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Il periodo blu di Anita Riolo

di Marco Mantello

Cara Anita,

Ho provato più volte a scrivere qualcosa di universale e compiutamente privo di emotività a proposito della tua nascita. Magari lo troverai stupido, natalizio, retorico… Te lo ricordi che ti dicevamo tua madre e io da ragazzina? «Hai fatto sempre come volevi tu». E impara a difenderti, in primo luogo da noi, l’autonomia il senso critico non lo so scusa, non volevo iniziare così…
La sera prima, con tua madre, eravamo stati a un concerto all’Akademie der Künste. Verso mezzanotte, quando sono cominciate le contrazioni e ci siamo messi con l’orologio a vedere ogni quanto le venivano, era tutto pronto in due valigie apposite, le lenzuola pulite, i vestiti di ricambio, la cioccolata per me…
Ecco, adesso sicuramente mi dirai: come al solito descrivi le situazioni senza esporti mai in prima persona. Che cosa provavi, tu? Avevi paura? Eri felice? Un senso di attesa, agitazione, cosa?
Non lo so forse all’inizio una totale assenza. Che poi è la sensazione tipica che provo, quando mi capita di vivere. Voglio dire la rottura dei ritmi, le giornate più o meno scandite, la verità è che il tempo presente a me mi stordisce proprio, ti sembra come di non esserci, come assistere a uno show da fuori, appunto, fiction.

Siamo arrivati alla “Casa del sole” alle due di notte. C’era questa stanza dalle pareti gialle, con un letto a due piazze e il soffitto a spioventi dove entravi scalzo, una vasca rosso fosforescente, una spalliera ginnica e una possente corda che pendeva giù dal soffitto, gialla anche lei. Pareva di stare dentro a uno di quei quadri metafisici, tipo ‘Mobili nella Valle’ di De Chirico. Solo che poi, guardandoti intorno, ti accorgevi delle quattro mura dove stavi chiuso, e della presenza di persone.

Nei primi mesi avevamo fatto pure il corso preparativo al parto. Si ragionava un minimo sulle alterazioni degli equilibri, sui rapporti con il tuo partner, su quanto poco si possa scopare durante l’allattamento e come fare per non lasciarsi, sì insomma era un fatto di testa che comanda il corpo ed era ok così, almeno per me, un fallico masochista, come diceva il libro di Lowen che ci avevano dato da leggere a casa. Solo che rappresentarsi un qualche cosa resta una cosa molto diversa dalla sua esperienza diretta. E noi adesso stavamo lì, in quella specie di gabbia per canarini e tua madre gridava, adesso era il suo corpo a comandare la mia mente e gli equilibri che pensavo stabiliti una volta per tutte stavano per rompersi irreparabilmente, assieme alle acque di tua madre. E c’era Karin. Karin, quella cicciona, pareva uscita da quella serie televisiva sugli angeli che vanno in giro per l’America bianca a lenire il dolore dei poveracci, dei ricchi sfondati, dell’intramontabile ceto medio.
Alle lezioni sprofondava su una grossa palla, a gambe larghe, davanti alle coppie di puerpere e partner, e da lì ci leggeva i resoconti di quelle che avevano fatto già, alla “Casa del sole”. Lavorava con questo bambolotto glabro, pelatissimo, con due grandi occhioni blu e le palpebre che si aprivano e si chiudevano.
«E adesso proviamo a girarlo… le mani sempre sotto la testa, ecco state facendo il bagnetto… ».
Dopo le prove pratiche guardavamo vecchi video degli anni ’70, queste trentenni di allora oramai decrepite, rugose, forse morte, con le onde di mare aperto e i cappellini a fiori. Si discuteva appunto di “controllo del dolore”, lasciarsi andare alle contrazioni che vanno e vengono come onde, non lasciarsi mai travolgere e lei, su quella palla, col telecomando in mano e il suo instancabile: «Allora! Ci sono dubbi, domande?», scrutava le silenziose facce delle puerpere. Rispondeva a tutto, anche alle cose più cretine, quelle fatte dai partner giovani per far ridere l’uditorio («Ma il bambino può diventare sordo prima di nascere? Voglio dire, lui ci sente da là dentro, giusto?»).

