Vita e morte di un ingegnere

Edoardo Albinati, Vita e morte di un ingegnere, Mondadori 2012, pagine 150

di DaniMat

Nell’unica presentazione tollerata dal suo autore, Elisabetta Rasy ha definito Vita e morte di un ingegnere un libro perfetto. Proprio ciò che intendo scriverne io qui, con ulteriori motivazioni ma confluendo allo stesso risultato.
Intanto le notizie: questo libro fu scritto vent’anni fa da Albinati a caldo, subito dopo la morte del padre, l’ingegner Carlo, e fu un modo per congelarne la memoria (i ricordi svaporano, scrive Albinati in una delle pagine terse del libro, e dico io, scriverne vuol dire oggettivarli, metterli sotto teca, dopotutto liberarsene, come scriveva Yourcenar, e poi dopotutto superarli, ricominciare a vivere oltre il limite/soglia che essi ci marcano lungo il cammino).
Scrisse questo libro, Albinati, per venire a capo della morte come fatto inevitabile dunque come nodo di vita, e per interrogare le dinamiche consuete della vita, che ci resta sempre misteriosa e poi in alcuni istanti preziosi quanto terribili ci mostra il fianco e si lascia per un bagliore almeno intuire.
Ma in fondo il vero scopo era un altro, ed era personale.
La vera necessità, l’urgenza, stava nel voler interrogare il mistero vivente che era stato sempre per Edoardo l’ingegner Carlo, a suo stesso dire (di Albinati, dico) l’affetto più prossimo e più distante della sua vita.
Cosa è dopotutto la morte del padre? È uno scatto di carriera umana.
Per riassunto e sostituzione. Quando muoiono i genitori i figli (magari già genitori a propria volta) guadagnano la prima linea, e smettono di trovar riparo, di raccontarsi alibi, devono rispondere – diventano definitivamente responsabili: se la vita li convoca e li interroga, è probabile che sapranno rispondere. Saranno i cosiddetti volontari involontari.
È un capovolgimento, una rivoluzione. Senonché Albinati, che si dichiara figlio a oltranza, patisce una inadeguatezza al ruolo, che per inevitabile che è, per ragioni storiche, forse, indica nelle generazioni di genitori nati sul finire dei Cinquanta (come Albinati) o intorno ai Sessanta e via via fin qui padri e madri che si confondono coi figli, che mancano d’autorevolezza forse ma di sicuro di autorità: è un segno dei tempi.
Con la morte dell’ingegner Albinati muore una classe di genitori, di padri soprattutto: uomini tutt’uni con la propria professione, inimmaginabili in pantofole, abbinati automaticamente con la scrivania, gli occhiali, gli strumenti professionali. Uomini poco avvezzi a una vera confidenza coi figli, così poco capaci di tenerezza o di comprensione al di fuori degli schemi narrativi codificati da rifugiarsi in una ironia spesso tagliente, involontariamente sprezzante, in sorrisi che sono paratie, pareti d’acciaio, in battute che sono spade, daghe affilate e pesanti che straziano solo i corpi dei figli, spesso di uno in particolare, il maggiore (lo scrittore Albinati nel caso), nel quale è riposto il termine di un rapporto tenuto in piedi su pali così zoppi.
Nel libro c’è stupore e rabbia.
Se penso a Affabulazione di Pasolini, a mio parere antecedente ideale di questo libro peraltro così diverso anche nel genere, rivivo lo smacco di questo dialogo impari in cui il figlio vince sul padre perché dopo tanto mancato rapporto è lui a rivendicare (accaparrandosene tutto il vantaggio) la pretesa di recuperare il discorso, e l’esigenza di puntualizzare, di fare i conti, di ribadire la giustezza della propria protesta, della propria volontà di lite, perché è lui, il figlio, ad aver patito, ad esser stato incompreso, è lui, non il padre, ad aver ricevuto poco o niente, salvo le istituzioni, cui si è puntualmente opposto allargando il solco e approfondendo il fossato – che però (accade qui per Albinati) ha anche stagliato contro il cielo il padre come splendido castello inespugnabile: una bellezza totale, prossima e inavvicinabile. Inebriante per gli occhi, bramato dal cuore e dalle braccia affamati e lasciati sempre a bocca spalancata, a stomaco vuoto: senza.
Cosa reclama il figlio? La concretezza della carnalità. L’ingresso vero nella vera Storia. L’accesso alla vita vera. Senza distanza, senza scarto.
Il padre che sorride e a volte bonariamente lo deride in pubblico irridendo il figlio è insuperabilmente tenero, specie per il bersagliamento che qui subisce senza possibilità di difesa. Il figlio è arrabbiato e non vede che lui, suo padre, lo ha guardato incessantemente, lo ha magistralmente guidato senza interferenze pesanti, come a volte i padri fanno quando sono padri violenti e invadenti. È stato maestro pur senza premere sul pedale della vantaggiosa superiorità, e gli ha offerto tutto quel che poteva offrirgli: un modello. Il figlio sente un bruciante senso di estraneità alla vita quando a quel modello ricorre come espediente imitativo: la domanda pregressa è forse, qui l’ingegnere come avrebbe risolto?
Il punto è qui. E qui è la vera, grande domanda, sulle nostre vite, se siano autentiche, e se sempre o mai o a metà tutte le vite lo siano, o se siano poi tutte spesso grandi, magistrali recite. Riproduzioni acritiche di modelli.
