresso non in termine di giudizio inappellabile, il discorso critico rientra perfettamente nel discorso retorico, di persuasione, nel senso non svalutativo del termine, ma nel senso aristotelico del termine.

  21. quando leggo poesia, e lo dico -anche- in senso superficiale, mi succede a volte di intravedere un elemento biografico anche se non è né evidente né fondamentale in quella data scrittura. in realtà sono convinto che anche nei testi di A.B. il senso biografico sia presente. /o almeno credo/
    complimenti.

    un abbraccio

    • Alessandro, leggo queste due

      girotondo di luce
      quel che resta del mare
      la quiete tra le pietre
      la forza del destino

      *

      la cronaca del paesaggio
      dentro il calore dei giorni
      grandezza del quotidiano
      tra l’astratto e la figura

      e poi tutte le parole a corollario e mi dico: sono belle (le poesie), il corollario si sovrappone e aggiunge cercando di togliere – per carità con tante (ma tante) belle parole, però delle due o Broggi si propone cose che fortunosamente non ottiene, o non le ottiene ma deve ottenerle comunque perché altrimenti resta fuori (da cosa poi? boh! un trend, una moda, una teoria, non so) e lo si tira dentro per i capelli (che sono anche una bella chioma, non è ironia ma un complimento).
      Io comunque sia, non mi preoccuperei più di tanto, sono belle e l’io si sente in modo secco, emotivo e non invadente.
      Approfitto per salutarti, Ale G., buon anno e a presto.
      natàlia

      • sono contento che ti piacciano le poesie di Broggi, e poco conta che non ti piaccia il discorso critico, anche perché il discorso critico è al servizio della poesia di Broggi; ma cerca di non trattare il critico che cerca di far amare e conoscere Broggi come uno che lo pugnala alle spalle, che compie cose degradanti su di lui e le sue poesie; abbi un po’ di carità per la critica di poesia, che avrà tanti limiti, ma non quello di essere un’avversaria della poesia; oppure vuoi che la critica di poesia scompaia completamente, anche dai blog, dopo che è scomparsa dalle pagine culturali della stampa?

        • Assolutamente no, Andrea! Tutto il contrario, posso non condividere alcune cose (nel mio precedente commento dico chiaramente che apprezzo quanto hai scritto sulla prosa di Broggi, ad esempio), quindi di certo non penso che il lavoro critico – tuo – come di chiunque altro, non sia utile o auspicabile. Buon lavoro a te e complimenti a Broggi.

          • un saluto e buon anno anche a te Natàlia!
            (me meto donde no me llaman): la critica è fondamentale, quando è ‘critica’, cioè quando c’è intelligenza critica, e nel pezzo di A.I. ce n’è. per /almeno/ una ragione, mi aiuta a interpretare che significa -anche- riflettere sull’emozione (e scusatemi, ma c’è emozione anche nei testi di A.B.) del, e che il testo mi produce. altra cosa sono le sviolinate critiche di cui siamo tutti un po’ stufi, penso e credo.

            un abbraccio

      • grazie natàlia,
        quanto scrivi mi conferma che, prima ancora che valere su altri piani, le quartine del libro funzionano al livello primo – epperò ingannevole (=metalivello critico, suggerito già dal titolo, dalle altre soglie testuali, dal meccanismo iterativo del testo, dall’ironia in alcune quartine più esplicita, ecc.) – della gradevolezza di superficie, di un lirismo specioso.
        la presenza delle due facce della medaglia, implicitamente richiamate in questo nastro di commenti in maniera esclusiva/oppositiva, fanno in effetti entrambe parte del progetto (come peraltro preannuncia, abbastanza palmarmente, la lunga epigrafe di rehberger a inizio raccolta).
        un saluto a te e a tutti.

  22. Qui le prose di Broggi non compaiono citate, mi pare. Ma non aveva già fatto una cosa simile Lautréamont, anche se con altro stile e altri fini?