Entrò nella camera gialla e disse: «Cara… » a Elisa, e per due volte le carezzò le guance. Io vedendola sentii la sensazione solita. Familiare il golf di kashmir e quei larghi pantaloni neri. Familiari quelle dita grosse e tonde, prive di tremori e senza anelli. Familiari le labbra sottili e il respiro greve, bisognoso di pause quando faceva le scale. Non ci avevo fatto proprio caso, a quel leggero cedimento psicologico quando era venuta a casa, la settimana prima, con tutti quei fogli da firmare, e che adesso rivedevo nitido in quel tenue, balbettante: «Ciao, junger Mann. Prendi posto», con il quale mi aveva accolto nel suo piccolo regno delle nascite naturali. Forse era stato il modo in cui mi ero posto io, le prime volte. O il fatto che di solito operasse con caratteri più semplici e penetrabili, o il prolungato silenzio con il quale osservavo muoversi la sua ciccia nella nostra cucina, a renderla goffa, insicura, così poco tedesca, se capisci cosa intendo dire.
Quando seppe che ero giurista le cadde la penna di mano ed era come se quella distrazione insulsa, non lo so, era come se l’avesse sentita accadere con i miei occhi, gli occhi del controllore. Ma io non volevo controllare nulla, le avevo solo chiesto se quella che firmava Elisa fosse o meno una dichiarazione di consenso informato.
Così, adesso che eravamo dentro a quella stanza gialla, e tu dovevi nascere, feci molta attenzione a non fissarla mai dritta negli occhi.
«Secondo te quanto ci metteremo? », le chiesi
«Ah, può durare oltre dieci ore, junger Mann… ».
Faceva su e giù dalla camera gialla a ‘di là’, con un mucchio di scartoffie in mano, e cantava con Elisa e l’altra ostetrica più giovane, tutte di pancia, come nel video delle onde. Elisa stava in ginocchio, pallidissima, su un tappetino ai piedi del letto. Io invece ero seduto ai bordi, e le tenevo la testa in grembo. Certe volte, in quel lucore, la vista sfocava nel dormiveglia e il canto delle vestali si faceva sempre più lontano. Poi sentivo la sua voce greve: «Elisa, ho bisogno che ti stendi un attimo. Devo scrutare dentro». E subito mi risvegliavo, aprivo gli occhi su tutto.

Non uscirono molte acque, quando le mise il pollice e le ruppe lei, o almeno io non me ne resi conto. Le avevano dato le palline omeopatiche e di tanto in tanto la riportavano in bagno per defecare.
«Brava e adesso e adesso espiriamola tutta… schuuuuuuh… schuuuuuuuh…’, disse Karin. Eravamo lì da cinque ore. E lei scrutava, scrutava dentro coi polpastrelli e poi, con discrezione, muoveva gli occhi verso la collega, come in quella vecchia puntata di ‘Touched by an angel’, dove Tess dice a Monica che il Padre Eterno l’ha adibita a una nuova missione ed è tempo di levar le tende…
«Dove senti spingere Elisa? Sul sedere?», le chiese con tono serissimo.
«La pancia», mugugnò Elisa. Era sudata fradicia e cantava, cantava sempre più forte.
«Come prego?»
«Davanti, sente spingere davanti… » disse l’altra. Le avevano dato il Buscopan, e poi di nuovo in bagno.
Fuori dalla finestra, la barra del parcheggio aveva preso ad azionarsi e il buio, dentro i rettangolini accesi dei palazzi in direzione Lichtenberg, era svanito di colpo. Lungo il cielo lattifero e nùvolo, si sentiva la scia delle prime auto, e un trionfale cinguettìo di uccelli.
«Elisa ti devo parlare» disse Karin. Erano le sei del mattino.
«Non riesco a vedere la testa e ho deciso di portarti in clinica. Adesso ti farò un’iniezione. Non interromperà le doglie, stai tranquilla. Junger Mann prende le vostre cose e ci segue in auto, sono solo cinque minuti, allora che ne dici? Sei d’accordo, andiamo?»
L’avevano fatta rivestire, giù al parcheggio, piegata in due dalle fitte e pallida, ripeteva sempre questa cosa di farlo smettere: «Per favore fatelo smettere!». Anche in clinica, quando l’hanno stesa per l’ecografia: «È uno Sternengucker!» ci spiegò la dottoressa, cioè uno che guarda le stelle, con la testa verso l’alto e non come avviene di solito, chino e curvo verso la terra.
«Ehm in questi casi si fa il cesareo… » disse Karin con un tono da missionaria. La dottoressa prese a fissarla con la classica circospezione della ‘laureata’.
«Sì ma il bambino sta bene?» le chiesi io

