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Lettera Internazionale 111

(È disponibile il nuovo numero di Lettera Internazionale. Si  riprende qui l’editoriale di Biancamaria Bruno.)

Cari amici, cari lettori,

la lingua – diceva Gramsci – viene inevitabilmente considerata dalle classi dominanti più come uno strumento di politica culturale per la conservazione del potere che non come una risorsa da valorizzare. I pochi che hanno un effettivo controllo sull’uso della propria lingua la piegano ai loro scopi. Quei pochi, consapevoli della loro superiorità “linguistica”, e quindi politica, non hanno interesse alcuno a che la gente alimenti la propria consapevolezza sulla lingua che parla e che scrive – è la storia dell’umanità a dircelo, e anche la storia italiana degli ultimi anni. Bloccare la crescita linguistica della gente di fatto vuol dire privare la sfera pubblica della sua prima e principale arma di difesa e di controllo politico e sociale. E, d’altro canto, il fatto che la comunità civile fatichi a capire quanto sia importante coltivare lo strumento della propria lingua e sottoporlo a verifica nel confronto con altre, o studiandone la storia, porta a uno scollamento dal mondo, a gettare la spugna di fronte alla possibilità di formarsi come cittadini responsabili – significa, in molti casi, accettare di temere il mondo, invece di aprirgli le porte, di tremare di paura di fronte ad esso, invece di fremere di fronte agli stupori che può portare. Significa, soprattutto, inibire la forza del proprio pensiero. È solo comunicandolo attraverso la lingua che il pensiero può formarsi, sciogliere i suoi nodi, esplicarsi, affinarsi e diventare, così, sempre più condiviso e democraticamente creolo. Opponiamo una resistenza che appare naturale al concetto di creolizzazione, perché ogni uomo pensa che la sua lingua, e quindi la sua cultura (per non parlare della sua “razza”), sia in qualche modo pura e universale, che le categorie di quella lingua e di quella cultura siano rintracciabili e applicabili in tutte le altre. Non è così. Credere questo non significa affatto riconoscere che le lingue siano tutte equivalenti nella loro diversità – come scriveva Roman Jakobson – ma rivendicare implicitamente la superiorità della propria. Le lingue occidentali, quasi tutte di discendenza indoeuropea, tendono a pensare la lingua come se fosse una logica naturale, portatrice di ragione e di razionalizzazione. Pensiero e parola si separano così in un dualismo insanabile e paradossale che rende opaca una verità lapalissiana: non c’è pensiero senza un linguaggio e non si dà parola senza un pensiero. E il pensiero deve prima di tutto riflettere sulla parola stessa, sulla lingua, svelandone i misteri, forzandola nella sua capacità associativa e comunicativa. E qui entrano in gioco due arti che da sempre resistono al dualismo pensiero/parola: la poesia e la traduzione – arti “marziali” contro l’omologazione di massa. Si tratta in entrambi i casi di tecniche miste di ascolto della voce e dei rumori prodotti dal mondo, dall’uomo, dal pensiero/parola stesso, dalla scrittura, che vengono ricomposti nella lingua che è sempre un processo: di “traduzione”, alla ricerca di una sintesi armoniosa tra strati di immagini, di simboli, di suoni e di significati diversi per restituire il respiro e il ritmo delle lingue; e di “poesia”, per restituire il respiro e il ritmo del mondo. Questo è ciò che ha fatto anche Sauro Cardinali nell’immagine di copertina, assemblando lettere per formare parole, ma bloccandole in contenitori di resina per poi liberarle, creando così un magico e coloratissimo “Pasto delle farfalle” – la parola che si fa altro. Come tutte le arti, anche la traduzione e la poesia sono creole: forme meticce che vivono e si cibano del continuum tra pensiero e parola, tra grammatiche del mondo e grammatiche della lingua, che devono sempre essere intese come sistemi aperti e ospitali. E se qualcuno pensa che tutto questo sia solo cultura e non politica, si sbaglia di grosso.

Buona lettura a tutti,
Il Direttore
Biancamaria Bruno

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2 Commenti

  1. Leggere interventi come questo della Bruno è rigenerante e, in senso positivo, “consolatorio”. Perché al contrario, che la lingua sia temuta o data per scontata (e proprio ai ‘saldi’) addirittura da molti degli stessi “poeti”, è quanto emerge da diversi “dibattiti” recenti, tutt’affatto terrorizzanti.

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domenico pinto
domenico pintohttps://www.nazioneindiana.com/
Domenico Pinto (1976). È traduttore. Collabora alle pagine di «Alias» e «L'Indice». Si occupa di letteratura tedesca contemporanea. Cura questa collana.
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