  23. Da semplice lettore di poesie mi sembra che l’intervento di Stan (che non so chi sia) non si possa liquidare come un ‘divertissment dialogico davvero gustoso’; se appare ‘prolisso’ non lo è più di tanti altri interventi (in verità lo è molto meno), quanto all’impronta del ‘dottorino’, mi sembra che come minimo sia in buona compagnia. Se veniamo al contenuto, credo che tocchi i punti essenziali del dibattito. La critica fa il suo mestiere: avvertirci da che parte guardare un componimento, magari anche dirci cosa c’è d’interessante e perfino se ci sia o no la ‘poesia’. In realtà, almeno a guardare le quartine proposte come esempio nell’articolo, non sembra che ci voglia molto per capire da che parte guardarle: all’assiduo spettatore del tennis, anche quando non sia in grado di fare un rovescio, non si indicano con tanta cura le linee del campo, a meno che la fiducia nella sua ‘familiarità’ non sia falsa. Gran parte degli interventi critici ci spinge a guardare questi testi nella loro dimensione di ‘gesto’ del ‘poeta’ o del ‘non-poeta’ o del ‘quasi-poeta’ o dell’ ‘ex-poeta’. Troppo poco. Davvero dovrei leggere o addirittura appassionarmi ad un poeta solo perché mi si fa capire che-cosa-vuole-fare? Solo perché le tecniche del suo gioco, costruite abilmente sopra quelle di altri in una vertigine di sofisticatezza, mi si possono rivelare nella lettura? Le metafore stesse usate dalla critica (‘materiale’, ‘gioco’, ‘assemblare’, ‘stoccaggio’ etc.) sono così odorose di plastica da infettare (perché questo succede) quello che mi additano. Allora meglio le vecchie ‘istituzioni’ oggetto da decenni di continue presunte ‘messe a nudo’, meglio l’ io-del-poeta ingenuamente confuso con l’io-poetante o la liricità da cui le continue fughe, appassionanti solo per sé stesse (ancora una volta come ‘gesto’), si proiettano in un vuoto piuttosto desolato e, soprattutto, angusto. Certo quest’obiezione può facilmente essere rubricata tra le ‘solfe’ che-ancora-ammorbano il modo italiano d’intendere la poesia confinandolo in un’arretratezza provinciale. Ma anche questo è un facile giochetto. Se qualcuno dice ‘il re è nudo’ gli rispondono che la cosa è stata già detta. Ma il re rimane nudo e il lettore sente freddo al solo guardarlo.

  24. A – Ai buffoni non si risponde.
    B – Non hanno letto Shakespeare.
    A – Invero, neanche Ghignoli ha ottenuto risposta.
    B – Cosa potrebbero rispondere? Se Ghignoli dice (come Stan prima) che nella poesia di Broggi l’elemento biografico è percepibile, crolla l’impalcatura dell’Inglese. Il problema è eminemente teorico.
    A – Essere o non essere, questo è il dilemma …
    B … È più degno patire gli strali o i colpi di balestra di una biografia oltraggiosa o prendere le armi contro gli affanni dell’Io e contrastandoli por fine alla lirica?
    A – Toglimi una curiosità: ma qual è il problema?
    B – Il problema è l’apparato critico. Ma ho già detto; non giova ripetere.
    A – E il Valerio?
    B – Chi è Valerio? Se lo Cucco, gli sfascio i neuRoni!
    A – Andiamo, un po’ di gentilezza!
    B – Il Dott. Valerio sappia ciò: i diminutivi mi si addicono; essend’io minore (e minorato, glielo concedo), ai fini palati come il suo i miei arabeschi parranno sempre eccessivi. Tant’è; io non ho palco, a differenza di lui, e dunque mi tengo stretto ai miei orrori. Mi si lasci al mio prolasso verbale, ecco. In quanto al dottore, cito il mio maestro: Dottore in Nulla, per servirla.
    A – Le solfe ce le porteremo sempre dietro in eterno.
    B – Anche le scrofe.
    A – E fin’anche le strofe.
    B – Prediligo da sempre l’apostrofe.
    A – Ma qui sono reali, amico mio.
    B – Non è colpa mia, lo giuro!

  25. a agostino,

    “Davvero dovrei leggere o addirittura appassionarmi ad un poeta solo perché mi si fa capire che-cosa-vuole-fare?”

    Ti rispondo, copia-incollando quanto ho già scritto nella discussione:
    “So benissimo che le poesie di Broggi possono non piacere e essere considerate noiose. Perché non è il critico a decidere del successo di un testo, ma il lettore. Il critico serve a dire: guarda, questo è un testo, questo si legge come un testo. Io te lo dico, te lo segnalo. Ora che lo sai, giocatela tu con il testo. E vedi che succede.”

