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Minuti omicidi di casa mia

di Giacomo Sartori

In settembre mi trovavo all’estero. È da lì che ho letto sul sito di un quotidiano nazionale che c’era stato un infanticidio in provincia di Trento. Mi sono quindi spostato su un quotidiano locale, ma senza affrettarmi: davo per scontato, me ne sono accorto dopo, che si trattasse di una valle periferica, di uno dei tanti paesi strattonati tra sfilacciamento postindustriale e impossibile arcadia turistica. E invece il nome nei titoli era proprio quello del comune dove sono cresciuto e dove abito: Cognola. Stentavo a crederlo, ma il delitto si era svolto proprio lì. Come è ovvio mi sono precipitato a cliccare su quello che sembrava essere l’articolo più importante.

Prima ancora di cominciare la lettura sono incappato nella fotografia di una vecchia villa che conosco molto bene fin da bambino, e nella quale abitava una lontana cugina di mio padre. Non solo il fattaccio era avvenuto al mio paese, ma nella casa della B. Ogni volta che ci passavamo davanti qualcuno dei miei familiari esclamava “questa è la casa della B.!”. Poi ci ero transitato davanti infinite altre volte da solo, quando in città ci andavo in motorino, anche con quindici gradi sotto zero, e poi tornavo in piena notte: in attesa di partire davvero. Ora evidentemente – e con la lontananza mi ero perso anche questo – la B. era morta, e l’antica casa patrizia mai rintonacata, e proprio lì sta il suo fascino, era abitata da qualcun altro, la famiglia del dramma.

Secondo le prime ricostruzioni dei quotidiani, la nipote dell’anziano proprietario, che aveva una quarantina di anni, era a cena a casa del  nonno con il compagno, e alla festicciola partecipavano anche il padre, che sarebbe ripartito il giorno dopo per le Antille, dove risiedeva, e un medico amico di famiglia. Stando ai giornali a un certo punto la donna si era sentita male. Si era alzata, e era andata in bagno. Poi dopo un quarto d’ora era tornata, e si era rimessa a tavola. Il proseguo del pasto era stato però disturbato da rumori insistenti che facevano pensare ai miagolii di un gatto. Alcuni dei commensali si erano alzati per vedere cosa succedeva, e tra questi la donna. E proprio lei aveva preso tra le braccia il fagotto posato nel sottoscala da cui venivano i lamenti. Era un gatto che era stato investito da un’auto davanti alla casa, aveva detto tenendolo contro il petto. Poi aveva stretto la parte superiore dell’involto fino a fare cessare i miagolii. In realtà era il figliolo che aveva partorito nel quarto d’ora di assenza da tavola, e lo aveva soffocato. La badante polacca che aveva assistito alla scena aveva avvisato i carabinieri, seppure con tre mesi di ritardo, e questi avevano subito cominciato le indagini.

Si dà il caso che in passato abbia lavorato a un romanzo che centrato attorno a una madre infanticida. E come sempre mi succede quando abbordo un tema che conosco poco, ho letto tutto quello che ho trovato, spaziando dai lavori dei criminologi a quelli degli psichiatri/psicanalisti, passando per i casi concreti e le testimonianze, in Italia come in altri paesi. Un’immersione affannata e totale che includeva naturalmente anche il nodo della maternità in generale, e le sue difficoltà e implicazioni, le possibili degenerazioni. Un lavoro enorme che fa sì che io che non ho figli, ne sappia forse di più di chi ha figli. Me ne accorgo quando coppie di amici più giovani mi parlano del bimbo che aspettano, o che già hanno. Mi capita addirittura di tanto in tanto di prestare qualche libro sul tema, come appunto potrebbe fare una persona che ha qualcosa da insegnare. E invece il mio è il tipico sapere sterile del romanziere, disincarnato e interessato, volto alla scrittura, non alla vita. Del resto quel romanzo al quale ho lavorato tanto non l’ho poi pubblicato, e forse non lo pubblicherò mai.

Queste mie conoscenze libresche mi dicevano che moltissimi elementi del dramma avvenuto in una casa che conosco del mio paese erano piuttosto frequenti in altri episodi analoghi. Era normale per esempio che nessuno, a partire dai colleghi dell’asilo, e neppure il convivente, con il quale la donna viveva e si presume dormisse ogni sera, si fosse accorto della gravidanza. Del resto la donna era un po’ grossetta, come appunto spesso in casi del genere. E era normale che i superiori e i genitori dei bimbi la considerassero una maestra esemplare, una persona di assoluta fiducia. E anche il parto nel bagno non è raro. In qualche caso addirittura la madre stessa non è cosciente di essere gravida, e pensa che si tratti di una normale defecazione.

