Caccia alla tigre


di Riccardo Ielmini

In memoria di Simone Cattaneo

Quando il mio amico Walter Primi tornò a casa, nella tarda primavera di quell’anno, non era più lo stopper che faceva coppia di centrali con me nei tornei estivi, quando ci chiamavano gli spietati. E nemmeno il chierichetto senza fronzoli, con la cotta troppo corta che gli scopre le caviglie, il chierichetto di cui si fida ciecamente don Toni. Il giorno che tornò, in licenza o congedo o vattelapesca, era qualcos’altro. Come se mi avessero spedito un fantoccio con il suo nome scolpito nel dna, o una specie di risvolto sbiadito della manica. Un Walter al contrario, un maglione visto di dentro, con tutte le cuciture, l’etichetta e i fili disordinati. Non assomigliava neppure lontanamente al gigante diabolico che mi faceva un cenno con gli occhi brillanti per dirmi che avrebbe preso lui l’attaccante – e fossi stato io, il centravanti, avrei dato tutto l’oro del mondo per non trovarmi, novanta minuti, a meno di un metro di distanza da lui. Come in tutte le coppie che funzionano, io facevo il partner. Io ero la spalla, il buono, il mite. Negli anni d’oro mi mettevo al centro della difesa; cercavo di non pensare a tutta l’angoscia che mi rammolliva le gambe; provavo a chiudere fuori i rumori del mondo; mi segnavo con la croce: e poi, occhi su Walter. Lui era fermo, le mani sui fianchi, il respiro regolare, le gambe piantate a terra, divaricate come i soldatini di piombo della sua collezione, la faccia quadrata e larga, i capelli corti e brillanti d’acqua, e tutto il suo metro e 95 che sembrava non finire mai, prolungato a dismisura nell’ombra sotto i fari del campo. Come una fortezza. Come il vecchio blockhaus austro-ungarico sporgente sul lago, vicino al campo, sferzato dai venti di tramontana. Ecco cosa mi sembrava, ecco perché a quel punto mettevo da parte coscienza, tentennamenti, paure, e pensavo solo alla battaglia che stava per cominciare.
Andò avanti così per due o tre estati, all’inizio degli anni Novanta. Chi metteva su una squadra per un torneo, pensava a qualcuno che non avesse pietà per nessuno. Walter Primi: presente. Poi lui chiamava me e mi diceva il posto, e l’ora. E la paga. Mai giocare solo per il piacere della partita – una questione di principio per lui: altrimenti non ti rispettano più, diceva rimproverandomi le sciocchezze alla De Coubertin imparate da mio padre. Ma a quel tempo ero nella stagione dei grandi rivolgimenti, di mio padre caduto giù dal piedistallo di capitano dell’industria per la storia del fallimento, e Walter mi pareva abbastanza degno di prendere il suo posto. Aveva un suo codice. Una lista di paroloni che lui chiudeva sempre così: e Soldi. Mi aveva riempito la testa con il suo decalogo di comportamento in campo, come dovessi caricarmi sulle spalle il male del mondo. E tutto per una partita di calcio. Ma per lui le cose andavano così.
Era stato l’unico dal quale avessi accettato la lavata di testa per aver lasciato l’università – anche questa «una questione di principio» come sosteneva mentre bevevamo una birra giù, al bar Vela, una domenica di fine agosto del ’94 che non dimenticherò mai. Sì, c’era stata la morte di mia madre, e la brutta storia di mio padre. Ma non era sufficiente, diceva lui, perché mi sgonfiassi come una camera d’aria. Io lo ascoltavo, ma che credibilità aveva lui, per mettermi davanti questioni di principio? Non aveva smesso di dar retta ai principi ai quali lo avevano educato i suoi deliziosi genitori? Non aveva tirato per il collo il destino pensato per lui da suo padre – mettersi in sella alla piccola azienda di antifurti che sponsorizzava almeno la metà dei tornei estivi ai quali partecipavamo? Non aveva deciso da solo cosa fare della sua vita, sprezzando il buon senso, subito dopo la visita militare? Finito il liceo, era partito per la naia. Poi la ferma volontaria. Poi le missioni di pace, e tutto il resto. Forse era la sua dirittura, era questo a tenermi sulla corda, a renderlo inimitabile? Uno che sapeva cosa fare, dove andare. Ed eccomi servito, io con i miei tentennamenti.
Allora, al tempo di quelle memorabili estati del ’95, ’96 e giù di lì, quando tornava a casa per la licenza lunga, allora avreste dovuto vederlo, Walter Primi, lo spietato, arrivare in scivolata, da dietro, sull’ala leggera lanciata in porta, e far schizzare il pallone oltre la rete di recinzione, con l’ala che vola via e da quel momento gironzola spaurita a dieci metri dall’area, poveraccio. O vederlo svettare con i gomiti altissimi in cima ad una mischia di sudore e sangue. Avreste dovuto vederlo, all’apice della sua fama, quando eravamo tutti e due al culmine della nostra parabola di centrali di difesa. Gente cresciuta quando i calciatori non erano fighetti con il codino e gli orecchini e i tatuaggi, come diceva lui per chiarire qual è la gerarchia dei valori. E chiudere i giochi, beato lui.
Chi l’avrebbe detto che le cose sarebbero andate così. Fossero passati i canonici vent’anni da quei momenti, avremmo tirato le somme di qualcosa – io e lui: ehi, ti ricordi com’era vent’anni fa? Qui c’era poco da tirare le somme. Dieci anni nemmeno dopo le nostre stagioni d’oro ci eravamo ritrovati, in un pomeriggio di maggio, ad ammirare le nostre inconcludenze. Solo che Walter era davvero irriconoscibile, con il suo metro e 95 di durezza appallottolato su se stesso. Io, invece, lo stesso incompiuto di dieci anni prima: il mio lavoro di magazziniere con l’incubo della cassa integrazione, le migliaia di libri letti, e i tre romanzi iniziati e piantati a metà della seconda stesura.

