Costruire il bello

di Marco Belpoliti

Pasolini e Ninetto sono a fianco della macchina da presa che inquadra la città di Orte. Il poeta spiega che ha una forma perfetta, ma se si allarga l’obiettivo, e s’include nella visione le case moderne, che sorgono lì accanto, ci si accorge che “la massa architettonica è deturpata, rovinata”. È il 1974 e il regista sta girando un documentario televisivo sulla forma della città, e si pone in modo diretto il problema della bellezza. È una visione che lo strazia, e di cui ha dato conto in alcuni degli articoli sul “Corriere”.
Sono trascorsi quasi quarant’anni e il problema della bellezza esplode di nuovo, e in modo radicale, davanti ai nostri occhi. Un tempo era ritenuto un argomento di “destra”, come se l’estetica non potesse coniugarsi con l’etica; oggi gli italiani interrogati dal Censis, dentro questa crisi economica, scoprono che le loro città sono brutte, o rischiano di imbruttirsi ulteriormente, e capiscono in modo lampante che costruire un edificio bello non costa di più che costruirne uno brutto. Una città brutta fa vivere male, pensare male e anche sognare male. Pasolini aveva ragione: stiamo dilapidando la nostra ricchezza che consiste nella bellezza, nel vivere in città che possiedono il genius loci. E non è solo questione di architetture del passato. A Parigi, decenni fa, il Beaubourg, architettura high-tech, progettata da Piano e Rogers, ha creato uno spazio urbano vivibile e caratteristico, e persino bello. L’architettura non ha solo un valore estetico, ma, come spiega l’inchiesta del Censis, può avere anche un valore economico. Possono i sindaci delle grandi città italiane, come quelle di provincia, e i loro assessori all’urbanistica, pensare alla bellezza oltre che alle carte bollate e alla burocrazia?
Faccio un caso recentissimo ed esemplare. A Milano, proprio di fronte al Cimitero Monumentale, uno dei punti simbolici della città, ricco di sculture funebri, e con il celebre Famedio dei cittadini illustri, un infausto piano urbanistico, confezionato dalla giunta Moratti e proseguito e perfezionato dalla giunta Pisapia, prevede la costruzione di un albergo di nove piani dentro l’area di rispetto, un edificio in stile postmodernista in ritardo di vent’anni. Lì accanto un vecchio palazzo dell’Enel degli anni Trenta dovrà essere demolito per far posto a un ecomostro di nove piani in un quartiere di case che al massimo ne hanno quattro. Parte di questi edifici è di edilizia convenzionata, ovvero per le classi meno abbienti. Un’iniziativa opportuna, dare una casa a prezzi calmierati, ma per farlo si costruisce un bruttissimo palazzo fuori scala a venti minuti a piedi dal Duomo.
In un libro provocatorio ed efficace, Maledetti architetti, Tom Wolfe racconta la storia delle case popolari di Pruitt-Igoe a Saint Louis, progettate e costruite nel 1965 dallo sfortunato architetto Minoru Yamasaki, quello del World Trade Center di NY. Meno di vent’anni dopo in un’affollata assemblea plenaria gli inquilini suggerirono di abbatterle. Era la prima volta in cinquant’anni che si chiedeva un parere a chi abitava gli edifici operai. La vox populi intonò in coro: “Blow it…up! Blow it… up!”, Buttatelo giù! Nel 1972 i tre caseggiati centrali vennero demoliti con la dinamite. Erano un esempio di perfetta architettura modernista. Possibile che non si possano costruire case belle? Abbiamo in Italia più architetti che in tutti gli altri paesi d’Europa. Non è forse venuto il momento che si faccia una riflessione pubblica per questo? La bellezza non è né di destra né di sinistra. Dostoevskij pensava che potesse salvare il mondo. Possono il sindaco di Milano e il suo assessore all’urbanistica riflettere su questo senza ricorrere alla lingua dei regolamenti e dei piani edilizi? E con loro tutti i primi cittadini dell’ex-Bel Paese?

[pubblicato su La Stampa, ieri]

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10 Commenti

  1. Il problema estetico parte dalla non cura della persona.
    Come non denunciare, ad esempio, la bruttezza dei nostri politici?
    Questa gente fa tendenza suo malgrado, oltre a produrre i disastri architettonici cui fa riferimento il pezzo. E l’italiano come sempre si adegua. Al brutto che comanda.

