nel buio ogni cosa


di Maria Angela Spitella

La copertina non annuncia nulla di buono e anche il titolo, Soli, riporta alla mente una canzone di Adriano Celentano del 1979, ma se queste sono le premesse esteriori del romanzo di Giovanni D’Alessandro Soli, il racconto sovverte del tutto la prima impressione.

Un impatto immediato con quella che sembra essere la storia; un intreccio di vite e di vicende che ruotano attorno ad un ateneo del nord. I protagonisti sono due ragazzi, non più giovani, più verso i quaranta che i trent’anni, che si vedono costretti a combattere con le baronie da cui la nostra università è sopraffatta. Sembra un racconto delle ingiustizie che i due ricercatori subiscono nel loro ateneo, per poi essere scalzati da qualcuno raccomandato, ai quali non viene riconosciuta la evidente competenza nelle loro materie. Una storia del precariato nella generazione di mezzo. Medievista lui alla cattedra di Storia dell’arte, ricercatore alla sola età di 33 anni, associato a 37 anni,  e “precaria contrattista” lei nello stesso campo, vivono una situazione al limite del paradosso, dovendosi fare largo attraverso un mondo accademico viziato dallo strapotere del rettore dell’Università, Gianandrea Zentilomo, e dei suoi adepti. La storia inizialmente sembra raccontare questo. Ma già dalle prime pagine c’è dell’altro; il racconto si distende attraverso eventi che nessuno si aspetterebbe di trovare in un romanzo che appare di denuncia.

I due protagonisti Luca e Manuela (Manu), sposati da qualche anno, combattono per la loro affermazione, non nel mondo scientifico, perché da tutti sono riconosciuti come intelligenti e preparatissimi ma, in quello delle carriere facili senza titoli accademici e competenze. Luca poliglotta e studioso capace, Manuela donna intelligente, studiosa attenta e raffinata, hanno una padronanza delle loro materie profonda; nell’Università che, anziché appoggiarli e sostenerli, li tratta come docenti di serie b, tentano un percorso naturale: lui come professore ordinario, lei come ricercatrice scontrandosi con la protervia dei più forti.

E’ qui che il romanzo prende una strada inaspettata: Giovanni D’Alessandro, con la sua scrittura colta, accompagnata alla passione per la storia, interseca due mondi apparentemente diversi e lontani: l’attuale e il Medioevo: lo fa con un racconto che diventa quasi psicologico, attraverso l’estraneazione dal contesto del XXI secolo. Due storie vissute dagli stessi protagonisti ma che hanno risvolti completamente diversi; è da quando i ragazzi salgono sul Monte Monaco, luogo vicino L’Aquila, dove sorge un monastero solitario, per degli studi commissionati loro dal professore Sinibaldi, titolare della cattedra di storia dell’arte medioevale, ed escluso dai giuochi di potere dell’ateneo, che il romanzo diventa forte, immaginifico, trascinante; non perde un colpo D’Alessandro, mentre accompagna il lettore in un altro tempo, dove altre verità alloggiano.

Un mondo che si avverte in maniera strisciante sin dall’inizio del romanzo; c’é un’inquietudine sotterranea, preludio di quello che sarà il cuore del racconto. Un filo rosso che sottende e trattiene il lettore in una sorta di allerta continua. I sensi rimangono vivi nella lettura, mai c’è un calo d’interesse, anche nelle pagine nelle quali D’Alessandro, con estrema cura e puntualità, si lascia andare a descrizioni tecniche di affreschi e reperti storici, entrando nella specificità delle materie studiate ed insegnate dai due protagonisti e dal loro mentore.

Le scene di vita si intrecciano con un cambio di paesaggio continuo; la storia che D’Alessandro ambienta nel Medioevo, epoca storica cara ai due protagonisti e al professor Sinibaldi, loro alleato, ha il volto della Madonna Triste; ma non venga tratto in inganno il lettore dalla definizione che viene data del soggetto dipinto negli affreschi che Luca e Manu vanno a visionare sul Monte Monaco, perché la Madonna Triste ha il volto di una madre; la storia è pulsante. Le descrizioni sono vertigini di dolore, che attraversano i protagonisti e il lettore, uno strazio che avvolge e accomuna gli uomini di oggi e quelli di dieci secoli prima. I colori vivaci degli affreschi si miscelano con quelli cupi, la solitudine di quei luoghi, lontani secoli dal nostro tempo, si diffonde nelle pagine del libro e come una macchia d’olio si allarga sino a permeare i giorni a noi prossimi.

Ed è facile per il lettore entrare ed uscire da secoli così diversi, come nella strada a curve che i due ragazzi percorrono per arrivare al Monastero. La speranza, la compassione, la pietas, sono i sentimenti che affiorano e si intrecciano nel racconto; quando poi si corre velocemente verso le pagine conclusive del romanzo, per sfuggire alle immagini cupe e dolorose, si ha l’impressione di stare all’interno di un’arena dove lo scontro tra i protagonisti e i baroni dell’Università diventa dialettico; presente e passato combaciano attraverso il riscatto di Luca e Manu; viene spontaneo fare il tifo per loro e per il professor Sinibaldi.

Riaffiorano nello scontro tra cattedratici del XXI secolo, le figure rarefatte che abbiamo trovato nel tempo Medioevale.

Ritorna D’Alessandro con questo romanzo ad incantare il lettore; si ha la sensazione che i protagonisti che si affacciano e compaiono nell’ambientazione del Medioevo, siano stati sempre presenti nelle pagine del libro; anche una volta finito di leggere il romanzo, si avverte una sorta di vivida presenza, come se il lettore stesso fosse entrato in quei luoghi e in quelle situazioni descritte. Il pragmatismo degli avvenimenti universitari si miscela con gli eventi metafisici, che attraverso lo studio degli affreschi dell’oratorio di Monte Monaco, dove si recano i due studiosi Luca e Manu per fare le loro ricerche storiche, si frappongono tra la vita reale e la vita percepita, forse anch’essa vissuta ma in un altro tempo.

Giovanni D’Alessandro sonda il bene e il male, ce li sbatte in faccia con ferocia ma anche con garbo, in questo modo permette a ciascuno di noi di avventurarsi nel proprio abisso al quale mi piace dare il nome di inconscio con un artificio molto astuto: il buio di un pozzo che segna il punto di non ritorno. “La luce si ritirava piano piano dalla parete più alta delle pareti del pozzo. Tra un po’ sarebbe scomparsa del tutto e avrebbe fatto ricadere nel buio ogni cosa”.

Soli riporta al secondo romanzo dello scrittore abruzzese, I fuochi dei Kelt, uscito per Mondadori nel 2004, altra ambientazione sempre storica, la guerra tra i Celti e i Romani vista da un auriga al servizio del cugino di Vercingetorige, dalla parte dei celti, che scava nell’umanità dei protagonisti, e nelle loro sensazioni di uomini, se pur guerrieri e in una ferocia per noi inusitata.

G. D’Alessandro, Soli, San Paolo (2011), pp. 328, 18 euro.

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