Comunque, era tornato a casa. All’improvviso.
Non aveva avvisato nessuno perché non voleva passare per uno di quegli eroi che il vecchio circolo di destra, a Verbate, aspettava di celebrare. Così mi disse. I vecchi rompicoglioni con le loro foto color seppia sulla decima mas, diceva lui. E non voleva nemmeno incrociare quelli della sezione degli alpini. O qualche ragazzino pacifista che gli appioppasse sulle spalle una di quelle assurde bandiere multicolori, gridando frasi incomprensibili e vuote sui destini dell’universo. Quelle puttanelle con vestiti da figli dei fiori comprati a centocinquanta euro, diceva. Alla larga, por favor.
Ci si vedeva giù, al bar Vela, come se il tempo non fosse passato, e fossimo sempre stati lì, per dieci anni e più. Magari fosse stato così. Mi precedeva sempre al primo tavolo a sinistra, nella veranda appoggiata sul lago, di traverso. Arrivandogli di sbieco, lo osservavo: i gomiti appoggiati al tavolo e le mani giunte, i suoi 195 centimetri accartocciati su qualcosa. Questo era quello che pensavo: ma forse erano le mie fantasie di scrittore introspettivo. O il bisogno di vedere che era diverso, come se avesse una vita da farsi perdonare. Guardava lontano, da qualche parte, nel chiarore del lago, dove non c’è niente da guardare se non le sagome fantasiose che pullulano all’occhio, in quel bianco di lattigine e nebbiolina.
«Non chiedermi niente» mi aveva detto il primo giorno che ci si era visti.
«Ok» avevo detto io. Ancora oggi mi chiedo se fu la scelta giusta, far finta che non fosse successo niente – e cosa mai doveva essere successo mentre lo scarrozzavano su e giù per le montagne fredde e spoglie dell’Afghanistan, nei giorni in cui io vivacchiavo aspettando che succedesse qualcosa per me, senza crederci davvero, che sarebbe successo qualcosa?
«È così chiaro» aveva aggiunto indicando il cuore invisibile del lago. «Come il posto in cui morire. A sceglierlo. Così». Gli venivano fuori queste frasi. Altro che stopper senza pietà, altro che fortezza. Altro che giganti di pietra. Un singhiozzo senza pianto. Un lamento senza vestiti strappati e urla di dolore. Straziante, per me.
«Troppo bianco» avevo detto io.
«No, bianco giusto. Come latte, come nascere ancora».
Quando attaccava così, non sapevo più cosa dire. C’era qualcosa di fuori posto nei suoi discorsi. Non che la cosa mi pesasse – il mio amico Walter aveva qualcosa di lirico, di sopra le righe, qualcosa che nemmeno lui aveva sospettato di avere. Solo che ogni sua parola sembrava saltar fuori da qualcosa di pazzesco, di abnorme. Come le cose che dici sotto anestesia.
«Una volta ho visto una donna. Una vecchia. L’ho vista in faccia e nel corpo. Un sobborgo di Kabul. Senti, ascoltami. Era senza bende, veli, e tutto quel nero che copre le donne in quel buco del mondo. Una vecchia bellissima, giuro. In una casa, durante un pattugliamento. Lei mi ha visto. Aveva appena preparato il bagno, o qualcosa del genere, in una tinozza. Potevo sentire il suo odore. Non aveva paura. Aveva i capelli lunghissimi, bianchi. La luce che veniva da fuori – una luce accecante che sbatteva sulle pareti terrose del tugurio – le faceva brillare i capelli. Li stava pettinando, o tirando, lentamente. Ha smesso di pettinarsi, e mi ha guardato – aveva visto che ero lì, ma aveva continuato per un po’ a fare come se non ci fossi. Poi mi ha fatto un segno, con la mano. Così – mi fece vedere – come passarsi un coltello sulla gola. Non ho capito cosa volesse dirmi, se voleva dirmi qualcosa: non c’erano minacce lì intorno. Zona bonificata, come dicevo ai miei uomini. È venuta verso di me, e poi – eravamo a due metri, e aveva un odore fortissimo, di incenso – ha chiuso la porta della sua stanza. Mi sono avvicinato, e ho ascoltato. Cantava. Un canto come stesse piangendo. Sentivo l’acqua intanto, muoversi. Ho guardato su, nel cielo, e verso le montagne. Era un cielo pieno di sole, accecante, bianco. E ho pensato che c’era così tanto bianco che avrei potuto perdermi, dimenticare tutto – la donna, i miei uomini, la guerra, tutto. Poi non ho sentito più la sua voce. Allora ho aperto la porta. La donna era sdraiata nella tinozza. Aveva i polsi tagliati. È morta dieci minuti dopo. No, non fare quella faccia – evidentemente dovevo sembrare il ragazzino che ero sempre, di fronte alla vita –. Era bellissimo. La luce accecante che veniva dalle finestre e dal tetto, e la donna che rantolava, e il sangue. Non sono riuscito a fare altro che stare lì a guardare».
«Come adesso» dissi io.
«No. Quello è un altro mondo. Non è per noi».
«Anche qui si muore».
«Sto parlando di un’altra cosa».
«E di cosa parli, accidenti, Walter?».
«Luce, silenzio, vuoto. Un altro mondo. Io dovevo passare di là. E adesso so le cose».
«Quali cose, per Dio?» Mi faceva spazientire. Tutto: vederlo così, sentirlo blaterare frasi sconnesse. Ridatemi il mio amico Walter, lo stopper senza pietà, il soldato duro e inflessibile. Ridatemelo, costi quel che costi.
«Le cose che ci aspettano in quel biancore. Non ne hai idea. Liberazione. Non libertà. Liberazione».
Avevo mollato il colpo. Mi sembrava tutto campato in aria, e mi sentivo venir su dallo stomaco il senso di pietà e commiserazione, proprio quello che non volevo avere parlando con il mio amico Walter. Mi raccontava storie così tutti i giorni. Un’altra volta disse che si era chinato sul corpo di un morto per sentire l’odore di mirra nella sua mano. O di quando si era vestito come un afgano, e aveva girovagato nei dintorni di Kabul per vedere sgozzare le capre, e ascoltare il riso dei bambini. Eppure era lui a dirmi di non chiedergli niente. Col passare del tempo ho cominciato a dubitare che fossero storie vere. Se non avessi saputo da sua madre e dai giornali delle sue note di merito, a Kabul, le sue parole sconclusionate e i suoi racconti mi sarebbero parsi del tutto folli. Cercavo di seguire il filo flebile della sua logica. Quando mi pareva di afferrarlo, quel filo, lui scantonava e non ti lasciava andare giù, all’inizio del groppo dal quale srotolava tutte quelle visioni. Ti guardava, sorrideva, ordinava un’altra birra, e amen.