    Non ti piace Broggi? Nessuno ha mai pensato che fosse un’eventualità impossibile.

  26. Caro Andrea,
    non è vero che il critico fa solo questo. Nemmeno tu fai solo questo. Copieresti-incolleresti la stessa affermazione sostituendo a Broggi l’Elenco Telefonico? Magari anche sì.
    Ma da critico (cioè da giudice, sia pure non assoluto) cercheresti di garantire per la sua qualità (che non consiste solo in un certo modo di funzionare), indicheresti delle possibilità di significato, suggeriresti in che senso il lettore se ne possa arricchire.
    Poi, per l’immensa libertà che Dio ha concesso ai lettori, ‘ce la giocheremo noi’ con il testo.

  27. Caro Agostino,

    ti rimando allo scambio avuto con elio sull’idea della critica come inventario di relazioni, e come persuasione di “rilevanza”.
    Io sinceramente non sono d’accordo con l’idea che il critico decida ciò che è bello e buono in letteratura. E al termine di “qualità” preferisco quello di “rilevanza”.

  28. Caro Andrea, mi rendo conto.

    MA:

    1) difficile persuadere circa la rilevanza di un certo componimento come ‘poetico’ e insieme attribuire alla poesia un non-status di ‘pratica aperta’ dai ‘confini mobili’. Se l’orizzonte è così smagliato e potenzialmente inclusivo, quella della ‘rilevanza’ diventa una questione piuttosto irrilevante e l’attributo ‘rilevante’ diventa autoreferenziale;

    2) paradossalmente, dalla posizione wittgensteiniana che tu rivendichi (con tutta legittimità, peraltro), il problema della pertinenza di una realtà espressiva al ‘poetico’ si dissolve tra le aperture del ‘poetico’. In un gioco le cui regole non cessano mai di definirsi (e che alcuni impazziscano pure), la questione dell’appartenenza di una mossa a quel gioco diventa una questione poco importante (se non indecidibile). Dire: ‘non c’è un’essenza della poesia’ e ‘questo testo può funzionare come poesia anche se propriamente potrebbe non esserlo’ è come non dire quasi niente;

    3) su Broggi: davvero a questo punto le sue quartine esigono tanto dispendio di energie critiche per dimostrarne la rilevanza rispetto a una categoria così flessibile qual è il ‘poetico’ come tu legittimamente lo presupponi? Mettiamo che da lettore io dica: ‘sì, questa roba è poesia’, oppure ‘no, non lo è’, oppure ‘cos’è?’, mi pare che tu dovresti essere il primo a suggerire che questo è uno pseudo-problema e che conviene piuttosto concentrarsi sulla portata di quest’atto compositivo di là dalla definizione del suo statuto. Ma la portata è questione di qualità;

    4) sulla qualità. Primo equivoco: che essa si determini prevalentemente o esclusivamente sulla base della reazione che il componimento suscita (l’arbitrio dei lettori), anziché essere innanzitutto un crattere del componimento stesso. Secondo: che il giudizio sulla qualità (al contrario dei suggerimenti sulla rilevanza) consegua ad una decisione perentoria e irrevocabile del Critico, anziché essere, come tu rivendichi per la rilevanza, oggetto di negoziato fondato su persuasione e ragionevolezza.
    I parametri possono essere proprio quelli di relazione dell’opera con sé stessa, con il mondo e con le altre opere rivendicati per la ‘rilevanza’. Proprio le trame di questa molteplice relazione, nella loro solidità e ricchezza, sono la ‘qualità’. Non riusciremo a definirla una volta per tutte, non saremo tutti e sempre d’accordo su tutto, ma questo è, credo, il punto.

    Perdona la prolissità.

    • perdonami, ma non riesco a raccapezzarmi nelle tue obiezioni; non le capisco; limite mio; ma quello che dovevo dire – non molto – l’ho già detto tra articolo e commenti.

