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il principe è morto cantando

di Andrea Caterini

Ho sempre pensato che la critica fosse a modo suo un’irrimediabile autobiografia. Penso anzi che il critico letterario sia inguaribilmente malato di autobiografia, poiché non essendo in grado di parlare di sé sa che il solo modo per farlo è tentare di leggere, quindi conoscere, e successivamente scrivere di quei libri che il sé glielo svelano di volta in volta. Questo non significa che il critico sia una personalità più complessa dello scrittore primario (quello cosiddetto d’invenzione) – tutt’altro; è perlopiù una persona impacciata, poco abile nell’esprimere ciò che di sé più lo farebbe esporre al mondo – per questo parla di altri e attraverso altri. È costretto a raccogliere l’espressione altrui e farla propria; meglio, si serve di altre espressioni per capire la sua, quindi per capire cosa e chi è. È certamente una questione mimetica, ma sarebbe meglio dire che si tratta d’un vero e proprio nascondimento. Non so, parlo attraverso la mia esperienza, ma non credo sia così distante dalle motivazioni che spingono ogni critico a fare quello che fa – nonostante la mia esperienza abbia così poca storia, a dire la verità.


Lo dico solo tra parentesi, con spirito di divagazione e senza difendere la legittimità di una generazione di stare al mondo ed esprimersi; legittimità che del resto non può concedergli nessuno (come sembrano pensare alcuni) fuorché una legge inconoscibile e primordiale che appartiene alla natura delle cose. La mia generazione (quella dei nati tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta) è sospesa a quel bilico che se da una parte si vede finalmente svincolata da quegli ideologismi che avrebbero potuto schiacciare la sua libertà espressiva, dall’altra fa più fatica a trovare i suoi maestri, i suoi padri, poiché questi, troppo spesso delusi dal fallimento di quelle stesse ideologie, hanno deliberatamente estromesso ogni possibilità di parentela con le generazioni future. Chiudo qui la parentesi. Se parlo di malattia autobiografica, non intendo un disinteressamento dello scrittore subordinato (il critico letterario appunto) alla vita degli altri, anche a quella del personaggio di un romanzo. Dico che proprio l’incapacità a saper esprimere la propria vita attraverso la vita di qualcun altro (un personaggio immaginario che non è meno reale di un individuo in carne e ossa) è l’ossessione principale di ogni critico. Cosa vuole scoprire lo scrittore subordinato quando fa le pulci ai libri e alle vite degli altri se non il modo migliore di mimetizzarsi in esse, farsene carico, accoglierne il destino, ammettere che quelle vite appartengono in fondo alla sua per una legge per così dire ance- strale, come se la natura consegnasse ad alcuni la capacità di inventare vite diverse dalla propria e ad altri quella di farsi carico della vita altrui per capire la propria? L’autobiografia quindi, non come scelta di una forma o di un genere, ma come ineludibile vizio individuale. Il critico fa autobiografia perché non sa inventare altre vite all’infuori della sua.

Questo mi sembra il punto di partenza che più efficacemente pone le basi di ogni successiva discussione intorno alla critica e alla sua necessità; prima ancora insomma, di invocare tutti i modelli e i valori che ha perduto. È successo proprio qualche tempo fa (aprile 2010) sulle pagine del «Corriere della Sera» per iniziativa di Franco Cordelli, che dalla lettura di un libro di Giulio Ferroni (Scritture a perdere. La letteratura negli anni zero), face- va notare come la sua generazione di intellettuali – nativi dei Quaranta –, formatasi sotto le stelle polari di Adorno e Benjamin, non possa più servirsi di quei modelli per analizzare libri contemporanei e quindi attraverso loro capire il mondo, la realtà, perché questo è il tempo in cui tutto è eccesso e pure i giudizi non appartengono più ai singoli individui ma a tribù (siano esse di scrittori o di semplici individui). essendo nato e cresciuto in un tempo nel quale le ideologie si erano già incenerite sotto la brace della storia, sono portato a credere che questa assenza sia pure un’occasione di vitalità da sfruttare al meglio. Se dunque non esistono più metodi dettati da un pensiero ideologico sulla realtà, perché non sfruttare la propria singolarità – che a suo modo costituisce a sua volta un altro metodo –, che è in ultimo il dettato della verità di noi stessi (e sotto questo aspetto un lavoro critico ha davvero lo stesso valore umano di un lavoro primario e solo così un giudizio può davvero influenzare ed essere determinante per la vita altrui, proprio perché nato da una necessità e un desiderio di relazione e di scontro con l’altro e la realtà – mettendo pure in pericolo ciò che credevamo d’essere, in nome di un bene più grande; dico proprio la fedeltà a noi stessi, a ciò che abbiamo visto e sappiamo essere vero e inderogabile). Il maggior difetto dei libri di critica contemporanea è dovuto al fatto che non si lasciano leggere più con lo stesso interesse di un romanzo o di una raccolta poetica: sono perlopiù noiosi.