È qui tutto lo stupore vero, e il ricorso al modello letterario per oggettivare una simile scottante questione. Provare a spingerla, con tutta la sua grave zavorra di vita vera, dentro un cerchio in cui risplenda la sua riserva di sincerità cui attingere è il vero problema.
Questo libro che pure risale a vent’anni fa nella scrittura mentre esce solo ora (pare per riguardo alla madre) ha un parallelo in Profezia, racconto in seconda persona del fraterno collega di Albinati, Sandro Veronesi, il quale viceversa, poiché vive nella letteratura, ha subito distanziato da sé la morte del padre in quella risorsa spettacolare che è l’invenzione, una forma di mediazione che mentre assicura il distacco permette l’esattezza chirurgica e rende il servizio prezioso della memorabilità.
Ma Vita e morte di un ingegnere è letteratura di natura affatto diversa.
La letteratura davvero è respiro vitale, ed è respiro costante per Albinati.
Forse Albinati è l’unico scrittore italiano che nel tempo non si è lasciato attaccare dalla vita esterna della letteratura intesa come impresa editoriale. La scrittura di Albinati è (mutuo una sua definizione mutuata a propria volta) un lungo fiume tranquillo. Con metodo e sguardo anglosassone, con approccio scientifico, da studioso (ecco un punto d’orgoglio e dolente insieme, per lo scrittore: aver costruito una sua vita di studi distanti e aver quindi separato la propria strada professionale, ma insomma l’esistenza, da quella del padre), Albinati affronta con medesima pacatezza e intensità temi diversi che, come per tutti noi, ha scelto di seguire o con incursioni più o meno acrobatiche lo hanno investito: insegna a Rebibbia e scrive Maggio selvaggio; dal termine della Flaminia scende coi mezzi a via Flaminia Vecchia e giù fino alla Prenestina dove la famiglia ha un immobile, e allora scrive 19, epopea umana del tram che taglia tutta Roma; va in Afghanistan per le Nazioni Unite e scrive il diario del Ritorno. Ricordo bene quando nel ’93 nella redazione della rivista Omero un pomeriggio il fax sputò tre sue paginette che personalmente declamai gridando al miracolo in tutto Monteverde: erano i primi Orti di guerra, raccolta di prose poi uscita da Fazi nel ’97; come ricordo che anni fa per email Albinati mi inviò alcune pagine sull’anestesia da Svenimenti: che privilegi! E poi ripenso a certi suoi libri di poesia: Mare o monti (con Paolo Del Colle), Capodanno del Vam, Sintassi Italiana, La comunione dei beni, come i suoi romanzi, Il polacco lavatore di vetri per esempio, o Tutt’al più muoio in cui si è fatto interprete delle volontà narrative di Filippo Timi e confermato in ciò che già la lettura dell’amato Tolstoj gli aveva insegnato: che nel rapporto servo/padrone è il servo a condurre.
La scrittura di Albinati è tersa, è inattaccabile, ed è germinativa. Io credo che lui stesso goda delle sorprese controllate e puntuali che questo felice strumento gli riserva ogni volta. In questo, gentile Elisabetta Rasy, è perfetto il libro, ed è perfetto lo scrittore: nel dispositivo letterario, nel congegno scrittorio che governa ogni argomento, lo forgia e forgiandolo rivela tutte le risorse che esso promette e minaccia, cioè davvero dà la stura a tutto ciò che esso ha inesorabilmente in serbo: un congegno così efficace pur nella sua natura generativo/trasformazionale (per dirla con Noam Chomsky) che resiste da decenni all’attacco di qualunque tentazione di adattamento a una letteratura sempre invocata vendibile, semplificata e compromessa. Anche qui, nel crogiuolo del cuore, con questa scrittura Albinati ha domato la rabbia dell’amore mancato e credo abbia scoperto, forse meglio adesso, rileggendolo solo per sistemarlo esternamente, quanto questo libro gli abbia finalmente garantito la proprietà affettiva totale della propria dimensione familiare: un tema spinoso finalmente risolto, dunque rubricabile.
Chiudo con l’immagine che sigla il libro, il finale (mentre la fine è già scorsa davanti a noi) che a qualche autore ‘laico’ sembrerà scivolamento poetico, tonfo nella metafora, ma è letteratura della specie alta, è poesia senza sperpero di lirismo: è folgorazione che ripesca Ovidio e Apuleio – il cielo (eh, il cielo) è attraversato da un raro fenomeno, un doppio arcobaleno. Noi ingenui lettori ci vediamo Carlo Albinati trasformato in fenomeno celeste, e l’allusione al doppio nastro del DNA cioè al codice genetico come legame imperituro che tiene legati un padre e un figlio.

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2 Commenti

  1. […] La perfezione del libro. Dicono di Vita e morte di un ingegnere (Mondadori), di Edoardo Albinati. Scritto vent’anni fa, pubblicato da poco, racconta la perdita del padre da parte dello stesso autore. Stupore e rabbia ma anche concretezza: la morte di un genitore mette in crisi il ruolo di figlio. Eppure, si resta figli a oltranza. La perfezione sta nella completezza e nella profondità degli aspetti affrontati, nell’assenza di inutili lirismi, nella scrittura pulita e allo stesso tempo evocativa. Il finale disegna due arcobaleni. Per andare oltre la perfezione. Se è possibile. Tag: #libriperfetti Fonte: nazioneindiana.com […]

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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