MGUS

di Fiammetta Cirilli

 

Nel vagone si respira l’aria dei treni pieni: un bambino di qualche anno, non distante dal posto occupato da Giulia, piange nevroticamente; mentre altri due o tre, appena più grandi, ghignano e si agitano, improvvisano giochi, sgambettano noncuranti dei rimproveri delle due donne che sono con loro. Un tale di mezza età minaccia, prima ancora che il treno parta, di chiamare l’uomo nero.

Giulia osserva e non dice nulla. Non sorride. Sfiora con la destra la tempia e la tiene premuta qualche istante, come se avesse l’emicrania. Ma sta bene. Nonostante tutto, oggi può dirsi in buona salute. Non le pesano l’insonnia accumulata negli ultimi giorni, la cattiva digestione, l’aver fatto da una settimana in qua solo pessimi pasti: roba confezionata, riscaldata magari, trangugiata controvoglia.

«Chiamo l’uomo nero…», continua intanto il tale a pochi sedili di distanza. Come se l’uomo nero fosse ancora patrimonio dell’immaginario comune, a uso e consumo di adulti capaci di suscitare un sano, opportuno senso di timore infantile. No. Il tale è chiaramente in difficoltà, lontano anni luce dagli spauracchi che potrebbero, forse, abitare il cielo notturno di questi ragazzini. Che, infatti, lo fissano con curiosità, abbozzando una risata larga e sdentata.

 

Giulia chiude gli occhi fingendo di dormire. Nei posti dietro al suo si parla di impianti di condizionamento che non funzionano mai, che gelano i passeggeri in inverno e li lasciano asfissiare in estate. Con quel che costano i biglietti. E ancora: le promesse dei politici, i guai della gente, lo sfascio pubblico. Che aleggia grande e beffardo, come una nube radioattiva, e anzi travolge tutto e tutti: eccezion fatta, ovviamente, per i politici ladroni.

Giulia prova a dormire. Sente la stanchezza, il bisogno di abbandonarsi: rilassare prima la testa, perché si liberi delle troppe parole. Poi il corpo, dal primo muscolo all’ultimo.

Serra le palpebre per questo, e anzi le strizza: avverte la vibrazione delle ciglia, la tensione del cervello che non cede, ostinato. Con lui, il cuore: i suoi tonfi monotoni, in accelerazione.

 

 

Ma le parole non lasciano mai la testa.

Resistono al sonno, alla follia, alle labirintiche fughe in veglia. Resistono al dolore, alla paura, anche – inutile, dunque, sforzare la carne fino a torcerla, paralizzarne la reattività. Non è quello il modo per avere un po’ di riposo. Ascoltare musica, magari – cerca con la mano destra l’iPod, Giulia, sempre tenendo gli occhi chiusi. Sfiora il giaccone, il velluto dei pantaloni, la tela della borsa che ha appoggiato sulle ginocchia. La affonda e trova il cellulare, una bottiglia d’acqua, un cartoccio di pizzette fredde comprate in pasticceria. Non ha fame. Continua. L’iPod è scivolato probabilmente sul fondo, non riuscirà mai a trovarlo finché gioca così, a mosca cieca.

 

I due posti in faccia al suo sono stati occupati. Due donne giovani, probabilmente non molto più grandi di lei. Parlano di un convegno. Delle persone che hanno incontrato lì, di una certa Silvietta che non rivedevano da anni. È importante che si facciano i convegni: perché sono belle occasioni, un po’ come le feste, per ritrovarsi tutti quanti. Come quando si era studenti. È importante, è importante sul serio.

 

Per un attimo le balena in testa l’idea di ritentare la carta della carriera accademica. Nemmeno un anno che è stata assunta a scuola e già ne ha a sufficienza. Ripensa poi alla boria del curriculum vitae: studi, perfezionamento, pubblicazioni. La fatica di essere sempre a posto, sempre pronta su tutto. E la facilità con cui, poco alla volta, ha rimesso piede – da insegnante – in un liceo.

Mi scusi, sa l’ora esatta della partenza?, chiedono, intanto. Forse proprio a lei. Come se non fosse chiaro che Giulia sta provando a dormire, che è fuori dal mondo in questo momento, e non vuole essere disturbata. Mi scusi, ma la valigia è la sua?, chiedono daccapo, un istante dopo.