Per un paio di settimane l’appuntamento quotidiano fu dopo le cinque e mezza del pomeriggio giù al bar Vela. Non sapevo cosa facesse tutto il giorno, mentre io ero al lavoro. Non sapevo nemmeno cosa facesse di notte. Avevo l’impressione che quell’ora che passava con me, davanti a due birre chiare, con la temperatura dell’aria che preannunciava l’estate, ogni giorno di più, fosse come una specie di ora d’aria, o una seduta gratis dallo strizzacervelli. Solo che io non ero una guida spirituale o cose del genere. Mai stato. Non che non mi sarebbe piaciuto: quando ero un ragazzino avevo un debole per le cause perse, per le storie di missionari ai quali mandavamo il riso raccolto nell’atrio della scuola elementare, per i gentiluomini mossi da un’ispirazione divina, o giù di lì, che mollano tutto e infilano le mani nelle piaghe della lebbra o nelle ferite dell’anima. Ma nel 2004 ero solo un uomo di poco più di trent’anni senza arte né parte. Uno specchio generazionale? No. Solo uno dei tanti. E davanti a me il mio amico Walter con i suoi racconti campati in aria, lo sguardo alla ricerca di qualcosa, e il suo metro e 95 traballante.

Poi, un giorno, all’improvviso, è saltato fuori con quella storia.
«Sai cosa vorrei fare, vecchio Sam?» mi chiamava così da quando eravamo seduti allo stesso banco, in terza elementare. Io avevo mandato giù un goccio di birra, e a sentirmi chiamare così mi ero ricordato del compito di latino che gli avevo passato in seconda liceo, quando io promettevo una mirabile carriera e per mia madre rappresentavo la quintessenza del bravo ragazzo, il figliolo-immaginetta da mettere sul comodino prima di dormire. Bei tempi.
«Cosa?»
«Ho visto i leoni, allo zoo di Kabul. Un posto di merda. Merda. E dentro quei leoni mezzi morti di fame. E quei dannati animalisti intorno a fare casino. Nel bel mezzo della guerra, gli animalisti con i fotografi e i giornalisti. E i leoni mezzi morti».
Da quando aveva cominciato a parlare aveva già lasciato almeno tre frasi a metà, ed io ero rimasto interdetto sul da farsi. C’era un balbettio infantile nelle sue parole, nel suo modo di muoversi. Un che di rompete le righe e si salvi chi può. Se l’avessi messo in un campo di calcio si sarebbe ripreso? O avrebbe vagato sulla linea della trequarti chiedendosi cosa fare? Pensai una cosa che non avrei creduto: povero Walter, pensai. Ecco cosa feci.
«Ero sulla camionetta che ci portava da una parte all’altra dell’Afghanistan, e pensavo a quei leoni. Al caos che c’era intorno. Al fatto che loro non se ne accorgevano davvero, perché erano stremati e spaventati, con la bava che gli veniva giù dalla bocca. Uno schifo. I leoni. Avevano occhi affamati. Di liberazione, qualunque cosa fosse. Avrei dovuto abbracciarli. O farmi sbranare, se ne avevano le forze. O sparargli un colpo. O portarli giù, al vecchio zoo safari».
Di nuovo si era fermato. Provai ad immaginarmi la scena. Il gigante Walter su una camionetta del corpo degli alpini che scende in mezzo al deserto e alle montagne vicino a Kabul, con il vento che gli morde via la pelle dalla faccia. Walter lo spietato va a prendersi i leoni – per pietà, per pura pietà – e li trascina via e li carica su un cargo, vigilandoli fino a che non sono in salvo, giù, allo zoo safari. Pazzesco.
«Vogliono chiuderlo» dissi.
«Cosa?»
«Il vecchio zoo safari».
Era vero. Una campagna animalista ferocissima e una serie di incidenti, in pochi mesi, avevano sputtanato una delle più solide istituzioni di Verbate. Tutti noi c’eravamo stati almeno un paio di volte, nella nostra vita, con i nostri genitori. Ah, le allegre scampagnate nella foresta, come Orzowei alle prese con i Masai. E le visite guidate con la scuola, quando capitava di trovarsi a giocare con scolaresche provenienti da posti mai sentiti. Mi era capitato di incontrare il vecchio Attilio. Il vecchio aveva messo su la baracca alla metà degli anni Settanta, dopo un illuminante viaggio in Africa. Era invecchiato con le sue bestie. «Sabotaggi, Sam, non incidenti» mi aveva confidato appoggiandosi al mio braccio. Mio padre era un suo vecchio amico, e con me aveva il modo di fare di uno zio d’America, con i suoi stivaloni e il cappellaccio di pelle.
«Ci sono stati degli incidenti. Fuoco giù ai vecchi padiglioni. E foto di animali in condizioni pessime. Lo chiuderanno presto» dissi a Walter.
«E il vecchio ‘Tilio?» mi chiese. Era a casa da una settimana ed era la prima volta che lo vedevo interessarsi a qualcosa. Come se all’improvviso il velo di latte che gli si era calato addosso si squarciasse, e tornasse a brillargli lo sguardo fiero da gioventù hitleriana. Anche Walter conosceva bene il vecchio, perché un’estate – non una qualsiasi: era l’estate della maturità – ci aveva preso a lavorare per un mese allo zoo. Sveglia prestissimo per la distribuzione di cibo agli animali, per la pulizia delle gabbie, per il deposito di rifiuti. Ci aveva pagato bene, a sufficienza per la prima vacanza da soli: sacco a pelo, ostelli, ragazze abbordate sulla spiaggia e via dicendo.
«Il vecchio ‘Tilio dice che sono sabotaggi, non incidenti».
«Bastardi». Aveva già fatto i suoi conti. Aveva già deciso da parte stare. Lo guardai mentre beveva la sua birra. La mano che restava appoggiata al tavolo tremava. Me ne accorgevo solo in quel momento.
«Andiamo dal vecchio?» mi chiese.
«Adesso?». Ero stanco morto. Domani ho il turno sei-due, avrei voluto dirgli. Non siamo tutti a casa in licenza, avrei dovuto aggiungere. Noi abbiamo da fare, siamo gente che lavora, accidenti, altro che fantasmagorie afgane e malinconie da disadattato. Ma non dissi niente, o dissi di sì: quella mano che tremava sul tavolo mi faceva più paura di quando lo vedevo avventarsi senza pietà sugli attaccanti.