  2. Purtroppo l’Italia (e gli italiani) non è proprio un paese che si meriti la fortuna che ha ereditato dalla natura e dai sui avi.
    La deturpazione edilizia (tra abusi, edilizia privata del geometra politicamente introdotto, a brutture di pregiata firma, non si sa più dove rivolgere lo sguardo) non è però solo appannnaggio del suolo nazionale, infatti in alcuni casi siamo riusciti anche ad esportarla: non me ne voglia l’architetto Piano e neppure l’autore di questo articolo ma l’esempio del Centre Pompidou potrebbe essere, a mio avviso, fonte di più ampio dibattito.
    Tralascio la definizione di bellezza, molto soggettiva e generazionale, e mi limito ad osservate che tale opera, realizzata all’inizio degli anni ’70 ha già dovuto subire ben due pesanti ristrutturazioni per mantenere la funzionalità per cui è stata creata.
    Mi dispiace dover commentare gli ascensori del (quasi ex) palazzo del Sole 24 Ore – sempre progettato da Piano- che si allagano quando piove o il cui richiamo non è sincronizzato, e visto che sembra proprio che mi stia accanendo contro di lui, vogliamo parlare dello Stadio San Nicola a Bari, inaugurato nel 1990 e gaì da 10 anni con seri problemi di decadimento – la cui causa è individuata nei mancati lavori di manutenzione,… manutenzione già dopo soli 10 anni dalla costruzione?
    Probabilmente il mio commento è piuttosto fuori tema, qui interessa sensibilizzare l’opinione pubblica milanese contro il progetto di riqualificazione dell’area di fronte al Cimitero Monumentale, ma fatemi essere più realista del re: dal momento che temo proprio che il progetto verrà realizzato e, come questo, altri ancora prima che il buon senso prevalga sul senso comune (o interessi specifici, o, semplicemente, mediocrità), cerchiamo almeno di tutelarci affinchè i lavori siano fatti “a regola d’are”, cosa che si può assolutamente fare, il mondo è pieno di esempi firmati anche da architetti italiani.
    L’autore dell’articolo dice: “Possibile che non si possano costruire case belle? Abbiamo in Italia più architetti che in tutti gli altri paesi d’Europa. Non è forse venuto il momento che si faccia una riflessione pubblica per questo?” e io vorrei aggiungere che la riflessione deve abracciare oltre alla bellezza, la qualità, la funzionalità e la durata nel tempo.

  3. sul Beaubourg il Baudrillard di Cultura e Simulacro non la penserebbe allo stesso modo. LA congiunzione tra etica ed estetica è a mio avviso molto più sottile e complessa di quanto si pensi comunemente, soprattutto se si aggiunge come terzo elemento di intersezione/intermediazione la economia.
    L.B.

  4. Vorrei ricordare l’attività e le opere, soprattutto riguardanti Roma, di Antonio Cederna, architetto, archeologo, saggista e giornalista, anche attivo in Parlamento, contemporaneo di Pasolini. A lui si deve l’esistenza del Parco dell’Appia Antica a Roma, meraviglia in cui si ha l’illusione di riconoscere l’antica campagna romana, pur tra tante villacce che la guastano ed i quartieri di sud est che la incalzano puzzolenti.
    Con la bellezza è vittima della deturpazione anche la dignità e la vivibilità dei territori. La cementificazione contribuisce a mettere in crisi la stessa convivenza civile. Condiziona la vita delle persone ben oltre il sacrificio della bellezza. Roma, a partire dalla sua designazione come capitale del Regno, si è estesa a macchia d’olio intorno al centro storico seguendo il principio dello sfruttamento del valore immobiliare delle aree di pregio in cui hanno sguazzato gli speculatori, il clero, le vecchie aristocrazie proprietarie di enormi porzioni di territorio, gli amministratori corrotti, gli imprenditori di mezza europa, perché Roma è stato terreno di affari d’oro per gran parte della borghesia italiana e buona parte di quella europea. Ciò ha fatto arricchire ingiustamente e indegnamente in molti, ha devastato il centro storico, rendendolo una scenografia deformata ad uso della rappresentanza, ha cancellato la campagna romana ed ha costretto tutta la popolazione, da quel momento e per “l’eternità” della città, per le sue attività ad orbitare intorno ad un organismo urbano sorto duemila anni or sono ad uso di bighe e cavalli. I disagi che sopporta chi vive a Roma per l’inadeguatezza strutturale dipendono da questo. Non solo la bellezza della città e dei suoi dintorni sono stati sfigurati e oltraggiati, ma la qualità della vita dei suoi abitanti è stata definitivamente compromessa. Già nei primi anni del novecento c’era chi chiedeva di non costruire a macchia d’olio, bensì organicamente ad est della città antica che sarebbe rimasta così circondata dalla sua campagna, soprattutto a sud e ovest, verso il mare, libera dall’assalto delle attività di una moderna capitale.
    Così non fu, divorarono Roma senza stabilire regole e pochi si opposero perché molti ne giovarono, oltre alla borghesia; vuoi mettere comprarsi o costruirsi una casa tra il centro e la Via Aurelia con l’andarsene chissà dove lungo la Tiburtina. Nel secondo dopoguerra Cederna era tra chi si opponeva, era il periodo peggiore, quello citato anche da Pasolini, anni cinquanta sessanta e settanta, e dopo fino agli anni novanta. Anche lui come Pasolini era preoccupato per la perdita della bellezza del patrimonio artistico e paesaggistico, ora sappiamo che le nostre campagne e le città (perché la sorte di Roma è toccata a tutte le città, il criterio è stato quasi ovunque lo stesso) hanno perso di più della bellezza a causa del sistema di arricchimento, hanno perso la possibilità di una qualità della vita.
    Per Roma, ad ogni modo, esistevano i piani lungimiranti e dettagliati, solo non rovinosamente speculativi, che avrebbero permesso di creare una metropoli moderna ed efficiente a est. Non è stato fatto. Oggi si potrebbero usare le risorse edilizie per abbattere i mostri e riqualificare i quartieri anziché continuare a costruire. Invece il raschiamento del territorio è ricominciato con foga vorace. Parlo di Roma che è la mia città, è in atto un nuovo sacco vandalico della campagna e le costruzioni sono ormai abbondantemente oltre il GRA, fino a dieci anni fa limite esterno del cemento. Quanto voluto da Mussolini, che la città si estendesse fino al mare, si sta avverando. Roma non esiste più e quando leggo le lodi della sua bellezza mi sembra di leggere un epitaffio.