L’iPod, nel frattempo, si è lasciato afferrare. È sgusciato via, poi, ma di qualche centimetro appena. Giulia l’ha stretto nel palmo con rabbia.

 

Le due donne sedute di fronte hanno parlato ancora di Silvietta e del convegno. Hanno telefonato a una Tania per dirle dell’avvenimento. Dopo, hanno sentito un Gerardo e un Filippo. Quindi hanno aperto una confezione di wafers, o forse di cracker, e hanno iniziato a masticare. Hanno continuato anche a parlare: di Silvietta, di Gerardo quand’era fidanzato con Silvietta, e di Tania, quand’era innamorata di Filippo.

Qualche posto indietro, l’uomo nero è stato invocato ancora più e più volte prima che le mamme si decidessero a richiamare i loro bambini, costringendoli a stare per un po’ seduti senza disturbare. Anche in quel caso è stata aperta una confezione di cibarie, perché l’obbligo riuscisse meno odioso. Un ruminare infantile ha così sostituito i giochi.

Il capotreno ha percorso due o tre volte il corridoio, annunciando – a chi lo chiedeva – che il treno sarebbe partito in perfetto orario, ovvero, entro i prossimi cinque minuti. Molte le voci di commento: e nuove formule di deprecazione contro i politici corrotti, quei falsoni.

MGUS. La parola che non lascia più la testa di Giulia è, in realtà, un acronimo – il capotreno passa di nuovo, rapido. Di nuovo qualcuno domanda se la partenza sarà in orario.

 

Le prime note sono quelle di un brano dei Radiohead. Tra i suoi preferiti: ma non oggi. Non adesso: piuttosto, Giulia cerca qualcosa di leggero, fosse anche della musica per minorenni. Scorre l’elenco, in su e in giù, senza fare caso ai nomi che legge. Si ferma su John Coltrane: poi torna a Karma police. Il treno, intanto, si è fiaccamente messo in moto.

 

La scienza non sa spiegare perché, a un certo punto, in un organismo sano, il midollo osseo presenti un accumulo di plasmacellule identiche, prodotte da un’unica plasmacellula madre che è andata incontro a un processo di proliferazione. Costituendo un clone, quelle plasmacellule tutte uguali si dicono monoclonali. Producono inoltre lo stesso tipo di gammaglobulina – con identica struttura chimica, mentre, nella normalità, le gammaglobuline sono una diversa dall’altra.

Sembrerebbe una banalità: un particolare utile, sì e no, alle dissertazioni accademiche – anche perché, tanto più quando la percentuale di plasmacellule monoclonali è modesta, nessun sintomo accompagna il processo proliferativo. Le immunoglobuline monoclonali si depositano infatti nel siero, dando vita a una componente monoclonale, o picco, visibile solo nella regione gamma del tracciato dell’elettroforesi sierica.

 

C’è di buono che non sempre il riscontro di una componente monoclonale, detta anche gammopatia monoclonale, è sinonimo di una malattia tumorale. Esistono, infatti, delle forme di significato indeterminato – appunto: Monoclonal Gammopathies of Unknown Significance – che possono rimanere invariate negli anni. Diversamente, le gammopatie accompagnano eventuali patologie non ematologiche (anche rare, per la verità: come l’artride reumatoide o la TBC); si associano a linfomi o a leucemie linfatiche croniche; infine, manifestano la presenza di malattie proliferative gravi: amiloidosi, macroglobulinemia di Waldestrom, mieloma multiplo.

In genere, presentano MGUS pazienti in età piuttosto avanzata – età media 67 anni –, prevalentemente uomini (M: 60%, F: 40%). Non essendo comprovata la responsabilità di fattori ambientali vari (esposizione a pesticidi o altri agenti chimici, radiazioni, agenti infettivi), si ritiene peraltro che una perdita di efficienza del sistema immunitario – provocata dall’invecchiamento – sia all’origine del processo proliferativo.

