Gli ultimi desideri di Boyle: alchimia e luce.

di Antonio Sparzani

Continuando quanto vi raccontavo a proposito della lista dei desideri del nostro Robert Boyle, molte altre cose potrebbero formare oggetto della nostra curiosità e del nostro stupore, per esempio il desiderio di saper foggiare il vetro nelle forme più adatte, ormai del tutto realizzato, o quello di fabbricare armature sia estremamente leggere che estremamente dure e resistenti, un po’ passato di moda ― anche se, a ben pensarci, le tute antiproiettile… ―, o quello di fabbricare navi adatte a navigare con ogni vento possibile e del tutto inaffondabili, anche questo non veramente realizzato; molte, sì, ma io vorrei invece soffermarmi innanzitutto sul desiderio numero 13, nel quale ricorre una parola molto inusuale nel lessico inglese odierno, la parola alkaest, o meglio alkahest, di provenienza squisitamente alchemica; alchemica in quanto proveniente dagli scritti di Paracelso (1493-1541), che disse di averla coniata a partire da parole arabe; il che è anche possibile, Paracelso, nato ad Einsiedeln, in uno dei tre cantoni svizzeri originari, quello di Schwyz, era piuttosto orgoglioso del suo sapere e si faceva chiamare Paracelsus per asserire di essere allo stesso livello di Aulo Cornelio Celso, romano della Gallia, illustre naturalista ed esperto in arti mediche vissuto nella prima metà del I secolo d. C.

Il termine alkahest indicava, secondo Paracelso, e così ripreso da Boyle, il solvente universale, il liquido in grado di sciogliere qualsiasi materiale, liquido che si pensava affine al mercurio, data la proprietà di quest’ultimo di sciogliere, cioè di formare un amalgama, diremmo oggi, ad esempio con l’oro; particolare importanza rivestiva il mercurio per gli alchimisti, tanto che distinguevano il mercurio solvente semplice, che era un’acqua estratta secondo i principi della Grande Opera ― in buona sostanza i principi fondanti dell’alchimia ― dai vapori secchi, viscosi, acidi, capaci di sciogliere i metalli; il mercurio solvente composto, che era mercurio cui era stata aggiunta un’altra sostanza che ne faceva davvero la sostanza perfetta, che scioglieva ogni altra, inizio di ogni processo; e infine il mercurio comune che era l’estratto ottenuto operando sui minerali che ne contenevano.
E dunque qui abbiamo il Boyle ancora imbevuto della dottrina alchemica, che sogna questa sostanza universale ri-solutrice ― anche in senso etimologico ― di ogni problema materiale. Ma l’uomo Boyle è uno e il suo mondo è insieme alchemico e moderno: la vera apoteosi della sua fantasia desiderante sfocia nell’ultimo desiderio, che davvero apre un orizzonte sconfinato: A Perpetuall Light, una luce eterna, una luce che mai scompaia e che non richieda sforzo per essere mantenuta.
Una prospettiva universale: il Big Bang, come se l’immaginano ― o forse come lo desiderano ― gli scienziati di oggi, fu un enorme scoppio di luce iniziale, destinato a durare per tutto l’universo e per tutto il tempo, perché la luce che si propaga incessantemente nello spazio continua inalterata, non si attenua, non si esaurisce; se la luce colpisce un oggetto materiale, direte voi, si ferma e scompare, già, così sembra, in realtà tutti i corpi, a qualsiasi temperatura essi si trovino, emettono luce (naturalmente il termine luce va inteso qui come sinonimo di radiazione elettromagnetica) e più sono caldi e più emettono; dunque quando un corpo “ferma” e così distrugge la luce che lo incontra, il primo effetto di ciò è il riscaldamento del corpo stesso, che quindi emette immediatamente altra e maggiore radiazione.