Dopo la visita allo zoo safari non si fece più vedere, né sentire, per almeno un mese. Io non lo cercai, è vero. Non sono il tipo che va a stanare le volpi. Mai stato. Pensai che forse cercava di mettere ordine in quella sua testa piena di luci, e chiarori e magie. La sua testa piena di liberazione, come aveva detto lui quella volta, calcando la pronuncia e facendo un gesto nell’aria con la mano, come se fosse Lawrence D’Arabia. D’altra parte non eravamo più ragazzini: eravamo uomini, ognuno con una vita da far quadrare, tutto sommato. E anch’io, in quei giorni di maggio in cui la natura diventa troppo verde e blu per sopportare il fatto di stare qui e vivere, anch’io avevo le mie preoccupazioni, i miei progetti velleitari, i miei libri da leggere, i miei racconti da buttar giù nel silenzio della camera. Allora sentivo mio padre strascicare i piedi, al piano di sotto, come un’anima in pena alle prese con tutti i ricordi ingombranti di una vita – speranze, rimpianti, rimorsi, e mia madre. Io, di sopra, mi sforzavo di scrivere cose che sarebbero piaciute a La Capria – è questo che pensavo, povero illuso. La Capria, nientemeno: l’unico grande scrittore italiano del Novecento. Un uomo che insegue i suoi flebili sogni, ecco cos’ero. Eppure: chi poteva darmi torto? Chi poteva additarmi come un ingrato, se non chiamavo Walter e non gli chiedevo di uscire dal suo guscio di riservatezza, o oblio, o paura, e venire giù, al Vela, a farsi una birra? Magari incontriamo il figlio del sindaco D., e dai, Walter, ci mettiamo a raccontare tutta la stagione allievi del 1988-89, quando eravamo imbattibili e il figlio del sindaco D. faceva il centravanti, e tu lo pestavi forte negli allenamenti, per farlo diventare più duro, che ne dici Walter? – credete che a questo, a questa retorica il mio amico avrebbe dato corda? Magari arriva anche il Malerba, e ci offre da bere, con quella sua faccia da filosofo perdente, ma ci offre da bere e si mette cavalcioni sulla balaustra del lungolago, e ti chiede di raccontargli com’è il deserto, allora Walter ci stai? – pensate che lui avrebbe accettato, allora? Io non lo cercai, è vero. Per quanto ne sapevo, Walter poteva anche essere ripartito – mai capito io la questione della licenza, e del congedo, e vattelapesca. Poteva essere andata così, se mi mettevo a rigirare la frittata. Un vecchio amico torna confuso e disorientato dalla guerra. Dice cose insensate o quasi. Non è più lo stesso gladiatore di dieci anni prima. Non è più il valoroso soldato che ci avevano detto. Ma poi recupera le forze, come i personaggi di quei romanzi sui sanatori. Lava via tutte le scempiaggini nel sole di casa sua. E torna sul fronte, dove è nato per stare. Senza salutare – e questo è davvero Walter Primi. Non poteva essere così? E poi, non era stato lui, qualche anno prima, a chiudere i ponti con me, a dedicarsi anima e corpo alla sua carriera militare così gonfia di promesse? Ero stato forse io a convincerlo ad entrare nell’esercito? Perciò non mi sentivo in debito, né in dovere di tirarlo fuori dal buco in cui si era cacciato – anche se in fondo avevo capito, sapevo che era davvero un buco. Un fondo di caffè che non si poteva interpretare. Altro che luce, altro che chiarori e rivelazioni. Povero Walter.

Aveva ragione lui, invece. Quel blaterare di liberazione, che arriverà, oh se arriverà. In quei furenti giorni di maggio tutto quel chiarore sarebbe diventato rivelazione di qualcosa, almeno per lui, o per quello che restava del mio vecchio amico roccioso.
Era notte. Dolce, e chiara, e tutto il resto.
«È scappata le tigre» lo sentii dire, con la voce da Caronte che aveva una volta. Mi aveva telefonato lui.
Guardai la sveglia digitale sul comò.
«Walter, sono le due, cosa..?»
«La tigre, giù allo zoo, è scappata. Le puttanelle hanno aperto le gabbie. Mi ha chiamato il vecchio ‘Tilio, mentre ero in giro per il bosco». Dopotutto, aveva finalmente la voce di uno vivo, accidenti – fatti, tempi, personaggi: non quel suo blabla campato in aria.
«Dov’eri? Dove sei?» chiesi io.
«Su, al bosco. Il vecchio mi ha chiamato. Mi ha detto che la tigre non c’è più. Gabbia aperta. E tracce verso il bosco. Ti chiamo da qui. La tigre, la tigre!» e sentivo che avrebbe voluto gridare, ma tratteneva la voce. Vecchio vademecum militare, pensai. Muoversi nella foresta senza che il nemico possa sentirti.
«E cosa ci fai nel bosco? Vieni via, sono le due»: stentavo io stesso a credere a quello che stavo dicendo. Ma era tutto vero. Vera la telefonata, inaspettatamente vera la sua voce, vera la sua presenza nel bosco alto di Verbate, ad est dello zoo safari.
Dunque era così. Forse passava il giorno a dormire e di notte girovagava per i boschi. Era un’anima in pena baciata dalla luna che filtra fra i rami. Cos’era diventato? Uno sciamano, un fauno, un satiro malinconico e invecchiato? O forse il tragicomico rabdomante di se stesso, un poveraccio sconclusionato alla ricerca del suo spirito?
«E cosa vuoi?» chiesi. Cominciavo a vederci più chiaro, e la cosa mi sembrava sempre più pazzesca.
«Raggiungimi. Vieni all’incrocio del sentiero con la pista da cross, sopra la torbiera. Partiamo da lì».
Conoscevo bene il posto. Per tutti gli anni Ottanta era stato uno dei crocevia di tossici di eroina a Verbate. Uno snodo dal quale ci mettevano in guardia le nostre madri, quando partivamo, con le nostre vecchie bici saltafoss. Era l’angolo di confluenza di tre sentieri, nel punto di accesso al rettilineo di partenza della vecchia pista da motocross abbandonata. A un tiro di schioppo dallo zoo. Avevano chiuso la pista – dopo due campionati italiani e un mondiale di sidecar – quando erano partiti i lavori per la costruzione del safari, a fine anni Settanta.
«Ma sono le due di notte» gli ripetei. Dovevo sembrare un disco rotto.
«Vieni. Porta la torcia» e chiuse la chiamata.
Restai a guardare i led rossi della sveglia che bucavano il buio della mia stanza. Da bambino passavo un sacco di tempo rannicchiato sotto le coperte, con la torcia accesa in mano. Il nascondiglio segreto, dicevo a mia madre quando entrava e mi chiedeva cosa stessi combinando, con quell’aria da profugo o terremotato – coperta aggrovigliata, capelli arruffati e briciole di biscotti sparsi sul pavimento. Bei tempi. Mi alzai dal letto, infilai la tuta da lavoro, le mie scarpacce antinfortunio, e scesi giù.

