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Shock the Monkey

 

Welcome to the jungle

di

Giampaolo Simi

Va bene, hai comprato una licenza. Paghi una concessione. Sono soldi, lo sappiamo. Ma c’è chi esce dall’università dopo anni di studio, chi investe in corsi professionali più o meno abilitanti, in lunghi tirocinii, in master costosi o in stage di lavoro non retribuito, chi è obbligato a spendere per aggiornarsi e reinventarsi per stare sul mercato, o semplicemente chi scommette sulla voglia di fare meglio il proprio lavoro. E in mezzo a tutti questi, mi riferisco a persone che si ritrovano oggi a svolgere un mestiere prettamente intellettuale o inerente alla produzioni di beni e servizi culturali. Dai precari della scuola ai ricercatori dell’università, dai musicisti agli sceneggiatori, dai giornalisti e fotoreporter freelance agli organizzatori di eventi culturali, dai restauratori ai librai, dai traduttori alle mille professioni dello spettacolo (l’indotto, potremmo chiamarlo).
Tutte queste persone non hanno investito soldi solo perché non c’è un pezzo di carta timbrato che lo quantifichi nero su bianco? Non mi pare. Qualcuno ha difeso le attività commerciali delle piccole librerie indipendenti dalla concorrenza delle grandi catene? Non mi ricordo. Avete, per dire, visto scrittori sfilare con i megafoni per chiedere che lo Stato finanziasse le traduzioni all’estero di autori italiani invece di pagare le multe  per le quote latte degli allevatori padani furbetti? Neanche.
Del resto, queste categorie professionali iper-atipiche non sono cresciute con la pretesa del lavoro assicurato, hanno sempre sgobbato in regime di naturale concorrenza, abituandosi ben presto a una estrema flessibilità.
Troppo variegati, incapaci a fare lobby, scarsamente coesi e non sindacalizzati, questi lavoratori sembravano l’icona perfetta degli imprenditori di se stessi dell’utopia liberal-individualista, e invece in Italia sono stati i primi a essere colpiti dai governi di centro-destra.
Negli ultimi quindici anni i settori dove lavorano queste persone sono stati infatti sottoposti a un bombardamento costante, iniziato ben prima della crisi economica, in quanto progetto sistematico di de-intellettualizzazione del Paese. Un’offensiva brutale condotta sul fronte economico, con i tagli delle risorse all’istruzione e alla cultura, e su quello socio-antropologico, con la svalutazione forzosa del concetto stesso di intellettuale a piagnone residuale o a ornamento parlante del potere.
Cosa potevano fare, del resto, questi lavoratori? Occupare teatri, scrivere corsivi, suonare per strada, lanciare chilometriche raccolte di firme su internet, ammonire su come sarà triste e deprimente vivere in un Italia senza più teatri, musei e biblioteche (e senza neppure banda larga e wi-fi libero, fra l’altro).
Un violinista o uno scrittore non avevano e non hanno il potere di lasciarvi con il serbatoio a secco, di non farvi arrivare il pane o di abbassare la saracinesca mentre il mal di denti vi tormenta. Non hanno neanche mai minacciato il presidente del Consiglio con frasi del tipo “ci ascolti o sarà l’inferno”. Meno che mai hanno organizzato blocchi stradali, intimidazioni e violenze di stampo mafioso.
Di converso, nessun ministro si azzarda a definire un farmacista o un tassista “parassita” o rappresentante di un’“Italia leggermente schifosa”, come il non rimpianto Brunetta ebbe a sentenziare sul mondo del cinema italiano non più tardi di due anni fa.

Welcome to the jungle
We take it day by day
If you want it you’re gonna bleed
But it’s the price you pay
(Guns ‘n Roses)

D’ora in poi sarà dura per tutti come è stata per noi in questi quindici anni. Non ne sono affatto felice, sia chiaro. E se devo entrare, un po’ alla grezza, nel merito della questione, secondo me l’ondata di liberalizzazioni non servirà a una beneamata mazza. La libera concorrenza non si impone per decreto in due settimane, è un dato culturale che tanti italiani (il tassista come il top manager, l’allevatore come il farmacista) non possiedono, presupporrebbe un cambio di mentalità che abbiamo rifiutato trent’anni fa, quando i soldi giravano e nessuno avrebbe rischiato di finire in miseria da un giorno all’altro.
I tanti lavoratori precari e flessibili della cultura sono stati le cavie, i primi della lista perché al tempo stesso i più fastidiosi e i meno pericolosi. E i meno necessari, perché “con la cultura non si mangia” delirava pochi mesi fa un altro non più ministro. Ma il giorno in cui anche un tassista potrà fallire come un qualsiasi altro imprenditore, la colpa potrà anche essere stata del libero mercato selvaggio, certo. Ma quel giorno anche il tassista finalmente si accorgerà che, nei nostri centri storici sempre più spopolati e spettrali, non c’è più un concerto, una mostra o un teatro a cui portare qualcuno.

