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Fenoglio che visse (almeno) due volte

di Giacomo Verri

[A Beppe Fenoglio. Che oggi avrebbe compiuto 90 anni. Sempre sulle lapidi, a me basterà il mio nome, le due date che sole contano, e la qualifica di scrittore e partigiano (ndr)]

Intervistatore: Permette una domanda?

Fenoglio: La prego… Mi perdoni. Debbo mettere un po’ d’ordine in questo foglio. È così difficile, è tanto complicato… Sa, io non scrivo per divertimento. Ci faccio una fatica nera! La più facile delle mie pagine esce spensierata da una decina di penosi rifacimenti. Quindi abbia pazienza… ancora un secondo.

I.: Certo, ci mancherebbe…

F.: No! Non va ancora. Ah! lasciamo stare! Mi dia da accendere… per cortesia. Perdoni la rudezza ma, quando scrivo, entro in un mondo…

I.: …il mondo dell’arte, la nuvola dello scrittore…

F.: Ma per carità! Lo sa, lei, quanto poco ho vissuto? Quarant’anni… quasi quarantuno. Ho scritto una decina di libri, e tre soli, me in vita, ne hanno pubblicati… Scrivere… sì! e con quale pena! con che fatica! Sa quante volte non ho potuto giocare con la mia bambina, quanto spesso ho tolto un bacio, una carezza, un abbraccio a mia moglie? E prima ancora di sposarmi, che vita ho fatto fare a mia madre e a mia sorella! Tornavo da lavoro e se­devo in tavola a leggere come un folle i libri tenuti accanto al piatto, oppure mi get­ta­vo niagaricamente a battere furioso sulla macchina da scrivere! Mi facevo servire per poter leggere. Sempre appoggiato a un foglio di carta, con uno stecco di sigaretta incassato tra i labbri. E il resto del tempo? In azienda, a sbrigare la corrispondenza. E non che lo facessi a contraggenio… ero attaccato a quel mio posto. Ero ligio e fiero. E, badi bene, l’essere ligio non significava che io piegassi la testa.­ No, io la portai sempre alta, e la mia fronte fu sgombra dalla vergogna e, casomai, fu appesantita dall’orgoglio. Per questo­ forse non lasciai mai Alba. Ma torniamo a dire della nuvola dello scrittore dove lei vo­leva mettermi a sedere. Nes­suna comodità in quel mondo che le dicevo: lì si forgia la lingua, si tempra l’uomo, si scrivono parole che son testamenti pesanti co­me colline gravide d’uva; una dimensione, tra l’altro, che poco ha a che fare con l’editoria. Anzi, le confesso che mi parve sempre di fare una gran figuraccia a introdurmi con terragna pertinacia nella sfera ufficiale delle lettere, piena­ di equivoci ostacoli, di sussiego, di asprezza imbellettata. Ecco un altro motivo per cui non abbandonai Alba. Un solo vero amico ebbi, di quegli ambienti della carta stampata, e fu Calvino, che tra l’altro mi pare abbia detto – ma non lo so confermare, perché a quell’epoca ero già sottoterra! – la più bella cosa su di me e sui miei libri, quando scrisse­ che io, il più solitario di tutti gli scrittori della nostra generazione, riuscii a fare il romanzo che ognuno di noi aveva sognato, Una questione privata, un libro non finito, incompleto, ferito, per quello che dice e per come è…

I.: Mi pare una faccenda importante: i suoi libri migliori sono quelli che lei non vide mai pubblicati, ma soprattutto quelli che lasciò incompleti, o, per così dire, in fase di ristrutturazione.

F.: Vero. Libri feriti e che feriscono…

I.: Già! e non fu per primo Vittorini a segnalare che i suoi libri parlano una lingua cruda, rappresentano con l’evidenza d’uno sfregio quanto l’uomo può essere aspro con l’uomo, buttano sangue negli occhi, un sangue di cui mai si vede il motivo, si scorge la ragione?

F.: Quel Vittorini! sempre salente in bigoncia, mi faceva paura, i suoi baffi taglienti, gli occhi anneriti come l’Africa, la piantatura folta dei capelli… era l’esempio vivente di cosa sia la violenza, di cosa sia l’uomo aspro; era, mi parve, un uomo disperato, spesso, me lo conceda, incazzato come un ciompo, altero, orgoglioso; incarnava il tipo del contadino di Sicilia ma, a un tempo, poteva tenere qualcosa dell’uomo di Langa, cocciuto, glaciale…

I.: Come gli uomini della Malora?