Al momento della diagnosi, in ogni caso, nulla distingue una forma stabile da una destinata a evolversi. Le statistiche indicano che, anche in caso di MGUS, esiste un rischio di trasformazione – specie in mieloma – stimato nell’1% per anno: la probabilità di evoluzione neoplastica è di conseguenza  indicata nel 10% a 10 anni, 21% a venti anni, 26% a venticinque anni. Per questo, a chi sia stata riscontrata una MGUS, la medicina raccomanda controlli del sangue e delle urine periodici (ogni quattro-sei mesi), oltre a un’accurata indagine diagnostica iniziale (compresiva di ago aspirato midollare, radiografia dell’intero scheletro, ecografia addominale e dei linfonodi).

Per il resto, non esistendo alcuna terapia, non c’è che da aspettare e sperare.

 

Anche bere due litri di acqua al giorno, sostiene qualche ematologo, fa bene – cioè: fa bene comunque, a chiunque; tanto più se quel chiunque si porta nel sangue qualche grammo di immunoglobuline impazzite. In ogni caso, se pure non gli fa bene – nel senso che non contribuisce né tanto né poco a rimettere in sesto le cose, o, al limite, a mantenerle invariate  –  non può certo fargli male. E insomma, nel complesso, non può che contribuire al benessere generale della persona.

 

Giulia beve un sorso o due di acqua. Richiude con lentezza la bottiglia, la infila nella borsa. Attraverso Karma police le arrivano parole a pezzi, sillabe appena – il treno ha preso finalmente ritmo, scivola con sveltezza nella campagna. Fermerà a Terni. Poi, passato l’Appennino, in una mezza dozzina di altri posti, fino ad Ancona: ma difficilmente arriverà in orario.

 

Immagina come debba essere la Silvietta di cui parlano tanto le due donne sedute in faccia a lei. E poco importa se è bella o brutta, magra o grassa, piccola o grande come un frutto ipervitaminizzato. Giulia la vede, sa chi è, sa che cosa ha fatto in tutti questi anni. Indovina i suoi gusti, le insofferenze, le abitudini, i vizi. Stringe in mano il suo passato e lo regola – scorre su e giù, confronta, scarta. Preferisce di lei… cosa preferisce di lei? E la voce: che voce ha? Bassa e calda, oppure stridula, penetrante?

Da tempo le circola in testa una figura: una forma femminile. Disarticolata, sfocata. Non direbbe di lei: è giovane, è bionda, è intelligente. Ma non potrebbe dire nemmeno il contrario. Ha creduto, qualche volta, che potesse trattarsi della plasmacellula madre: la famosa plasmacellula che, chissà come, quando, perché, ha iniziato a riprodursi nel suo midollo osseo in tante plasmacellule uguali. Una plasmacellula, però, è una plasmacellula: per quanto disarticolata, deve essere più simile a una macchia che a un essere umano. Giulia ha mai sfogliato un opuscolo di medicina? E allora, magari, ricorderà che la forma è diversa, è diversa…

 

 

E dove lavora, adesso, Silvietta? Dove ha detto che si trasferisce? A Boston, addirittura…

Ancora si parla di questo, nei sedili di fronte a quello di Giulia. E ancora versacci di bambini, rimbrotti e sbuffi – il capotreno si scusa con Giulia per averla svegliata, dormiva così bene: ma deve controllare il suo biglietto. Un attimo, risponde lei, e cerca, affonda daccapo la mano nella borsa: ritrova le pizzette, la bottiglia piena per tre quarti, la custodia dell’iPod. Il biglietto, tra diverse altre carte, sta schiacciato nel punto più basso: sicché, nel tirarlo fuori, trascina anche il referto («Si evidenzia C.M. IgG catene leggere Kappa») che, non fosse stato per il tono improvvisamente compunto del medico che per primo l’ha letto, a Giulia evocherebbe lo zero: non scorci di corsie d’ospedale, non camici, non spettri di alcun tipo.

Questo è suo, si affretta a dire il capotreno restituendo a Giulia il foglio dell’ospedale. Sì, lo so, è mio, è solo mio, replica lei. Ma tra sé e sé.

 

Una delle due donne sedute di fronte le sorride amichevolemente. Giulia ricambia, per educazione. Poi torna ad abbassare le palpebre, a cercare, nel sonno, di dare un volto e un tempo alla sua sindrome.