Può succedere in qualsiasi ambiente e in qualsiasi posto, anche questo sapevo. E questa volta era accaduto nel mio paese, in una antica casa davanti alla quale ero passato infinite volte e che quindi faceva parte del mio paesaggio interiore. Quello che era molto meno normale era che i familiari e il medico presenti, tutte adulti e vaccinati e stimati, si fossero messi di buzzo buono per occultare il cadavere. E che l’avessero fatto nella maniera più impressionante che si potesse immaginare. L’essere stati colti di sorpresa non poteva in nessun modo costituire una scusante.

La vicenda aveva tutti gli ingredienti, si sarebbe potuto pensare, per diventare un caso alla ribalta su tutti i media nazionali, con quotidiani aggiornamenti e colpi di scena, e con gli ineludibili commenti e analisi di personalità e esperti. Basta che un episodio abbia le caratteristiche adatte, si pensa, e la macchina mediatica parte all’impazzata. In realtà nessun giornale nazionale ha parlato diffusamente di questo dramma, e tantomeno ha seguito il divenire delle indagini. Il fatto, molto banalmente, è che in quei giorni la ribalta era già interamente occupata da un’altra agghiacciante vicenda successa al sud. E naturalmente ogni nuova puntata di questa seguitissima narrazione, fremente della febbre voyeuristica della presa diretta, avrebbe risentito della concorrenza di un’altra tragedia familiare altrettanto, se non maggiormente, conturbante, un po’ come quando due gialli con tema simile sono mandati in onda su due canali diversi quasi alla stessa ora: quello meno famoso, o anche solo programmato un po’ più tardi, ne risente.

Ogni giorno venivano alla luce nuovi terrificanti dettagli. I giornali nazionali continuavano però a ignorare il caso, e era ormai chiaro che avrebbero continuato a farlo. Il che confermava che il passaggio dalla provincia alla dimensione nazionale non è affatto scontato. I crimini e le tragedie sono tanti, e solo alcuni assurgono a tormentoni nazionali. La provincia, e questo vale per gli scandali della politica come per la cronaca nera, come primo riflesso tende a attutire, a smorzare, a trovare scusanti. In provincia tutti si conoscono direttamente o indirettamente, è difficile trovare un ardito disposto a lanciare a viso scoperto la prima pietra. Certo proprio per la consapevolezza della prossimità non solo fisica, la paura del contagio è più grande. È solo mettendo le distanze, approfittando dell’anestesia dell’ignoranza dei luoghi e delle persone, che la belva dell’informazione può accanirsi e dare il meglio di se stessa. Ma appunto non è detto che succeda.

La notizia che apparve un giorno sui siti della stampa locale mi parve confermare la tendenza a fare quadrato contro l’irruzione della sconvenienza. I sindaci che si erano succeduti negli ultimi quarant’anni alla guida del comune dove esercitava il medico condotto amico di famiglia si erano riuniti, e avevano espresso in una lettera ufficiale il loro incondizionato sostegno al professionista sospettato di aver abbandonato, e proprio in quella zona, il cadavere di un neonato in pasto agli animali. Il comunicato esprimeva la riconoscenza all’indagato per quello che aveva fatto in tanti anni per la popolazione, e l’augurio che continuasse presto a riprendere la sua preziosa missione. I sei firmatari utilizzavano insomma la loro autorevolezza di primi cittadini per lottare contro l’invasione del disordine, senza domandarsi se quel loro intervento potesse configurarsi, se non altro sul piano morale, come una connivenza.

I quotidiani locali insistevano molto sulla villa signorile e sul fatto che la nonna fosse una famosa pittrice, deceduta da qualche anno, della quale proprio nei giorni del delitto si inaugurava un’importante retrospettiva: enfatizzavano una supposta coloritura alto-borghese della vicenda. Io invece vedevo una tipica famiglia aperta dei nostri giorni, dove il nonno, in realtà un secondo marito della nonna, rimasto vedovo aveva la badante straniera, dove il padre dopo essersi separato viveva ai Caraibi con una donna del posto, dalla quale aveva avuto altri figli, la protagonista della vicenda lavorava in un asilo e conviveva con un uomo separato che aveva già due figli. Certo c’era qualche quarto di nobiltà culturale, la nonna pittrice, per quel che può contare al giorno d’oggi la cultura, e c’era il rispettato medico amico di famiglia, ma i protagonisti di quel fatto raccapricciante mi sembravano pur sempre quelle stesse persone che osservavo mentre facevo la spesa, che incrociavo dal giornalaio o in farmacia, che vedevo montare su automobili non certo da poveracci, domandandomi chi fossero e che vita facessero. Quelle persone certo più o meno facoltose, con tutto ciò che comporta, ma che guardavano pur sempre gli stessi programmi alla televisione, entravano nello stesso supermercato e acquistavano prodotti analoghi, evitavano i miei occhi con lo stesso disinteresse, circolavano sulle stesse strade dove nessuno andava più a piedi. Quegli individui che approfittando della mia assenza avevano preso possesso dei luoghi della mia infanzia, come un organizzato esercito di invasori che parlasse una lingua che non conoscevo. Un esercito motorizzato.

