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se c’è una cosa che non ti fa stare zitta, è un segreto

di Chiara Valerio

Ha i suoi vantaggi essere nel posto più brutto, perché non ti preoccupi di perderti qualcosa. Nella stazione termale, stanno, insieme ad altri ospiti ma un po’ discoste, quattro donne. Emma, morbida perfino nei polpacci, la nipote Lucy che forse sarebbe stata più felice se quei bei ragazzi russi, intravisti all’arrivo, fossero rimasti, Giuseppina, con una stampella che tiene salda lei e la sua bellezza passata e presente, smagliante e pugnace e Lucia, sottile e appena curva come un arco teso, con una faccia dolce o severa, a volte infantile. Nella stazione termale, dove la noia è complicata, le quattro donne si notano, si seguono, soprattutto s’incrociano, e poi qui è previsto di godersela. Ne La stazione termale (Sellerio, 2012) di Ginevra Bompiani le quattro donne, ognuna a un’età diversa, ognuna con un differente obiettivo, o nessuno, passano il tempo nuotando, fuggendo dalla sala del pranzo e della cena per rifugiarsi in un ristorante a mangiare una tartara con salse e cognac, giocano a dama, si sogguardano, passeggiano nuotano. Soprattutto, s’incrociano. Hanno una certa età, vuol dire che hanno un’età che nessuno vuole indovinare, e magari neanche avere.

Se Giuseppina non ci fosse, forse non comincerebbero a parlare, rimarrebbero mute ed educate figure di quadriglia. Invece un cenno col capo, un saluto e la curiosità ordinaria, nello spazio chiuso della stazione termale, diventano subito conoscenza e appena dopo intimità. La stazione termale in fondo è un posto troppo piccolo per qualsiasi discrezione e (…) una specie di Struwwelpeter per adulti, solo che gli adulti accorrono volontari, anzi volontarie, e non è una punizione, ma la condizione per guadagnarsi qualche mese in più di attenzione maschile (le donne non badano a queste cose, o sì?). O forse è la punizione per non volere, non sapere invecchiare. Così Giuseppina, una famosa giornalista che avanza fiera come Annibale attraverso le Alpi e il cui sangue allegro le ha regalato la dote della vittoria, si sottopone a qualsiasi trattamento, invasivo o palliativo, pur di guadagnare qualche mese di quiete nella manutenzione della bellezza che ormai è la bellezza stessa, mentre Lucia, che non sopporta il dolore né il fastidio, né l’idea di non accettare la vecchiaia, guarda le donne sugli schermi pubblicizzare trattamenti che non avrà mai il coraggio di prenotare. O forse si bea di non avere rughe sulla fronte. O forse un trattamento per le rughe sul collo, in fondo potrebbe provarlo, chissà. Non è la dolcezza che ti salverà dalla natura, è la tortura. Lucy, la bambina ha molto tempo per pensare, in fondo si annoia, e, sentendo la zia Emma piangere, singhiozzare, sfuggire o inseguire le due amiche, cerca segreti e dunque li crea.  La zia Emma però un segreto ce l’ha, ma molto sotto la pelle, invisibile. I segreti, nella stazione termale, sono fungibili. Uno vale l’altro, o quasi. Parlano basso, anche se non ce n’è bisogno. Perché basso è il tono dell’intimità. Il tono dei segreti, dei misteri, degli inizi. Non dicono segreti ancora, ma intonano la voce a un segreto.

Lucia anni prima ha insegnato e nemmeno sei mesi fa ha avuto un amore, chiamato Stefano, ma è finito e la sera esce sul balcone – i balconi, sono così astratti i balconi – e non sa più a chi dedicare la luna, non riesce a parlare con Giuseppina del fallimento della sua storia d’amore e nemmeno dei fallimenti in generale, si sente inadeguata, sempre troppo o troppo poco, barcollante anche nel passo, forse si annoia. Così si avvicina alla bambina, ma non per noia, per vanità, perché la bambina le ricorda lei, perché la bambina ha le stigmate di quelli che non sono amati abbastanza e che nemmeno possono esserlo. La bambina è un eterno secondo nell’amore della zia, dei genitori (altrimenti perché la manderebbero con la zia?), e pure di Lucia, perché Lucia stessa è seconda nel suo amor proprio. Non è solo che mi rivedo in lei, è che quando parlo con lei ridivento quella che sono, senza età e senza luogo, come se giocassimo insieme il gioco del disamato. È un gioco pieno di pieghe, rivolti, circonvoluzioni, sfide, insidie. Si impara a giocarlo con perizia, e la posta è che si perde sempre, ma dopo c’è un’altra partita.

Giuseppina è arrivata alla stazione termale per ritoccare la propria bellezza, Emma perché ha un segreto, Lucy per accompagnare Emma e dunque per scoprirlo o almeno inventarlo, Lucia perché in fondo la bellezza è il solo modo per essere amati. E i corpi hanno una loro bellezza, come pensa Lucy dei ragazzi russi spariti per sempre. Lucia, se decidesse di cedere alle cure chirurgiche, al paradiso promesso e apparecchiato dei medici della stazione termale, forse cambierebbe sesso, così poi avrebbe a che fare con una donna, che a queste cose non ci bada (o sì), e hai guadagnato altri venti anni, non sei mesi che passano in un soffio.

Se Giuseppina non parlasse le quattro donne rimarrebbero quattro, senza moltiplicarsi in quello che avrebbero potuto o potrebbero essere. Se Emma non piangesse. Se Lucia non esitasse ancora una volta. Se Lucy non raccontasse.