F.: In un certo senso… Sa che a tratti lo odiai? Quando mi diede del ‘provinciale del naturalismo’… meno male che c’era Calvino…. Eppure ci vogliono uomini come quello per raffinare la propria violenza sull’altrui violenza, il proprio odio sulle ingiustizie, la propria mortale indifferenza sulle crudeltà infinite…

I.: Ma lei non è mai stato un uomo indifferente!

F.: No e sì. No, perché mai mi feci ridurre passivamente dall’indifferenza a essere indifferente, dalla crudeltà a essere crudele… Ma lo fui, indifferente, ogni volta che non riuscii a essere migliore di me stesso. E fu molte vol­te. Ma non creda: io cercai sempre di ribellarmi.

I.: Non si preoccupi: ben si vede dalle sue pagine, dai suoi eroi…

F.: Lei confonde me coi miei personaggi, biografia e letteratura! Ma stia se­reno, la prego. Non posso dirle che sia un bene in assoluto… voglio dire, con certi autori è meglio non operare pericolose sovrapposizioni… tuttavia, nel mio caso…. Non è un segreto che io mi sia sentito Milton, Johnny, Ettore…

I.: …un contadino delle Langhe, un uomo qualsiasi dei suoi racconti? Un uomo che vive di terra, che sa di terra, che la ama e la odia?

F.: A costo di parerle brutale, le di­co che si sbaglia. I miei contadini non amano la ter­ra, né la odiano. Almeno, non la odiano e non la amano con quella chiarezza intellettuale che io penso di avere. Odiano e amano­ come fanno le bestie, baciano la terra quando dà i frutti, e la forzano, e la violentano per­ché li dia; ma la prendono a calci, se il frut­­to è scarso, tarda a venire o è guasto. So­no spietati, come è giusto che sia.

I.: Non la capisco! Perché è giusto essere spietati?

F.: Ha ragione. Ho usato male le parole. Avrei dovuto dire che è necessario essere spietati; è la legge della vita che lo vuole. Ciò che tentai di costruire con i miei personaggi è un’opposizione a questa legge brutale che non distingue, che calpesta come un toro, che spacca come un ariete, che avanza, umanamente boriosa, a preservare se stessa.

I.: I suoi eroi, quindi, non muovono da motivi ideologici, non combattono il fascismo perché vi si oppongono politicamente…

F.: No, mio caro amico. Il fascismo fu solo l’estrema pelle, una copertura oscena e cribrosa di un corpo già corrotto, debilitato, ammalazzato: il corpo della violenza, un corpo di cui tutti noi partecipiamo in una tragica comunione. Anzi il fascismo, per la verità, fu il segno che concesse a me, e a tanti altri, l’intelligenza di quel corpo universale. Fu un simbolo co­sì­­ grosso, bruto, stupido che po­temmo vedere il suo schifoso organismo stac­carsi da noi: per la prima volta non più ci sentimmo partecipi della tetragona violenza del mon­do. Tornammo a diventare uomini, come Dio, forse, li volle fare dal principio…

I.: Mi vengono in mente alcune parole del Partigiano Johnny: «Partì verso le somme colline, la terra ancestrale che l’avrebbe aiutato nel suo immoto possibile, nel vortice del vento nero, sentendo com’è grande un uomo quando è nella sua normale dimensione umana. E nel momento in cui partì, si sentì investito – nor death itself would have been divestiture – in nome dell’autentico popolo d’Italia, ad opporsi in ogni modo al fascismo, a giudicare, a decidere militarmente e civilmente. Era inebriante tanta somma di potere, ma infinitamente più inebriante la coscienza dell’uso legittimo che ne avrebbe fatto. Ed anche fisicamente non era mai stato così uomo, piegava erculeo il vento e la terra».

F.: Ecco l’atteggiamento fiero con cui volli affrontare la vita.