  5. sto lavorando ad un piccolo progetto urbano e mi scontro con un’altra idea di bellezza: dove mancano gli strumenti culturali si associa la “bellezza” alle forme antiche che le persone si portano come una zavorra dai tempi della scuola, vale a dire archi volte capitelli…il finto antico dilaga…dalle mie parti ho visto una casa che come giano bifronte ha una facciata da tempio greco e l’altra come la casa bianca…per ogni successo che l’architettura può raggiungere c’è contemporaneamente una massa enorme di brutture che invadono il campo…ma tant’è, andiamo avanti e proviamoci fino alla fine.

  6. Penso che Il dibattito innescato nei giorni scorsi sulle pagine de “Il Fatto Quotidiano” da Marco Belpoliti e sul “Corriere della Sera” da Gianni Biondillo (seguita poi da parecchi interventi di altre prestigiose firme), sia un chiaro invito alla ri-presa di una coscienza critica da parte di tutti i cittadini, ed in particolar modo da parte degli architetti e dei responsabili della cosa edilizia, sui temi della trasformazione e ricostruzione urbana e sulle politiche della gestione del territorio. Ma fino ad ora si è anche rivelata come occasione mancata per ragionare sull’estetica della città, e nel caso di Milano della metropoli. Mi spiego. La parola “bellezza” ricorre, infatti, con insistenza in quasi tutti gli articoli e commenti pubblicati su giornali e sui blog. Ma dovremmo ricordare che quando parliamo di qualità e di bellezza di Milano, parliamo anche di “paesaggio” e della dimensione estetica della città e della metropoli. Facciamo cioè ricorso a una nozione che ancora oggi non riesce ad essere condivisa e neppure culturalmente elaborata. Un “paesaggio” certo, lo possiamo riconoscere guardando un tramonto al mare, in montagna, o dietro l’orizzonte di un’aperta pianura, ma dobbiamo essere in grado, oggi, di riconoscerlo anche nel mutevole skyline delle nostre città, nell’attraversare le loro strade (il vero spazio pubblico) e le loro piazze, nell’intrecciarsi dei flussi degli utenti e delle loro comunicazioni. Un paesaggio che scaturisce, certo, dall’azione di tutti i diversissimi attori in campo, spesso molto incostanti proprio sul piano qualitativo. Un paesaggio poi, è questo il punto centrale, che non è da tutelare ma piuttosto, che ogni giorno dobbiamo impegnarci nel progettare, gestire e rinnovare (ma soprattutto comprendere). In una parola un paesaggio che di continuo cambia e che dobbiamo dunque “coraggiosamente” governare, guardando anche al futuro. Un paesaggio che, come un giardino è artificiale e non può essere slegato in nessun modo dalla sua continua manutenzione.
    Dobbiamo chiederci se la politica, ma anche se tutti gli operatori culturali (dai bloger ai pianificatori) siano in grado di cogliere cosa questo significhi sul piano empirico delle pratiche insediative e della gestione del territorio, perché solo questo potrà permetterci di coniugare la sempre più scarsa risorsa territoriale con maggiori qualità estetiche e soprattutto socio-culturali. Solo su questo potremo ri-costruire “ una diversa forma di consapevolezza collettiva per il futuro fisico e ambientale del nostro Paese”.
    Se c’è qualcosa da sottolineare con forza nelle considerazioni di quanti ci hanno preceduti in questo dibattito, è quello di non guardare alla realtà metropolitana, ai suoi paradossi, ma neanche a quella politica e culturale, sociale e professionale, come ad una giustapposizione casuale di livelli separati tra loro, sforzandoci di farlo tentando di intercettarne i rapporti, senza viverli sul fondo della più sorda separatezza.