Ginevra Bompiani è lo scrittore dell’infanzia perpetua, del tempo interrotto, dello spazio raccolto, dell’amore mancato, del corpo mancante, e La stazione termale, in pagine di intelligenza brillante, osservazione delicata, radicata ironia e in un racconto che ha il passo di una novella libertina e divertita, mette in scena le mutue posizioni, i chiasmi, i tentennamenti di quattro donne che in fondo non cercano altro che qualcuno da accudire e col quale condividere almeno una abitudine. Anche per poco. Qualcuno che le intrattenga. Ne La stazione termale, dove invecchiare è un verbo di genere femminile, Giuseppina aggiunge un anello alla sua catena di amici sparsi per il mondo, Lucy incontra una sé stessa più avanti nel tempo e si sceglie, Emma baratta un segreto con un altro e Lucia si ritrova a incontrare qualcuno che, nonostante, scorge la donna dietro la sua armatura di eleganza. “Anch’io, credevo di venire qui a non pensare… e invece non faccio altro che pensare… è strano che una cosa che fanno tutti, una cosa così comune, nessuno ci riesce…” dice Emma. “Che cosa?”. “Invecchiare”.

La scrittura di Bompiani è immaginifica, è pensiero e azione trattenuta, considerazione e impazienza, è avvolgente di comicità e cappa di tristezza, è ferma e salda e spesso chiede al lettore un atto di condivisione che già è amore. Del resto ho sempre pensato che chi ama è in errore, mentre chi non ama è in colpa. La stazione termale è un romanzo da tenere sulle ginocchia, come parole crociate senza schema, in cui non siano però date le definizioni ma già i nomi, da sciogliere e intrecciare con un esercizio di curiosità, combinatoria, ansia di assoluto e interpretazione. Lucia ha studiato a lungo il modo di essere più bella senza che si veda.

G. Bompiani, La stazione termale (Sellerio, 2012), pp. 146, 12 eu.

a latere

Le ossessioni di Ginevra Bompiani, come scrittore e come saggista, sono il tempo e lo spazio. Uno che abbia voglia di divertirsi col mio tempo, possibile che non ci sia su tutto un treno?, come ha scritto in Bartelemi all’ombra (Mondadori, 1968), la verità è inutile perché la sola verità è nella bocca del tempo, come osservava, per Mrs Ramsay, in Time, Tense, Wheater (Anabasi, 1993), L’orso maggiore (Anabasi, 1994), che è un libro di bambini, dove pure il tempo è fittizio, è un romanzo chiuso nelle stanze folle di un collegio piccolo piccolo, Mondanità (La tartaruga, 1980) è una storia raccolta in un castello, come una favola dove il tempo è ammobiliato, L’età dell’argento (La tartaruga, 2001) è ambientato su un’isola, e l’isola è la camera chiusa. Qualcuno è morto, la chiave è nella toppa. Nessuno è entrato, nessuno è uscito. L’isola è proprio un’isola, canonica, col mare intorno. I titoli stessi – Lo spazio narrante (La tartaruga, 1978), L’incantato (Garzanti, 1987), L’attesa (Feltrinelli, 1988, et al./, 2011) – rimandano a un hortus conclusus nel quale il tempo è interrotto, sorpreso o sospeso, lo spazio è recintato, o comunque misurabile, e dove dunque le persone non possono cambiare, gli amori non possono consumarsi, i sentimenti non si possono sbiadire, bolle tridimensionali, miniature di realtà, dove tutto e fermo e quindi nessuno muore, labirinti dai quali è impossibile uscire, e neppure si vuole. Le rette, spesso simmetriche, che tagliano questi quadranti cartesiani di tempo e spazio, sono l’amore che è sempre insufficiente e la noia che è sempre in agguato. Non c’è quasi dolore più grande; dell’inefficacia degli altri verso di noi, della nostra verso gli altri. Ogni amore ne è dannato, si misura con essa come con la propria futura, necessaria sconfitta (Mondanità), Perdere è terribile. Il ritorno nella parola nostos ha un che di stanco. È il ritorno di Ulisse. Perché è tornato? Non amava Penelope. Si è subito annoiato (L’età dell’argento). Le chirurgie estetiche, plastiche et alia de La stazione termale non sono che la rappresentazione, forse l’estroflessione, della ricerca, bambina e (pre)potente, di un modo efficace per fermare il tempo, specialmente dopo che il tempo è passato e che il corpo invecchiato è l’estroflessione, forse la rappresentazione,  dell’impossibilità di essere amati – Temere in fondo, come osservava Woolf è sinonimo di Credere di sapere. Così all’invocazione del corpo di Sophie (…) si piegò sul suo corpo, cresciutole accanto come un cespuglio selvatico: «Dammi una patria», disse al suo ventre; «Dammi una patria», disse alle sue mani, alle sue gambe, ai suoi piedi lisci e intatti. «Prendetemi con voi» (Mondanità) Lucia risponde a distanza di anni, con l’evocazione dell’insufficienza del corpo stesso Non voglio fargli vedere il mio corpo, pensò. E questo è irrimediabile (La stazione termale). Perché oltre a desiderare un corpo, il proprio o quello di un altro, bisogna pure desiderare la forza e l’improntitudine di metterlo in relazione con gli altri, e di essere sé stessi davanti a sé stessi.

[l’opera in apice è di Giosetta Fioroni]

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2 Commenti

  1. Mi è appena arrivato, Chiara, ma so che è un gran libro. Non vedo l’ora di leggerlo. Alina

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