Ci vollero dieci minuti di macchina.
Walter mi aspettava, seduto su un ceppo di castagno. Sembrava davvero uno sgusciato fuori dal sogno di una notte di mezz’estate. Quando mi vide arrivare fece un cenno con le braccia, alzandosi, perché spegnessi il motore e i fari della mia Ford. Accostai e scesi. Dal bosco arrivava fortissimo l’odore di pollini e muschi. Come quando mi portavano, le sere di maggio, a recitare il rosario nelle piccole cappelle votive diroccate, che inaspettatamente tempestavano i sentieri del bosco dai giorni della Controriforma. Allora era davvero tutto incredibile – mia madre come una ninfa che vola nei boschi, mio padre come la quintessenza dell’energia, e io al centro dell’universo. Era successo secoli prima.
«Ciao» dissi dirigendomi verso di lui.
«Stai chino. L’aria diffonde il tuo odore» fu la sua risposta. E chi dovrebbe sentirlo, il mio odore? – volevo dirgli.
«Ora. Seguiamo il sentiero fino alla prima morena, poi facciamo la vecchia pista» mi intimò. Aveva la faccia sporca di terra, come i marines che vedevo nelle fiction dopo il lavoro. Faceva sul serio.
«Hai la torcia? Da’ qui, vado avanti io» aggiunse. Si alzò e cominciò a camminare: da dietro sembrava il gigante di una fiaba, o un cavaliere errante sui sentieri della sua intuizione folle, o il vecchio stopper che imprecava gelido al limite dell’area, portandoci, su tutti! verso la linea del fuorigioco. La luce della torcia toccava le morene di fili d’erba e arbusti, sfiorate dalla brezza che disperdeva i pollini. Camminando potevo sentire le punte delle felci che mi toccavano le gambe, come il solletico di mille invisibili dita.
E ci inoltrammo nel bosco.