I.: Il fascismo fu dunque una sorta di Moby Dick, un condensato del male che scatenò, per antitesi, la Resistenza…

F.: No, faccia attenzione. In primo luogo Moby Dick è il simbolo del male tutto,­ preso nella sua vastità e profondità ocea­nica; è il male nobile, grande, eterno, sublime… il fascismo non fu che una povera cosa. E poi la Resistenza: un fulgido e ammirevole stato di grazia collettivo. Ma fu il singolo uomo, Johnny o un altro, poco importa, a dover combattere, periclitare, patire, sputare, per raggiungere la statura morale che lo avrebbe fatto sentire grande, un grande uomo.

I.: Purezza sentimentale, grandezza della storia!

F.: Sì, la purezza, il raffinamento dello spirito. È qualcosa che si ottiene nella solitudine d’una stanza, come d’una somma collina. Nella sconfinata, assoluta, profonda, alta, stregata, incubosa, vespertina, invernale, vacua solitudine che s’aderge superba, che separa una morte dall’altra. Amavo e tuttora­ amo fumare in solitudine e absent-mindedness, quasi cercando un esercizio di souplesse. Nobile souplesse. Il mio esercizio spirituale mirava alla grandiosità, all’impressionante umanità dell’agire. Volevo che tutto fosse in me nobilmente umano. Ha mai vi­sto una foto di me camminante? Prenda quel­la che è in capo alla prima edizione della Paga del sabato. Io ero un uo­mo­­ serio. Io camminavo fiero, co­me deve camminare un uomo che s’è dato il compito di sfidare la violenza metafisica dell’umanità. Era sacro quel conato di vi­ta contro la violenza, contro il male.

I.: Possiamo dire che lei ha combattuto da partigiano e da scrittore.

F.: Possiamo. La mia casa trasudava carte, era un oceano di carte tuffate nei cassetti, sulle scrivanie, rintanate in armadiature infinite. Quante! E che pena ho procurato a chi si è preso la briga di fare ordine! Il partigiano Johnny poi… ha dato non pochi grattacapi! Ecco un residuo di cattiveria: infatti non ho nessuna intenzione di mandare segni per sciogliere l’enigma della datazione. Che fatichino! La fatica è una purga dello spirito, un raffinamento.

I.: Allora non è proprio così cattivo!

F.: Crede? Non sta a me pronunciare un giudizio a voce alta. Combattei, dunque, sia da partigiano sia da scrittore. La lingua dei miei romanzi è lì a testimoniarlo: non fu forse una dura battaglia? Volli sfidare la mia pochezza per sentirmi completamente uomo, un uomo nel senso che prima abbiamo detto. Mi piacque raccontare l’entrante inverno del ’44, l’assenza lunga del sole, sputare su quell’appello del ge­nerale Alexander. Affondai nell’abisso della disperazione quando rifilai a Ettore quel sontuoso mal di gola, più fastidioso del fascismo, e poi lo feci catturare dai repubblichini. Godetti nel far emergere quel mio Johnny, solo di fronte alla leviatanica solitudine dell’inverno. Che dolcezza gelida! L’uomo che supera l’uomo, che combatte in uno stato elementare! Lo vede il mio naso?

I.: Certo, lo vedo.

F.: Bene. È un naso esagerato, una pal­la di carne posticcia, una concrezione di cartilagine, un naso robusto, acropolico. Mi piace pensare che sia venuto così per il gelo, per la vita grama del partigianato. Quel più di carne, quando mi specchio, mi sembra non mia, amo pensare che sia cresciuta in quei mesi in cui fui meglio di me stesso, in cui passai il segno della mia miseria.

I.: Forse lei è troppo se­vero…

F.: Mai abbastanza. Per questo combattei aspramente con la scrittura: per raffinarla, per mandarla oltre. Ho scritto sempre with a deep distrust and a deeper faith… Ma ora vada, ché altro tempo non ho, sebbene qui il tempo sia infinito. L’infinità, anzi, mi fa male: m’ha messo in bocca questo tono asseverativo, che prima non ebbi mai, giacché in vita parlavo poco, e solo con gli amici fidati. Ero pure balbuziente! Ma adesso… adesso, in questo tempo eterno, la mia pochezza si fa sempre più vasta, e io ne soffro, ne soffro terribilmente.

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5 Commenti

  1. Sarà anche Fenoglio, ma qui sembra l’Hemingway di “Midnight in Paris” di W. Allen…

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