Questa abbagliante richiesta di luce perpetua ha molti e illustri rimandi, dall’invocazione di Goethe morente ― mehr Licht, mehr Licht! ― riecheggiata nei foscoliani Sepolcri [«perché gli occhi dell’uom cercan morendo / il Sole; e tutti l’ultimo sospiro / mandano i petti alla fuggente luce.»], alla preghiera cristiana per i defunti ― lux perpetua luceat eis ― alla passione sconfinata di Einstein per la luce, che fece sì che egli ponesse a fondamento di tutta la sua teoria appunto questo straordinario e unico fenomeno naturale.
Per Einstein la luce era l’unica cosa che poteva sottrarsi alle “normali” leggi della fisica: la velocità della luce, misurata da qualsiasi sistema di riferimento doveva risultare sempre la stessa ― come spiegavo più estesamente qui ― quei famosi 300.000 chilometri al secondo (circa) che tutti sanno e che, ormai ne siamo certi, nemmeno i più scaltri neutrini riescono ad eguagliare.

Negli ultimi due o tre anni della sua vita Robert Boyle, che morì il 31 dicembre del 1691, si dedicò a preparare un proprio lascito per il futuro, e malgrado egli non sia riuscito a terminare quelle “importanti ricerche chimiche” che aveva in mente, lasciò però nel testamento istruzioni e una apposita dote per inaugurare le Boyle lectures, lezioni annuali di argomento teologico, che ancora oggi si tengono, con una certa regolarità ― si veda ad esempio qui, un tipico esempio di britannica tradizione.

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7 Commenti

  1. Mi domando se il tuo accenno alle ultime parole di Goethe vada interpretato come una chiave di lettura. In effetti, se gente come Boyle e Newton erano al tempo stesso scienziati e alchimisti, anche Goethe conosceva astrologia, occultismo e alchimia; alla luce si era interessato fin dalla sua “teoria dei colori” ed è quantomeno curioso che morendo abbia sintetizzato nella luce il senso della sua opera.

  2. […]dunque quando un corpo “ferma” e così distrugge la luce che lo incontra, il primo effetto di ciò è il riscaldamento del corpo stesso, che quindi emette immediatamente altra e maggiore radiazione.

    uhm…

  3. mah, Riccardo, forse non è così curioso, proprio perché anche per lui la luce aveva rivestito un’importanza così vitale.
    Cara Pensieri Oziosi, cosa ti lascia perplessa? Qualsiasi corpo che non sia allo zero assoluto, cioè qualsiasi corpo, emette radiazione elettromagnetica e quindi energia, e la quantità di energia emessa è addirittura proporzionale alla quarta potenza della temperatura (assoluta, s’intende), legge di Stefan-Boltzmann; ovvero, per dire, se raddoppia la temperatura l’energia emessa aumenta di 16 volte.

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Antonio Sparzani, vicentino di nascita, nato durante la guerra, dopo un ottimo liceo classico, una laurea in fisica a Pavia e successivo diploma di perfezionamento in fisica teorica, ha insegnato fisica per decenni all’Università di Milano. Negli ultimi anni il suo corso si chiamava Fondamenti della fisica e gli piaceva molto propinarlo agli studenti. Convintosi definitivamente che i saperi dell’uomo non vadano divisi, cerca da anni di riunire alcuni dei numerosi pezzetti nei quali tali saperi sono stati negli ultimi secoli orribilmente divisi. Soprattutto fisica e letteratura. Con questo fine in testa ha scritto Relatività, quante storie – un percorso scientifico-letterario tra relativo e assoluto (Bollati Boringhieri 2003) e ha poi curato, raggiunta l’età della pensione, con Giuliano Boccali, il volume Le virtù dell’inerzia (Bollati Boringhieri 2006). Ha curato due volumi del fisico Wolfgang Pauli, sempre per Bollati Boringhieri e ha poi tradotto e curato un saggio di Paul K. Feyerabend, Contro l’autonomia (Mimesis 2012). Ha quindi curato il voluminoso carteggio tra Wolfgang Pauli e Carl Gustav Jung (Moretti & Vitali 2016). È anche redattore del blog La poesia e lo spirito. Scrive poesie e raccontini quando non ne può fare a meno.
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