C’era un silenzio naturale. Camminavamo senza nemmeno sentire i nostri passi, senza avvertire le nostre traslazioni a pelo d’erba, come se fluttuassimo sulle punte della vegetazione. Ci guardavamo intorno. Dall’altro lato della montagnola, dove c’era il serpente di terra e sassi della vecchia pista, sulle morene di robinie, altre luci bucavano il buio. Un fascio, attraverso le trame degli alberi, sparato in alto, verso il cielo, la luna e Dio – se c’è. Altri ricercatori. Ci arrivava il loro bisbiglio bambinesco. Noi eravamo in silenzio, invece. E al buio. Noi eravamo a caccia. Acquattati fra le felci, ci saliva il sentore della terra nera, e di tutto quello che era lì in macerazione, da secoli, sotto le nostre pance. Walter mi faceva dei cenni, con indice e medio allineati e vicini, come fossimo due controfigure in un film di guerra.
Oltre alla sua faccia di terra, quel suo parlare con le dita era l’unica parvenza del soldato che era stato, e che inspiegabilmente non era più. Come se la scia luminosa sulla quale aveva cavalcato in quegli anni, su su verso il successo che tutti gli pronosticavano, come se quella scia fosse stata tutto un abbaglio, un clamoroso bluff al quale lui stesso aveva creduto, da quando era venuto da me, freddo e luminoso, a dirmi che aveva «messo la firma», nel ’94 o giù di lì. Che gli fosse capitato qualcosa di tremendo mentre era di stanza nei dintorni di Kabul, non l’avevo nemmeno pensato. Non era tipo da facili sentimentalismi. Non uno che si faccia abbindolare da suffragette pacifiste o da vecchi medici di organizzazioni non governative. E nemmeno uno interessato a scoprire i drammi di un popolo, di una terra. Non era mai stato un cuore tenero da redimere. Ma quel gesto, quelle due dita unite ad indicarmi i movimenti da fare – perché la tigre non ci vedesse, non ci sentisse, non sapesse niente di noi – era l’unica traccia di ciò che era stato: il resto era soltanto un fantoccio molle preda di fantasmi e fantasie.
Ed io? Perché l’avevo seguito? Perché mi ero fatto trascinare – letteralmente – in quell’assurda e pericolosissima scampagnata notturne per i boschi? Cosa pensavo di fare, smettere di fare il mezzo fallito e buttarmi in ritardo di quindici anni nel gorgo della vita, come Hemingway, che da ragazzo aveva rappresentato per me la quintessenza stessa dello scrittore che avrei voluto diventare e non sarei mai stato? O volevo fare il profeta disarmato che ammansisce le belve – oh miracolo! – io, minuscolo San Francesco, piccolo Orfeo del millennio? O mettermi a giocare a Sandokan e finalmente, con trent’anni di ritardo, stavolta, diventare l’eroe dei romanzi di Salgari che avevo amato? No. Balle. Era per Walter. E per il brillio sinistro che ghignava nei suoi occhi – quello era. E anche per il formicolio che aveva ripreso a scuotermi come prima di scendere in campo per la finale. Stava succedendo, ecco tutto – e quando succede il resto sono particolari. Illuminazione. O Liberazione. O qualsiasi altra cosa uno voglia dire. Sentivo distintamente i nostri respiri. Percepivo gli odori del mondo. Avevo cominciato a vedere l’impercettibile spostamento della luna, in cielo. E delle costellazioni, dove le frasche diradavano e piccole parentesi di cielo si aprivano sopra di noi. Di là, sulla montagnola opposta, ancora luci alla rinfusa, disordinate, scendevano. Gli uomini delle ricerche stavano pattugliando il bosco. Cercavano la Tigre. Noi no: noi eravamo a caccia, disarmati. La faccenda era diversa, completamente. Walter mi fece il segnale – avanzavamo sugli avambracci, respirando il profumo di milioni di esseri esalanti sotto di noi. Lui sembrava un lunghissimo serpente uscito da una storia diabolica: ma non importava. Importava essere lì. Walter, io, e la Tigre. Noi sulle sue tracce, e lei sulle nostre.

Vidi la Tigre quando ormai la Tigre aveva visto noi.