Questo è potuto avvenire però, proprio per quell’inconsapevolezza di fondo, per quella rimozione autobiografica, che se da un lato è scaturita proprio da quel troppo seguire ideologie confezionate e pronte a farsi metodo, dall’altro quello stesso metodo ha schiacciato quel desiderio, quel bisogno primordiale e unico di attraversamento dell’opera che è per il critico la naturale, ma pure fortemente immaginata – e quindi assolutamente reale e vissuta – ricerca d’espressione del sé. Ma è vero pure che dai metodi preconfezionati ci si può far schiacciare e imprigionare solo nel momento in cui, per invidia si direbbe, si vuole spaccia- re quella che è un’incapacità creativa (appunto quella di non saper inventare vite fuori dalla propria) per una scelta di genere. È lì che la critica diventa noiosa e inefficace; lì che ha davvero scelto di non farsi più leggere con interesse perché non più rive- latrice di una unicità, ma sterile punto di vista, che per quanto intelligente e approfondito, non muove di un millimetro la sensibilità del lettore.

Mario Praz scrisse in una lettera a T.S. Eliot, che gli chiedeva consigli per un libro di saggi che stava preparando, che alla fine di tutto non erano tanto gli studi sugli scrittori seicenteschi inglesi a interessargli, quanto piuttosto la “storia della sua mente” – proprio quella di Eliot – che attraverso quel libro ne sarebbe uscita fuori. Enzo Siciliano, nei suoi diari (Diario italiano 1997- 2006) commentava quella lettera scrivendo che «La mente è cosa più ricca, ferita, ricettiva, creativa, che non l’hortus conclusus, simbolo di puro gioco in difesa […]». Certo, se Praz scrive quella frase lo fa pensando solo alla mente di eliot e a quella di nes- sun altro. ma sarebbe possibile prenderla in prestito come modello della nostra indagine? Perché in quella affermazione di Praz, appunto la critica come «storia della mente» dell’autore che è chiamato a giudicare e a discernere, è già contenuta una dichiarazione che non riguarda solo gli intenti di uno specifico lavoro critico, quanto piuttosto la consapevolezza che non può esistere critica letteraria che non sia la storia – e quindi la vita in tutta la sua complessità immaginifica ed espressiva – del critico stesso.



A. Caterini, Il principe è morto cantando. Una autobiografia letteraria attraverso l’analisi critica del personaggio, Gaffi (2011), pp. 141, 11 euro.

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1 commento

  1. Credo che l’articolo liquidi sbrigativamente una problematica critica (quella della soggettività del giudizio critico e della sua (parziale) matrice autobiografica), dipingendo tutta la produzione critica postmoderna come un’auto-contemplazione di ombelico, tacendo invece la funzione sociale di aggiornamento del patrimonio culturale che la critica ha per lungo tempo (e, in certi casi, ancora oggi) esercitato.
    Mi permetto di segnalare lo sforzo ermeneutico di tre grandi critici (Starobinski, Contini e Debenedetti) sull’argomento trattato dall’articolo: l'”energia interrogante” del fare critico è individuata da Starobinski nell’andirivieni tra la scommessa con se stessi di individuare un “contenuto di fatto” di un’opera e la propria situazione biografica; la moralità del critico sta proprio, per Contini, nella sospensione della soggettività a vantaggio di una distaccata auscultazione, un distanziamento dalla propria sfera autobiografica per cui “Il critico ha l’obbligo morale di far tacere le insinuazioni perturbatrici della propria autobiografia: dai suoi Miti familiari deve escludere, col più accurato zelo, quello di Narciso” (DEBENEDETTI, “Il romanzo del Novecento. Quaderni inediti”, Garzanti, Milano, 1971, p.38; cfr ZINATO, Le Idee e le forme,Carocci, Roma, 2010, pp. 18-19).

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