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Piet Mondrian vs Città di Roma

di Giuseppe Zucco

Accade tutto con abbagliante ironia, e da inizio settembre duemilaundici non c’è strada stradina viale circonvallazione tangenziale della città di Roma che non sia bucherellata da enormi gigantografie o da più modeste locandine, miriadi di oblò disseminati ovunque, oblò che già rivelano in piccolissima ma significativa percentuale il contenuto del transatlantico appena attraccato in città, la mostra su Piet Mondrian in programma al Vittoriano. E sarebbe di per sé causa di estrema delizia e godimento, questa mostra, se non si aggiungesse all’evento principe dell’arte contemporanea nella capitale un titolo ancora più provocatorio, Armonia Perfetta. Perché poi una volta pagato il biglietto e messo piede all’interno del Vittoriano e infilate le cuffiette dell’audioguida e ascoltato la dizione contemporaneamente amichevole e freddissima del commentatore preregistrato e dimorato davanti ai quadri in compostissima estasi e stabilito quale opera incorniciata dovrebbe assolutamente pendere dalle pareti di casa tua per rendere evidente alla platea degli ospiti occasionali e delle ragazze che di tanto in tanto frequentano il tuo divano parole che per nulla ragione al mondo assocerebbero alla tua figura, sensibilità e rigore, per dirne due, le bollicine del dubbio risalgono la superficie della coscienza, cosa ci fa l’esposizione monografica di un pittore così razionalmente ispirato nella città di Roma?. E in un attimo il dubbio diventa un rovinio assordante, il rumore dello scollamento definitivo tra una visione e una realtà, in particolare tra il susseguirsi ragionato delle opere di Piet Mondrian e l’inesauribile viluppo di strade stradine viali circonvallazioni tangenziali della città di Roma. Da una parte l’armonia rigida delle forme e dei colori, dall’altra la dispersione disordinata delle forme e dei viventi, da una parte la ricerca rigorosissima dell’equilibrio, dall’altra lo sbraco quotidiano della gestione del reale, da una parte l’astrazione disinfettata di un mondo autosufficiente richiuso e immobile, dall’altra la consistenza materiale di una romanticissima incasinatissima ingovernabilissima cloaca. Su una parete bianca, all’inizio della mostra, stampigliata con cura, leggo pure questa frase, Nella realtà vitale dell’astratto, l’uomo nuovo ha superato i sentimenti di nostalgia, di gioia, di rapimento, di dolore, di orrore, e io ci credo, credo al fossato aperto tra la città di Roma e la pittura astratta, credo alla visione di un’arte atmosfericamente molto distante da noi comuni agitatissimi mortali, credo a ogni singola parola stampigliata di Piet Mondrian, e l’appunto sul cellulare, volesse mai il cielo che i neuroni-specchio abbreviassero e poi smaterializzassero così tanta consapevolezza. La sera successiva, come ogni sera, a fine attività lavorativa, salgo sull’autobus e aspetto di arrivare a destinazione. L’autobus procede a rilento, poi infila il lungo corso della tangenziale est, tangenziale su cui si danno immancabile appuntamento centinaia di macchine al secondo, centinaia di migliaia di paure ansie psicopatologie inscatolate nell’abitacolo delle macchine con i finestrini chiusi e l’autoradio a tutto volume per cercare di attutire la straziante colonna sonora del rientro. Quando ogni singolo centimetro della tangenziale è occupato, e tutto s’inchioda, sull’autobus nessuno fa una piega, non c’è niente di più naturale, goccia a goccia si dà la stalattite, macchina una dopo l’altra si fa consistente il più gigantesco ingorgo. Anche se è tutto bloccato, barbagliano i fanali, si accendono di rosso giallo arancio, ridisegnano geometrie di colori squillanti in variabilissima formazione, intermittenti e altisonanti continuano a luccicare, tanto che a un certo punto la constatazione si eleva al di là della perdita di tempo e degli affari quotidiani, sembra di stare dentro il Victory Boogie-Woogie (1943-1944), l’ultimo quadro dipinto da Piet Mondrian, come se esattamente dentro la città di Roma la vita con le sue terribili armate avesse voluto sfidare la purezza incontaminata del mondo dell’arte, come se la vita non ammettesse alcuna distinzione, e cercasse di annettersi gli stato-nazione dell’equilibrio e dell’armonia, un’azione lampo che si compie ogni giorno tutti i giorni in qualsiasi asfittico punto del pianeta Terra, mentre oscilla il capo dei passeggeri, si fanno piccoli e rossi gli occhi, il pugno batte sul volante, rimangono muti gli infermieri sull’autoambulanza con il presentimento di non riuscire ad arrivare in tempo.

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Helena Janeczek è nata na Monaco di Baviera in una famiglia ebreo-polacca, vive in Italia da trentacinque anni. Dopo aver esordito con un libro di poesie edito da Suhrkamp, ha scelto l’italiano come lingua letteraria per opere di narrativa che spesso indagano il rapporto con la memoria storica del secolo passato. È autrice di Lezioni di tenebra (Mondadori, 1997, Guanda, 2011), Cibo (Mondadori, 2002), Le rondini di Montecassino (Guanda, 2010), che hanno vinto numerosi premi come il Premio Bagutta Opera Prima e il Premio Napoli. Co-organizza il festival letterario “SI-Scrittrici Insieme” a Somma Lombardo (VA). Il suo ultimo romanzo, La ragazza con la Leica (2017, Guanda) è stato finalista al Premio Campiello e ha vinto il Premio Bagutta e il Premio Strega 2018. Sin dalla nascita del blog, fa parte di Nazione Indiana.
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