Dall’altra parte, sul pendio, non c’erano più luci. Gli uomini alla ricerca erano scomparsi in fondo al valloncello, ai piedi del bosco dove eravamo noi. Non ci arrivava nemmeno l’eco delle loro parole di richiamo. Erano come lucciole spente sotto una cappa.
Walter era immobile, gli occhi fermi, puntati in avanti, e il suo ghigno. Chi non lo aveva conosciuto nei suoi giorni di grandezza, avrebbe pensato che fosse cinico, e scettico. O che fosse un povero fallito, se lo avesse visto in quei giorni: un ragazzaccio fatto a pezzi dalle sue debolezze e da fantasmi che avevano piantato il loro vessillo nel suo cervello fragile. Io lo guardavo davvero, e sapevo cosa stavo guardando: vita immobile, un grumo di nervi pronto ad esplodere. Mi fece un cenno rapidissimo, con le due dita unite. Io ero troppo impaurito per decodificare subito quello che voleva dirmi. Non sarei sopravvissuto più di un’ora, senza Walter. Mi fece ancora il segnale. Aveva la faccia di uno che ha già fatto i suoi conti. Di uno che sa già come andrà a finire, perché finirà esattamente come lui vuole che finisca.
Guardai avanti. La Tigre era sdraiata su un fianco. Sembrava di terracotta smaltata, una di quelle cose kitsch che ci sono sopra i camini. Il suo pelo si accartocciava flaccido sui rametti e sulle foglie sparsi attorno. Bellissima. Guardava verso di noi, e cadenzava il respiro. Anche lei sapeva cosa sarebbe successo, e sembrava aspettare. Solo io non avevo chiaro un bel niente, o avevo frainteso tutto, come sempre. Avevo solo paura, una dannata paura.
Walter mi guardò, allora. Ghignò, il corpo puntellato sui gomiti, la testa ripiegata, le gambe lunghissime, come una coda. Altro che fantasie lattiginose, e pause lunghissime nei discorsi, e tutta quella pappa molle che mi aveva gettato addosso, come stesse delirando, nelle serate al bar Vela. Signore e signori, ecco a voi Walter Primi, lo spietato.
Chissà come dovevo sembrargli. Chissà cosa pensava del suo vecchio compagno di difesa, del mio sorriso di circostanza, ora che capivo di essermi cacciato davvero nei guai. Durò un attimo: incrociammo i nostri occhi, e insieme tutta la parentesi terrena che fino ad allora avevamo misteriosamente condiviso. Poi feci quello che dovevo fare.
Mi alzai, senza guardare niente – il bosco, il sentiero, la Tigre, Walter. Niente. Mi alzai e cominciai a correre, io un’ombra duplicata dalla mia stessa ombra notturna, sotto la luce della luna.
Anche Walter si alzò.
Anche la Tigre, allargando le fauci ed emettendo un suono rauco e primitivo.
Io correvo, inciampando ovunque.
La Tigre balzò verso di noi, verso di me.
Mi voltai, scivolando ed annaspando.
In piedi, fermo, c’era Walter. Si tirò su le maniche. Non so perché lo fece. Fu un gesto stupido. Un gesto grandioso.
La tigre emerse biancoarancione dalla lunga serie delle felci. La vidi caracollare, prima, e poi prendere una lunga rincorsa. Walter rimase fermo. Si piegò sulle ginocchia. Prese posizione. Non lo vidi in faccia. Non si voltò. La tigre emise il suo grido di guerra. La vidi ancora balzare in avanti, come pescando le forze dall’accumulo della sua prigione dorata, giù allo zoo. Balzò ancora, e ancora. Poi, fu in campo aperto, fuori dalle felci. Una magia, vederla dove anni prima avevamo lasciato le nostre biciclette e ci eravamo inoltrati nel bosco. Dove ero passato con mio padre e mia madre, vent’anni prima. La Tigre. Era immensa. Era bellissima.
Di fronte a lei, verticale e freddo, Walter. Come la statua di Stefano davanti ai lapidatori, quella che avevamo davanti quando servivamo messa.
Anche lui era balzato fuori – fuori dalle felci, fuori dalla terra, fuori da tutto quello che lo aveva imprigionato. Balzò fuori, all’aperto, sotto la luna e le stelle, sotto Dio.
Lo vidi correre, luminoso, verso dove sapeva di dover andare. Correva verso la Tigre. Poi più nulla, come una liberazione.

