Quando arrivarono gli alieni. 43-45

I want to believeAd Andrea Raos

43. Il pianeta si attardava in un dormiveglia fatto di guerre regionali, di smantellamenti di distretti industriali. La proliferazione di confusi e sovrapposti schemi di ferocia e avidità segnava i gruppi sociali localizzati nelle fasce periferiche del capitale finanziario. Gli spessori dei loro corpi sociali, composti, come persone addormentate, tra i quartieri residenziali a basso impatto ambientale, erano intessuti da social network dedicati, da sistemi autonomi di circolazione monetaria e da dottrine filosofiche apprese dalle TV via cavo locali, orientate al razzismo, alla riproduzione endogamica, all’ottusità come espressione compiuta di potenza.

44. Ci arrivavano notizie di una specie di impero stellare, le cui ultime propaggini toccavano i nostri avamposti nell’area di Aldebaran. I resoconti dei sistemi semisenzienti che avevamo installato in quel settore parlavano di un’entità politico-istituzionale di durata immemorabile, con estensioni di migliaia di parsec nelle tre dimensioni, e percorsa da travagli lentissimi, da vicende costituzionali millenarie, imperscrutabili. Alcune caste di funzionari formulavano, nel corso dei secoli, piani di programmazione economica e finanziaria che confondevano le proprie linee di sviluppo con le curve di decadimento degli isotopi, nei nuclei delle giganti rosse, con il lento dipanarsi dei bracci della galassia, verso lo zero assoluto delle regioni esterne.

45. Dai documenti risultava evidente che diversi strati della popolazione erano ossessionati da un costrutto metafisico complesso e implicito, denominato “salario”, la cui estensione concettuale innervava le giornate dei singoli, il loro sovrappensiero, le ore di inazione che precedevano il sonno – dedicate per lo più a fruizioni coatte di eventi semiotici complessi, come notiziari, reality show, programmi di satira politica. Il medesimo costrutto parassitava i processi cognitivi, in modo tale che anche i livelli biologici degli individui venivano corrosi nel corso tempo, logorati dalla continua rielaborazione di un concetto mostruoso, sordido, inesauribile. Il gesto di aprire una porta, quello di accarezzare il figlio, erano segnati, negli immediati paraggi spazio-temporali, da una sbavatura livida, da un sistema di sottili estensioni di senso, simile a una muffa filamentosa che si riannodava, attraverso le pieghe quadridimensionali del mondo, alle mattine in tangenziale, alla cessione della propria forza-lavoro, alle pause sigaretta sul retro di edifici prefabbricati della prima fascia periferica.

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6 Commenti

  1. Tecniche di basso livello extraterrestri. :) Questo post non fa altro che accrescere il desiderio di vedere pubblicato e leggere presto il tuo prossimo libro. A quando la prossima raccolta di prose brevi? Ogni volta che ti leggo, i tuoi testi mi trasportano in un mondo tipicamente tuo: conservano sempre una forte personalitá, una sorta di marchio di fabbrica indelebile, anche quando si muovono verso territori e contesti nuovi, come in questo caso.

  2. Quando Galvano della Volpe dismetteva le gerarchie gnoseologiche fra discorso letterario e discorso scientifico e filosofico, ridefinendo come “modale” una differenza che altri davano per ontologica, e insomma riassegnando alla letteratura tutto il peculiare potenziale conoscitivo che le compete e tutto, conseguentemente, il suo valore politico e civile non gregario: ecco, della Volpe doveva aver già letto Bortolotti, non chiedetemi come.

  3. Finalmente il Gherardo “scrittore di fantascienza” (sui generis, s’intende) a lungo atteso?
    La cosa che di prim’acchito più mi colpisce leggendo questi assaggi è l’ulteriore distanziamento del punto di vista: qui non più solo temporale (si veda l’uso dell’imperfetto, à la Tecniche d.b.l.), ma anche spaziale, siderale oserei dire, con tutto l’interesse funzionale – e finzionale – che ovviamente ne deriva.
    [Una curiosa reminescenza letteraria celebre, e un po’ o.t., che mi è venuta leggendo il pezzo sul salario:
    “Avrei voluto nascere sulla Luna, o in qualsiasi altro pianeta (…) perché non sarebbe stato facile cavarmela peggio (…) di quanto abbia fatto in questo abbietto, sporco pianeta (…) – non che il nostro pianeta non vada abbastanza bene, purché si sia nati con un gran nome o con con una gran fortuna; o si riesca in qualche moodo a ottenere incarichi pubblici o posti di prestigio o di potere; – ma non è questo il caso, — e ognuno parla pertanto della fiera a seconda di come gli sono andati gli affari – per il qual motivo torno ad affermare essere questo uno dei mondi più abbietti che siano mai stati fatti”.]
    Complimenti ancora; un abbraccio,
    Al

  4. In quanto dedicatario forse dovrei stare zitto, ma voglio almeno dire che le potenzialita’ di questo lavoro in corso di Gherardo mi sembrano all’incirca sconfinate.

  5. ottima scrittura (metafisica eppure formulata in senso “quasi”, ma tematico, ammesso e non concesso che io sappia esattamente cosa intendo dire)… insomma, riga dopo riga l’impressione è che la parola stessa, confusa negli ambiti semantici lambiti (tangenziali, periferie, quartieri residenziali), parassiti i processi cognitivi schiudendosi alla scoperta di mondi e significati alieni. mi piace. l’idea che la parola in sé sia una sorta di ultracorpo, un baccellone ripieno di ectoplasmi da ectoplasmare a nostro e loro piacimento, fino a renderci nel contempo alieni alienati dalla realtà, ma anche esploratori concettuali invasi da ultracorpi.
    nota di perplessità, invece, è che – almeno in questo estratto – mancano completamente i dialoghi. forse per questo l’impressione atmosferica complessiva (ma parziale) ricorda le sembianze d’un saggio trattato (saggistica?), magari volutamente e funzionalmente distaccato, ma proprio per questo meno vivo (ed io sarò fatto male, ma devo proprio toccarli con mano e sentirli parlare, gli alieni alienostrani, per crederci).
    : )
    ohi, se poi, come suggeriscono i capitoletti, dovesse scaturirne del materiale *organico* (chessò un libro, una raccolta), leggerollo volentieri assai.

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