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7 Commenti

  1. I lavoratori del pensiero sono stati sempre più emarginati e considerati parassiti perchè non producono! Molto infelice la società che non vuole accorgersi di questo!

  2. Sto leggendo da più parti questo intervento e forse sono una delle poche che ritiene di non condividerlo affatto. Non lo condivido perché, in my opinion, i traduttori – categoria di cui faccio parte – ce l’avrebbero eccome il potere di non fare uscire più i libri in libreria; i giornalisti – di cui faccio pure parte – ce l’avrebbero eccome il potere di non fare uscire il giornale in edicola. E ditemi voi se editoria e giornali in questo paese non sono a loro modo ‘poteri forti’. Lo sono eccome, se pensiamo a chi fa il capo più della metà del mercato. Non solo: traduttori, sceneggiatori, giornalisti, attori, hanno come tutti gli esseri umani il potere di imparare – e insegnare – a lottare in modo determinato, unito, ma corretto e rispettoso. Perché non lo fanno [in alcuni casi in realtà lo fanno, vedi l’interessante esperienza del Teatro Valle]? Perché sono mestieri, duole dirlo, molto spesso basati su una romantica visione intellettualistica e fortemente individualistica in cui alla fin fine la competizione, l’invidia, la rivalità, ma soprattutto l’ambizione individuale, ammantate del fumo di una sigaretta o del vapore di caffè, patinate come un computer Mac o se volete polverose come il profumo delle scartoffie che tanto ci piacciono, il circolo chiuso degli amici e delle amiche la fanno sempre da padroni sulla solidarietà diffusa, ovvero sulla solidarietà innanzitutto verso chi non si conosce e sul godere di ciò che si fa e si ottiene senza avere a tutti i costi l’ansia di dover stare sempre un passo avanti agli altri. Tra l’altro è proprio all’Università che si insegnano, a chi si prepara nelle materie umanistiche, l’ambizione e competizione individualistica, in maniera non tanto diversa da come il corporativismo pure si insegna nelle università mediche, farmaceutiche ecc. Insomma tutto questo discorso ha a che fare anche con ciò che apprendiamo nella fase della vita dedicata alla formazione, e con _come_ lo apprendiamo. Non dimenticherò mai quando ormai tanti anni fa il preside del Corso di Laurea in Scienze della Comunicazione di Bologna Umberto Eco ci disse, al primo giorno di scuola, che noi eravamo un’èlite superiore e privilegiata rispetto alle migliaia di studenti che non erano riusciti a passare il test di ammissione. La mia salvezza è stata non essermi mai sentita un’èlite superiore e privilegiata e non aver mai creduto a quel discorso, anzi aver intuito fin dal primo giorno di scuola che se davvero per gli altri era così, allora non ero tra la mia gente nonostante quelle materie mi interessassero molto. Chi si è creduto èlite e oggi si ritrova precario è doppiamente frustrato, perché in più, gli morde il senso di colpa di non essere stato all’altezza, di non aver saputo scalare la corda, di non avercela saputa fare, di essere rimasto indietro. Ed è per quello che non è capace di unirsi agli altri per lottare: perché sotto sotto preferirebbe farcela da solo ed emergere come individuo, piuttosto che unirsi agli altri e provare a stare tutti quanti a galla insieme.

  3. “Scarsamente coesi e non sindacalizzati, questi lavoratori sembravano l’icona perfetta degli imprenditori di se stessi dell’utopia liberal-individualista…” Cara Flores, tu non condividi il mio intervento, ma io condividevo già il tuo, prima di conoscerlo. A me nessuno ha mai promesso di appartenere a un’élite. Ma mi sento un fortunato perché nella giungla faccio il lavoro che amo e per farlo ho sempre messo in conto incertezza e sacrifici. Nell’individualista America gli sceneggiatori hanno paralizzato il colosso Hollywood, tutti uniti, da quello che prende 500.000 dollari a copione al più sconosciuto scriptwriter. Perché anche i top writer della giungla sanno di dover difendere non la loro fortuna personale o il loro essere “artisti”, ma la dignità di un LAVORO.

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francesco forlani
francesco forlani
Vivo e lavoro a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman . Attualmente direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Spettacoli teatrali: Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet, Miss Take. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Métromorphoses, Autoreverse, Blu di Prussia, Manifesto del Comunista Dandy, Le Chat Noir, Manhattan Experiment, 1997 Fuga da New York, edizioni La Camera Verde, Chiunque cerca chiunque, Il peso del Ciao, Parigi, senza passare dal via, Il manifesto del comunista dandy, Peli, Penultimi, Par-delà la forêt. , L'estate corsa   Traduttore dal francese, L'insegnamento dell'ignoranza di Jean-Claude Michéa, Immediatamente di Dominique De Roux
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