Riccardo Ielmini è nato a Varese nel ’73. Ha vinto il Premio Chiara Inediti 2011 con la raccolta di racconti Belle speranze (Macchione 2011).

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4 Commenti

  1. letto d’un fiato…
    che tu sossi bravo, ricky, si sapeva.
    ma questo toglie il respiro. e commuove.

  2. Non gridano vendetta questi corsi.Disperano a fuoco lento ma facilmente dimenticano un volto gracile,sfinito da una fuga oramai giunta al termine. Circoli sconosciuti nascondono altri pianti composti gridati in idiomi venuti da soli disfatti,pieni di mosche titaniche. Piccola e bastarda città,non sarà facile riabituarmi a te.Tutto mi sembra il nulla già vissuto.Vetrine di limoges incancrenite da tarli con la lingua blu,che sostituiscono latterie fuori soglia ,e una gioventù scappata via di casa sono insormontabili vestigia di un avvenire con le gambe corte.Eccolo il mio amico Lucio venirmi incontro,quanto tempo.Le pacche sulle spalle non fanno per noi.Meglio minuziose complicità silenti innaffiate con orzi trattati,e un Endrigo remixato a fare da tappezzeria.Pietosi veli vengono stesi su ingenuità manifeste venute a galla.Anche lui è tornato questo mese,ancora scosso.Si è perso la moglie.La mia sorpresa scioglie la sua lingua avara. Era sposato da due mesi con una bielorussa salvata,in un’alba da tregenda,da una piazza che mostrava il suo lato perverso.Un vino maramaldo l’aveva consegnata ad una fossa di orchi da bar.Turpitudini incarnate,così animalesche da dare la sensazione che stessero invocando a gran voce una rapida ed eterna fine del mondo e del proprio schifo. L’aveva raccolta,e si erano lavati via due passati angusti surrogandoli con un presente che sapeva di ebbrezza di futuro.Ma era durato poco.Forse distrattamente avevo letto qualche cronaca sulla scomparsa di una straniera. I particolari me li racconta lui,come un fiume uscito dagli argini.Gli chiedo se è tra gli indagati. Si,compare nel fascicolo. Fintantochè non si trova un corpo non esiste un reato,solo semplici presunzioni. La cerca dovunque e il lampo antico che ritrovo nei suoi occhi mi dice che non ha intenzione di fermarsi adesso. Saliamo sulla mia macchina.Percorriamo strade che escono fuori da ricordi di giorni sfuggiti di mano,pieni di vuoti a perdere.Strano che i nostri fegati gli siano sopravissuti.Nella zona sportiva un faro è stato dimenticato acceso. Lucio vuole scendere. E non c’è nemmeno bisogno di scavalcare.Lo vedo entrare in area scartando la sua ombra puntando dritto verso il sette,per poi correre sotto la curva ad esultare.

    http://www.sidewater.com/backup/mydocs/My%20Music/David%20Bowie/Ziggy%20Stardust/Rock%20'N'%20Roll%20Suicide.mp3

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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