    Pier Paolo Pasolini, scriveva alla sua nazione nel 1961: “proprio perché tu sei esistita, ora non esisti, proprio perché fosti cosciente, sei incosciente”, più che mai un invito a ripartire, a rimettersi tranquillamente all’opera, ricominciando dall’inizio.

    • Quindi il paesaggio urbano ed extraurbano può essere modificato ovunque ad uso delle attività economiche? Da cittadino mi permetto di non essere d’accordo. La manutenzione concettuale e la modificazione dei paesaggi è ammissibile sulle oscene costruzioni di cui l’Italia è strapiena, non dove la storia, l’arte e la cultura hanno già lasciato il loro segno. La bellezza non si esprime solo nei capitelli, ma i capitelli vanno lasciati in pace. L’armonia delle forme logiche di fruizione si può esprimere a fianco ad un mostro di cemento degli anni 80 meglio che a fianco ad un palazzo rinascimentale. E l’architettura dovrebbe inserirsi in una pianificazione urbanistica razionale che intenda Salvaguardare e Tutelare il patrimonio storico, artistico e naturalistico e fare manutenzione delle scempi del passato. Lo skyline da modificare è quello delle periferie, non quello dei centri storici o dei parchi, delle coste e delle campagne.

      • Caro Rossi, le rispondo, anche se credo mi abbia frainteso. Non intendevo per nulla riferirmi ai “capitelli”, e ai grandi monumenti storici (anche se su questo punto si continua a discutere), che bisogna solo “sperare” che vengano tutelati, e magari anche immessi in un organico circuito turistico(ma così non accade), se ci teniamo alla loro sopravvivenza. Riguardo il cemento, non sarei intervenuto al dibattito sull’area ex-Enel se fossi un cementificatore. Ma veniamo al punto.
        Mi riferivo, semmai, proprio all’esempio che ci mostra Pasolini, nel video caricato da Belpoliti, e ai molti casi simili, passati o attuali, riferiti a piccoli borghi isolati o ad una metropoli come Milano.
        Luoghi, cioè, che è impensabile tutelare in toto, o conservare sotto una teca, luoghi che volenti o nolenti, sono stati, e saranno, trasformati. E’ questo il punto. Meglio sarebbe modificarli riferendosi ad una condivisa definizione di “paesaggio urbano”. Un concetto di bellezza (un’estetica forse?) coniugabile con l’intrinseca auorigenerazione e trasformazione che caratterizza (e sempre ha caratterizzato) gli insediamenti umani (dal paese alla metropoli).Un paesaggio, dunque, che è una “morfologia”, e di continuo si modifica e cresce. Una nozione, credo poi, che dovrebbe essere il frutto di un’elaborazione culturale complessa, capace di coniugare paesaggio (in quanto landscape), territorio e ambiente.

        • Ha ragione, forse avevo frainteso. Non avevo colto il riferimento al necessario compromesso, e mi era sembrata una celebrazione del trionfo dell’architettura sull’urbanistica e della città diffusa come unico sviluppo possibile. Il fatto è che si vive circondati dal dilagare del lato pessimo di quel compromesso e quindi si genera un tantino di pregiudizio verso chi ne spiega pragmaticamente l’inevitabilità che, le sue parole sono convincenti, sembrerebbe effettiva.
          Rimango dell’idea che occorre un contrasto costante allo straripamento urbano ed alla cementificazione (apportatrice di regresso della civiltà) dei pochi avanzi di verde che restano ed all’oltraggio dei centri storici. Ci sono senz’altro ovunque aree già devastate dove intervenire per riqualificare e razionalizzare, portando efficienza insieme a utilità economica ed estetica, aree amorfe da far evolvere a morfologie. Luoghi di incultura che potrebbero sviluppare una cultura dell’autorigenerazione.
          Non sono a conoscenza della polemica a cui fa riferimento sull’area ex Enel di Milano e quindi ho interpretato il suo intervento solo in relazione al video ed all’articolo.
          E’ un argomento che scalda gli animi perché ovunque da diversi anni è ripartito di gran carriera lo scempio del soffocamento del paese nel cemento.
          Grazie della risposta

  7. Sottoscrivo Mario Ricci. Io, di mio, mi “occupo” di paesaggio da sempre (la parola “bellezza”, tra l’altro, nei mie testi in questa polemica, faccio notare, è stata usata solo una volta, citando appunto Pasolini).

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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