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Freaks and kids

di Helena Janeczek

Il biondino spilungone con la smorfia strana e la bretella giù, i pantaloncini da cui sbucano stecchi di gambe sporche, è forse il più freak tra i bambini ritratti da Diane Arbus. La sua espressione, hanno scritto, parrebbe “quasi maniacale” – effetto suggerito anche dalla granata giocattolo che stringe in una mano e trasforma l’altra in un artiglio che stringe l’aria. Ma lui, povera stella, è stufo di star lì, vorrebbe lanciare la sua arma nell’erba ricreativa di Central Park. Le facce dei bambini, si sa, sono molto mobili, così come si sa che la fotografa newyorchese prediligeva i diversi. Li andava a riprendere nei camerini degli spettacoli en travesti, sulle spiagge per nudisti, negli istituti per disabili. Li scopriva anche nei luoghi di ritrovo della cosiddetta gente normale: piazze, strade, parchi.
Il bello di una retrospettiva come quella che ho visto a fine gennaio al Jeu de Paume è che, di fronte a costanti di percorso così evidenti da aver raggiunto riconoscibilità iconica, diventa più facile tentare prospettive di sguardo laterali. I parchi, per esempio. Nel nostro immaginario, Central Park è un luogo ameno associato a commedie brillanti o romantiche; quindi colpisce trovarlo ricettacolo di fanciulle mostruosamente cotonate, vecchie coppie con l’aria triste-festosa di tacchini, fenomeni da baraccone a passeggio con il vestito buono. Lo stesso vale per Washington Square Park, un tempo, come sanno i lettori di Henry James, cuore della città più rispettabile e sino a oggi ritrovo di studenti.
E’ solo l’artista attratta da ogni piccola deviazione a selezionare quei volti di ragazzi sgraziati ma inconfondibili, laddove oggi dominerebbero quelli carini ma omologati? Il suo sguardo restituisce soltanto una visione singolare o anche un’epoca, quegli anni del boom che, basta sfogliare un album di famiglia, per avere l’impressione di imbattersi in un’umanità bruttina e scomparsa?
Certo noi guardiamo le foto di Arbus con i nostri occhi affamati di ogni cosa autentica, più capaci di credervi quando l’autentico coincide con l’abnorme. “Gran parte delle persone attraversano la vita temendo di fare un’esperienza traumatica. I freak sono nati con il loro trauma. Hanno già passato il test nei confronti della vita. Sono aristocratici,” ha detto la fotografa, indicando il nodo per cui la sua estetica sofferta si è capovolta in gusto mainstream. Meglio fenomeni che anonimi.
Ma i bambini di Diane Arbus si sottraggono al freak-show. Sono grassi, magri, poveri, agghindati i modi assurdi, ridono o piangono senza ritegno, non hanno nulla di grazioso in senso convenzionale, però del tutto mostri non lo sono mai. Un’energia incontenibile ne deforma i tratti, sono espressivi perché sono vivi, la loro singolarità non è ancora diventata identità e maschera – non sembra tanto diversa nemmeno la bambina mongoloide che ride distesa in mezzo a un prato. La certezza del marchio è un desiderio dell’infelicità adulta, dicono, loro malgrado, quei ritratti infantili. Perché è più avanti che la tua faccia non te la levi più di dosso, o la perdi.

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6 Commenti

  1. Quando leggo certi articoli scopro interi universi sconosciuti, che non ci sarà mai il tempo di esplorare.

    • dio, quanto hai ragione. e non ha nulla a che spartire con quella
      tendenza a lamentarsi del poco tempo tipica dei pigri: anche se non si è
      pigri, il tempo non basta mai, le cose belle sono troppe.

  2. Bello davvero, Helena. E questa frase a conclusione, “La certezza del marchio è un desiderio dell’infelicità adulta” apre altre porte, “interi universi sconosciuti”, come dice Daniele.

  3. “Non sembra tanto diversa nemmeno la bambina – mongoloide – che ride distesa in mezzo a un prato”.

    Mi stavo strozzando con a la Colomba quando ho letto questo passo. E non c’entra una mazza il politically correct.

    • Spero sia passato il pericolo-colomba. Purtroppo non ho trovato la foto a cui si riferisce la frase che ti è andata di traverso, dove l’espressività del momento – momento di felicità primaria – prevale nel volto sui tratti riconosibili della disabilità. E’ quella bambina, il suo corpo a contatto con l’erba, ciò che vediamo. Il che non vuole dire che non sia diversa, ma che in quell’immagine è mostrata come qualcuno che non ha norma al di fuori di ciò che vive qui e ora.

  4. l’infanzia si svolge in una giornata. Blu è più blu. Gioia e tristezza sono un regno immenso. Non c’è confine nell’emozione: nel dolore assillante, fisso/ nella gioia accesa. Non c’è solitudine nell’infanzia: il mondo gira. Siamo dentro. Le lacrime sono il prato, il sorriso nel fiume. Belle le foto. Ogni volto risponde. Ogni volto dice la follia del nostro mondo adulto.

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Helena Janeczek è nata na Monaco di Baviera in una famiglia ebreo-polacca, vive in Italia da trentacinque anni. Dopo aver esordito con un libro di poesie edito da Suhrkamp, ha scelto l’italiano come lingua letteraria per opere di narrativa che spesso indagano il rapporto con la memoria storica del secolo passato. È autrice di Lezioni di tenebra (Mondadori, 1997, Guanda, 2011), Cibo (Mondadori, 2002), Le rondini di Montecassino (Guanda, 2010), che hanno vinto numerosi premi come il Premio Bagutta Opera Prima e il Premio Napoli. Co-organizza il festival letterario “SI-Scrittrici Insieme” a Somma Lombardo (VA). Il suo ultimo romanzo, La ragazza con la Leica (2017, Guanda) è stato finalista al Premio Campiello e ha vinto il Premio Bagutta e il Premio Strega 2018. Sin dalla nascita del blog, fa parte di Nazione Indiana.
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