  29. bell’articolo,
    che mette bene in luce alcuni fatti essenziali di coffee-table book
    il libro di Broggi mi pare pratichi meccaniche proprie dell’installazione, più che della poesia
    (detto col poco che so delle installazioni, e il meno ancora delle poesie)
    uno lo sfoglia e pensa
    ma questo è un povero grullo
    poi lo legge e pensa
    ah-ha, aspetta un attimo, forse…
    poi lo rilegge ancora una volta
    e lo mette tra i suoi libri preferiti

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Avanzavo tranquilla nell’acqua nera e spessa che ogni mio movimento trasformava in schiuma iridescente sotto i raggi della luna piena. Dieci, quindici minuti, mezz’ora… Le forze scemavano, ma ero fiduciosa, sapevo di poterne ancora attingere dentro di me.

Kwibuka. Ricordare il genocidio dei Tutsi.

di Andrea Inglese
Ieri, 7 aprile, si è tenuta a Kigali la trentesima commemorazione dell’ultimo genocidio del XX secolo, quello perpetrato tra il 7 aprile e il 4 giugno del 1994 da parte del governo di estremisti Hutu contro la popolazione Tutsi e gli oppositori politici Hutu.

Sulla singolarità. Da “La grammatica della letteratura”

di Florent Coste
Traduzione di Michele Zaffarano. I poeti, così drasticamente minoritari, così lontani e così persi nelle periferie di questo mondo, come si collocano, i poeti? Contribuiscono con forza raddoppiata al regime della singolarità o, al contrario, operano una sottrazione basata sulla riflessione e resistono?

Benway Series

Risposte di Mariangela Guatteri e Giulio Marzaioli
... ci concedemmo la possibilità di cercare altre scritture c.d. “di ricerca” consimili, soprattutto al di là della lingua italiana, e di pubblicarle in Italia in un contesto che non era così ricettivo rispetto a tali opere.

Da “I quindici”

di Chiara Serani
Allora le Barbie cominciarono a lacrimare sangue rosso pomodoro (Pantone Red HTK 57, It's Heinz!) come una Madonnina qualsiasi.

Collana Adamàs, La vita felice editore

Risposte di Vincenzo Frungillo
Continua la nostra inchiesta sull'editoria indipendente di poesia. Si parla della collana Adamàs.
andrea inglese
andrea inglese
Andrea Inglese (1967) originario di Milano, vive nei pressi di Parigi. È uno scrittore e traduttore. È stato docente di filosofia e storia al liceo e ha insegnato per alcuni anni letteratura e lingua italiana all’Università di Paris III. Ora insegna in scuole d’architettura a Parigi e Versailles. Poesia Prove d’inconsistenza, in VI Quaderno italiano, Marcos y Marcos, 1998. Inventari, Zona 2001; finalista Premio Delfini 2001. La distrazione, Luca Sossella, 2008; premio Montano 2009. Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, Italic Pequod, 2013. La grande anitra, Oèdipus, 2013. Un’autoantologia Poesie e prose 1998-2016, collana Autoriale, Dot.Com Press, 2017. Il rumore è il messaggio, Diaforia, 2023. Prose Prati, in Prosa in prosa, volume collettivo, Le Lettere, 2009; Tic edizioni, 2020. Quando Kubrick inventò la fantascienza. 4 capricci su 2001, Camera Verde, 2011. Commiato da Andromeda, Valigie Rosse, 2011 (Premio Ciampi, 2011). I miei pezzi, in Ex.it Materiali fuori contesto, volume collettivo, La Colornese – Tielleci, 2013. Ollivud, Prufrock spa, 2018. Stralunati, Italo Svevo, 2022. Romanzi Parigi è un desiderio, Ponte Alle Grazie, 2016; finalista Premio Napoli 2017, Premio Bridge 2017. La vita adulta, Ponte Alle Grazie, 2021. Saggistica L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo, Dipartimento di Linguistica e Letterature comparate, Università di Cassino, 2003. La confusione è ancella della menzogna, edizione digitale, Quintadicopertina, 2012. La civiltà idiota. Saggi militanti, Valigie Rosse, 2018. Con Paolo Giovannetti ha curato il volume collettivo Teoria & poesia, Biblion, 2018. Traduzioni Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008, Metauro, 2009. È stato redattore delle riviste “Manocometa”, “Allegoria”, del sito GAMMM, della rivista e del sito “Alfabeta2”. È uno dei membri fondatori del blog Nazione Indiana e il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it), per un’installazione collettiva di testi, suoni & immagini.
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