Karin è andata via dopo mezz’ora, baciandoci tutti in fronte. Quanto a me e a tua madre, ci avevano messo in una sala tutta per noi, a strillare con questa Cordula, l’ostetrica nuova. È arrivato un ragazzino dai grandi occhiali, in càmice verde. Elisa stava a pecora sul letto e lui dietro, stringeva la siringa in mano e con un grosso pennarello aveva disegnato una x, tra le vertebre settima e ottava per l’epidurale.
«E perché ha deciso di partorire in una “Casa del sole”? Perché è più bello?» le chiese ficcando l’ago in vertebra.
«Adesso non mi va di parlarne, se vuole glielo spiego dopo!» sbuffò Elisa gelida.
Il dottorino fissava tutti e nessuno. «È venuta perfetta!» disse, come per dare conferma a se stesso del suo livello di preparazione post-dottoraria. «Adesso deve solo spingere nel verso giusto, e se lo ricordi, la prossima volta in ospedale è meglio!» ripeté prima di uscire. Il male si era fatto innaturale, e dunque tollerabile, biblicamente e laicamente in regola.
«Cinque centimetri… » disse Cordula. E poi, verso di me, stavo di fianco al lettino, a massaggiare il culo aperto di tua madre… «Vuoi vedere? Vieni! Vieni a vedere, avvicinati non essere timido… ».
Era tutto di fuori, una grossa palla violacea, e quel misto di urine emorroidi e feci, adagiato su una tonda bacinella argentea che tutto accoglieva, tra le mani Cordula aveva pure questa lucina e l’agitava e mi diceva: «Ecco, la vedi la testa?». Tesi gli occhi verso il cattivo odore e poi, quando Elisa ha spinto ancora, e ancora, e ancora, gridava proprio… «Elisa ci sei! Manca davvero pochissimo!» ho strillato anch’io. Avevo una voce, letteralmente, ‘rotta’, in quel mare di grumi neri e merda, era la prima volta in vita mia che sentivo sulla pelle di qualcun altro, tutto il peso della parola vita. Sei uscita fuori come una molla. E Cordula a sua volta ha mollato, anche la bacinella. La prima cosa che ho visto è stata la tua fica.
«Elisa, è femmina guarda è femmina!». E lei si è mossa tutta, per vedere dov’eri, con quei due occhi lucidi, stava ancora a pecora, fra il cordone e il suo pulsare vivo, le avevano messo questo coso di plastica, come una specie di mezza coda che pendeva giù dal culo. Poi hanno portato le forbici. Erano d’oro, minute e arrotondate sulle punte. Cordula ha stretto per bene, pareva l’inaugurazione di un transatlantico.
«Qui junger Mann, devi tagliare qui!» mi ha detto.
E io ho tagliato, il suo pulsare vivo.
Non so dire per quanto tempo, dopo che ho tagliato, eri tutta blu. I piedini il naso le gote tutta blu e ti guardavi intorno, come se qualcosa volesse venire fuori. E spingesse forte. E non riuscisse a uscire dalla tua bocca il respiro o il grido, una cosa solo tua il distacco definitivo dal corpo di tua madre…
Elisa ti aveva tirata al petto, aveva un’aria da fine della storia: «Anita tesoro… respira… Ma che c’hai!». Ti sorrideva. Ti sorrideva sempre e tu eri blu.
Cordula invece era bianca. Non solo il camice, e i guanti di lattice, e la targhetta col nome… Ti ha preso senza dire nulla e ti ha portato via di corsa.

Non sapevo dove andare, in quei momenti, non capivo nemmeno che era successo, o meglio sì, lo capivo, ma sembrava non vero, irreale, fiction, come ti dicevo prima.
Sono uscito a cercarti nel corridoio. Sentivo il rumore dei passi, questi camici senza faccia, che entravano a passi rapidi da una porta a vetri, come sospinti dal lampeggiare di una lucetta. Elisa era rimasta sola, nella stanza vuota. Girava la testa di continuo, agitando come una gatta isterica quella specie di coda mozzata: «Perché me la portate via? Non dovete!» strillava e la porta era aperta e non poteva uscire.
La prima cosa che mi ha riportato alla realtà, è stata vederti in mezzo al circolo di alieni verdi. Ti avevano messo su una lastra di acciaio, con dei tubicini trasparenti ficcati su per il naso e ti osservavano dalle loro maschere. Forse avevi inghiottito del liquido amniotico, c’era il dubbio che potessi averlo respirato, tutto giù nei polmoni, i tuoi occhi erano vispi, curiosi e muovevi le gambe e le braccia come una tarantola… C’era il medico magro e le sue parole Adesso è stabile… Massaggio cardiaco… Non possiamo ancora stabilire se ha subito danni cerebrali… A sua moglie è meglio dire che va tutto bene… mi passavano in testa come grandi e veloci astronavi.
Ecco appunto, mia moglie (che poi non è mia moglie, è Elisa), quando tornai in stanza la stavano trasportando nell’altra sala, quella delle operazioni in anestesia totale, continuava a sanguinare erano rimasti i pezzi di placenta nell’utero, tutta roba da raschiare e da farlo subito, aveva detto la dottoressa, altrimenti c’era il rischio emorragia. Il corridoio era lo stesso tuo. Stessi vetri stesse ombre verdoline in trasparenza, che agitavano negli echi di parole il mio fervente senso della tragedia e quell’incerto, feroce oscillare, fra te e lei…