Poi però al mio rientro in Italia è successa una cosa che non mi aspettavo. O meglio, mi sono accorto che era successa, come accade quasi sempre nella vita. L’ho realizzato muovendomi tra i corridoi del supermercato. Può sembrare incongruo, ma mi sembrava di capire meglio quei visi e quei luoghi che non erano più i miei ma che per altri versi mi appartengono. Anzi, proprio l’epifania della bestialità scevra di convulsioni e anzi quasi leggiadra che si era consumata in contemporanea con i fuochi di artificio nel giorno del patrono, e che era venuta a galla solo in autunno, come per non guastare lo spensierato clima estivo, per non rompere la bolla di sapone turistica, me li rendeva di nuovo vicini, rendeva intellegibile tutto il resto. Adesso lo sapevo, chiunque rifiutasse la troppo facile indignazione dei giornali, e gli smaccati stratagemmi di distanziazione, chiunque non nascondesse la testa nella sabbia, lo sapeva: sotto l’asettica facciata di spigliata modernità covava la possibilità di uccidere. Il velo dell’innocenza era stracciato: quegli uomini e quelle donne con gli occhi vuoti erano potenziali assassini, in qualche caso forse assassini veri e propri. L’ansia per molti versi giustificata di godere di ogni giornata e di dribblare le angosce valeva ben qualche sacrificio, qualche omicidio. E io non ero certo innocente, anche se per molti aspetti mi tenevo in disparte, e vedevo corrispondenze e sintomi che a molti forse sfuggivano. Gli individui isolati si rivelano molto spesso i più pericolosi. Potevamo uccidere, qualche volta uccidevamo. Esattamente come succedeva un tempo nelle dinastie di mezzadri che avevo conosciuto io: idealizzare il passato non aveva senso. Se possibile ci coprivamo a vicenda, perché era nel nostro comune interesse, e perché la famiglia deve pur servire ancora a qualcosa anche in questi tempi di esistenze atomizzate e nevrotiche. E poi tornavamo di nuovo al supermercato e caricavamo altre borse della spesa sui nostri fuoristrada o pur sempre rutilanti veicoli, rientravamo ciascuno nel suo conforme e presentabile inferno, comunicando all’esterno via internet.

Del resto il male non era poi assoluto. A quanto risultava dalle notizie più dettagliate sulle indagini che cominciavano a circolare forse non era stata la badante la prima a parlare. La versione della spessa cortina familiare rotta dall’indigente straniera era troppo seducente, troppo perfetta, per essere vera. A quanto pare a contattare i carabinieri poteva invece essere stato proprio il nonno, le cui condizioni di salute si erano aggravate subito dopo quella serata, tanto che era stato ricoverato in ospedale per un mese, passando addirittura per un coma. Forse in lui aveva prevalso il pentimento.

E poi non dovevo fidarmi troppo della memoria. Parlando con un lontano parente mi sono reso conto che mi sbagliavo di grosso, la B. non aveva mai vissuto in quella villa. Abitava effettivamente in quella zona, ma sotto la strada, non sopra. Del resto non era affatto morta: seppure molto anziana era in discreta salute. A quanto pare da bambino avevo interpretato male le frasi dei miei familiari, e poi per decenni passando davanti a quella vecchia casa avevo riesumato la falsa informazione. In realtà per anni il palazzotto era rimasto disabitato, e già da molto tempo ci vivevano la pittrice con il secondo marito. Dopo la morte di lei lui era rimasto solo. Avevo preso un enorme granchio. Come avevo certo capito male o frainteso anche molte altre cose.

(questo testo è apparso, in forma più estesa, sul vol. 56 (2011) di Nuovi Argomenti)

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giacomo sartori
giacomo sartori
Sono agronomo, specializzato in scienza del suolo, e vivo a Parigi. Ho lavorato in vari paesi nell’ambito della cooperazione internazionale, e mi occupo da molti anni di suoli e paesaggi alpini, a cavallo tra ricerca e cartografie/inventari. Ho pubblicato alcune raccolte di racconti, tra le quali Autismi (Miraggi, 2018) e Altri animali (Exorma, 2019), la raccolta di poesie Mater amena (Arcipelago Itaca, 2019), e i romanzi Tritolo (il Saggiatore, 1999), Anatomia della battaglia (Sironi, 2005), Sacrificio (Pequod, 2008; Italic, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011), Rogo (CartaCanta, 2015), Sono Dio (NN, 2016), Baco (Exorma, 2019) e Fisica delle separazioni (Exorma, 2022). Alcuni miei romanzi e testi brevi sono tradotti in francese, inglese, tedesco e olandese. Di recente è uscito Coltivare la natura (Kellermann, 2023), una raccolta di scritti sui rapporti tra agricoltura e ambiente, con prefazione di Carlo Petrini.
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