 

Percepisce il paesaggio e i lampi di luce, la corsa del treno, i contorni delle cose disfatti e fusi, fastidiosi, brillanti. Quando sarà ad Ancona andrà anche lei a un convegno: questo aveva deciso, questo farà. Nonostante tutto: perché ha avuto un giorno di permesso a scuola, perché le andava. Perché Leopardi è l’autore su cui si è laureata, e le dispiace pensare che la scuola sia solo insegnare quel che si sa già, senza aggiungere niente di nuovo.

Faccia buon viaggio, e si goda la vacanza – l’ha salutata la dottoressa di base qualche giorno prima della partenza per Ancona. Aggiungendo, con l’intenzione di essere soltanto spiritosa: Non si abbatta. In fondo, di qualche cosa bisogna pur morire.

 

Cosa c’entra una MGUS con una donna di nemmeno quarant’anni? Mah.

Qualcuno dice che è la troppa sofisticatezza degli esami che ci sono oggi. Altri fanno spallucce. Vedrà, magari camperà quindici, anche vent’anni senza problemi. Altri tacciono. Altri ancora sorridono. E poi, in fondo, non sarebbero gammopatie di significato indeterminato, se la scienza ne sapesse qualcosa.

 

Tra una Silvietta sconosciuta e reale, e un Leopardi amato e fuori fuoco, Giulia abbassa il tiro: e, per passare il tempo, lascia che certe fantasie si trascinino da un bordo all’altro della memoria, come scatole in un portabagagli semivuoto, durante un percorso accidentato. No, non ricorda più i versi come li ricordava un tempo – beltà splendea negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi e tu, tutu, pensosa e lietalieta e pensosa, il limitaredi gioventù… Sicché il parallelo, spontaneo, le consegna comunque una vittoria: perché la Silvia recanatenese morì nemmeno ventenne, mentre lei, di anni, ne conta circa il doppio.

Di qualche cosa, in fondo, bisogna pur morire: sagge, saggissime parole – squilla in quel momento il cellulare. O meglio: vibra. Portando scompiglio ulteriore nella testa e tra le mani: tra le dita che cercano, e trovano carta, untuosità, plastica gelida.

 

Allora ho parlato con l’ematologo di cui ti dicevo… dice che proprio non devi preoccuparti… hanno un sacco di pazienti nelle tue condizioni… tranquilla. Mercoledì, però, devi essere lì in reparto alle nove precise… Si è raccomandato… la raccolta delle urine… Tu quando ritorni da Ancona?

 

Quindi la chiamata si interrompe. Giulia guarda fisse le due donne sedute in faccia a lei.

 

Let down. L’album è OK Computer, uno dei suoi preferiti.

Infila di nuovo l’auricolare, alza un po’ il volume. Ha caldo, ma non le importa.

Dà uno sguardo in alto – riconosce sulla cappelliera la busta della farmacia, la scatola del contenitore sterile avvolta nel cellophane. No, certe parole non lasciano mai la mente.

Alza ancora il volume. Chiude gli occhi come per dormire.

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1 commento

  1. Credo che ognuno senta il bisogno di vivere una vita più significativa, anche, anzi, soprattutto la persona che ad un’altra sembra insignificante, perché forse ha un malloppo di significati che non trovano la strada per emergere.
    Il malloppo di significati non ha nulla a che vedere con la plasmacellula madre, come questa non ha nulla a che vedere con la Silvia di parlano le compagne di viaggio di Giulia) eppure questo racconto (di cui ho apprezzato l’inserimento freddo ma doloroso del brano di enciclopedia medica che convoglia il senso) mi ha fatto pensare (è un’ovvietà, ma come tale forse è vera) che le persone che sentiamo distanti e diverse, a volte ostili, cercano in modo diverso cose che cerchiamo anche noi (forse, meno profonde, ascoltano Tiziano Ferro anziché Karma Police). Il primo passo è cercare una comunicazione e una via d’uscita al malloppo.
    Ancora una cosa che non c’entra nulla: penso che si dovrebbe partecipare a più convegni.

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