Forse l’avevano già addormentata. Il fatto è che dopo dieci ore di travaglio, voglio dire sì insomma saranno stati anche una “quindicina di minuti scarsi”, e poteva pure non esserci “nessuna plausibile connessione” con l’epidurale, come dicevano quelli, però, dopo dieci ore di travaglio, voglio dire…. E comunque la connessione la sentivo io, nitida, sul suo viso oscenamente sfigurato dalla tua assenza, quell’insano bisogno di tenerti, Anita, di allattarti, avevano preso le forme di un rossore acquoso e tutto, anche la sua stanchezza, anche il vuoto nulla da cui ti aveva fatto uscire, e quell’intenso, inverosimile colore blu come dicevano loro… “Signor Riolo mi ascolti bene. Oggi è stata una giornata bellissima, ma anche difficile…”.

Così me ne rimasi zitto su una seggiolina, quasi mortificato per come mi sentivo adesso, a fissare lo ‘scorrere’ delle rotelline, a ticchettare con le adidas su quell’odore greve di pavimenti disinfettati, su quell’asettica pulizia che ti entrava in bocca, quasi a disagio per l’insana voglia di prendere un camice a caso e picchiarlo a sangue, fino a che non mi avesse garantito, “signor Riolo”, che era tutto chiaro, ineccepibile certo, e che “stasera tornerete a casa insieme”. Quel luogo così confortevole che corrispondeva agli interni della mia testa, lo vedevo adesso come un’immonda sala di attesa, come un bosco disincantato dove la Morte, assumendo sembianze rigorosamente femminili, mi avrebbe spiegato ogni cosa per ciò che era. Avevo i sensi sviluppatissimi e tutto al tatto, alla vista, si ingigantiva di particolari, che fossero le sedie di ferro occupate cinque minuti prima da esseri più in ossa che in carne, o le lancette dell’orologio a muro, o quel senso di veglia forzata che ristagna nelle sale operatorie, assieme all’alito dei visitatori, al fumo del brodino e ad un olfatto potenziato, quasi animale nella sua esattezza.

Ho aspettato, Anita, ho contato i passi e anche loro passavano. Càmici bianchi, invece che verdolini. Alieni nuovi, affrettati, e col sorriso stampigliato sulle maschere… A tutti chiedevo sempre la stessa cosa, non sapendo nemmeno da dove venissero, o a chi diavolo stessi parlando: «Respira adesso, non è vero?».

Tutto il resto lo sai. Anche la storia di quel video di te a otto ore, quel groviglio di fili e filetti che ti pendevano dal collo, la flebo di zuccheri e la scatolina di plastica, con una piccola escoriazione sul naso e gli occhi blu, l’unica forma di blu che ti era rimasta addosso. Ripresi tutto. Anche l’aria il gonfiarsi leggero del petto, sotto la lana della coperta… Ogni volta che tiravi su col naso, fissavo le linee rosse sullo schermo, regolari, serenamente spezzate… Non l’ho fatto mai vedere a nessuno. Forse l’ho pure cancellato non mi ricordo sono passati un sacco di anni e tu sei diversa, adesso lo siamo tutti… Anche tua madre, quando ne riparliamo e mi fa leggere questi articoli sul clampaggio precoce del cordone. Lei sostiene che «se avessi avuto la prontezza per dire di no, di non tagliare subito, pulsava ancora… Per favore, parlale di questa cosa nella lettera, per favore è importante per me… ».

Non dire assolutamente nulla di questa cosa ai nonni. A loro dicemmo solo di Elisa, non di te, anche dopo quando ti abbiamo portata a casa ed era tutto finito concluso, anche la paura che avevamo i primi tempi che ti andasse qualcosa di traverso in gola, o che uno sguardo severo ti soffocasse, neanche il mio senso di gelosia e frustrazione, quando Elisa stava solo con te, pensava solo a te e io volevo andarmene via da voi, dalla forza annientatrice del vostro amore… e tutte le volte che ti ho addormentata, davanti a quella finestra chiusa e siamo andati insieme al Tierpark a vedere l’elefante e poi hai cominciato a strisciare hai messo i denti hai distrutto i miei dischi hai imparato ad aprire e chiudere cassetti e battevi le mani mi facevi ciao dalle fotografie…
Tua madre mi ha odiato quando le ho fatto leggere la storia della tua nascita. Lei dice di no ma è così, si è sentita come se le avessi tolto qualche cosa dal suo corpo e c’ha ragione, non c’ero mica io là dentro. Chiedo venia se non potrò mai gonfiarmi tutto come una mongolfiera, ospitare niente di simile a un figlio dentro di me! Averlo solo fuori, davanti agli occhi: lo capite che voglio dire? Lo capisce il vostro corpo che significa: diverso?
Quando ho detto a tua madre che volevo mettere il racconto in rete, spedirlo a ilmiolibro.it, beh è stato come se qualcosa si fosse riaperto, mi fissava come un’erinni con quegli occhi tutti di fuori, continuava a ripetermi a strillarmi addosso: «Era il mio parto, così mi fai sentire nuda!». E poi: «No. Non è andata così… Devi scrivere anche… ». «E ora a che pensi? Stai pensando di farci l’editing?».
Ho pensato che era tutto un grandissimo equivoco, che in realtà non era successo proprio, che mi ero inventato tutto e che nemmeno tu esistevi, ho pensato che almeno cambiare i nomi, trovarci un titolo, una cosa snella, veloce, agile, che hai il diritto di interromperla a metà, o finirla una volta per tutte… E comunque non era nemmeno di quella specie di 11 novembre del 1989, ore 11.30 città di Berlino, che ti volevo parlare con la mia lettera. O meglio sì, era quel giorno, ma per come lo vivo adesso, nel tempo presente, sento che se ne sta lì piantato dentro come un muro e che non crolla mai, e che mi giudica, e che è molto severo… Sento che non riesco a metterci il punto, la parola fine e ripetermelo ancora, all’infinito: fine. Come se tutto fosse già successo e non restassero che i colori, le sfumature, quell’attimo in più, bastava davvero un nulla ecco, lo capisci che volevo dirti, Anita?

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6 Commenti

  1. Una bella narrazione, mai banale di una giornata in cui sembra di esser entrati in un video e invece tutto sto “contrarre, respirare, lasciare” lo si sta vivendo davvero. Come l’assenza di pensieri, il tempo che sparisce o si blocca di colpo, lo stordimento profondo. Mi piace la descrizione delle sensazioni maschili, di solito appiattite nei cliché. Gherardo dobbiamo confrontarci sul punto in cui abbiam sentito salire la lacrimona.

  2. A me interessava anche il fatto di vedere e sentire qualcosa di violentemente corporeo, e femminile, dall’esterno, l’emotività della voce narrante testimonia un senso di impotenza, un subire gli eventi nel loro scorrere per conto proprio, l’assenza di controllo, e di potere, una fisicità di serie b, che si riassume nella domanda finale ‘lo capisce il vostro corpo che vuol dire diverso?’

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Helena Janeczek è nata na Monaco di Baviera in una famiglia ebreo-polacca, vive in Italia da trentacinque anni. Dopo aver esordito con un libro di poesie edito da Suhrkamp, ha scelto l’italiano come lingua letteraria per opere di narrativa che spesso indagano il rapporto con la memoria storica del secolo passato. È autrice di Lezioni di tenebra (Mondadori, 1997, Guanda, 2011), Cibo (Mondadori, 2002), Le rondini di Montecassino (Guanda, 2010), che hanno vinto numerosi premi come il Premio Bagutta Opera Prima e il Premio Napoli. Co-organizza il festival letterario “SI-Scrittrici Insieme” a Somma Lombardo (VA). Il suo ultimo romanzo, La ragazza con la Leica (2017, Guanda) è stato finalista al Premio Campiello e ha vinto il Premio Bagutta e il Premio Strega 2018. Sin dalla nascita del blog, fa parte di Nazione Indiana.
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