Due letture del decennio sicuritario (Fassin e Matelly Mouhanna)

Di Andrea Inglese e Simone Morgagni

L’ossessione per la sicurezza in Francia non data certo della presidenza Sarkozy e nemmeno della sua zelante attività di ministro degli Interni all’epoca della presidenza Chirac, ma è senz’altro durante il decennio appena trascorso che il paese è diventato un vero e proprio laboratorio “sicuritario”. Sul piano della propaganda politica, l’enfasi sul tema della sicurezza ha permesso a Sarkozy non solo di strappare voti all’elettorato di estrema destra, ma anche di accentuare il proprio vantaggio sui socialisti. Questi ultimi, infatti, nonostante i ripetuti sforzi per seguire la destra sul suo terreno prediletto, sono rimasti sempre meno convincenti in materia di repressione e xenofobia. Per mantenere però il monopolio politico su un tema così fecondo, Sarkozy si è dovuto spendere in un continuo attivismo sul duplice fronte giuridico e poliziesco. A partire dalla “legge di orientamento e di programmazione per la sicurezza interna” (LOPSI I), da lui sostenuta come ministro degli Interni nell’agosto 2002, il sito OWNI censiva, nel gennaio 2011, 42 leggi in materia di sicurezza, una ogni due mesi e mezzo. A questa frenesia legislativa, Sarkozy, prendendo a modello Rudolph Giuliani, affiancava un “nuovo management della sicurezza”, costituito da continui e sbandierati controlli della “produttività” in materia di repressione del crimine.

Ora che il decennio “sicuritario” si chiude con la sconfitta politica di Sarkozy, ci si può chiedere come si siano nel frattempo modificate le pratiche delle forze dell’ordine all’interno della società francese. Da diversi anni, in Francia, le scienze sociali hanno contribuito ad esplorare il funzionamento delle istituzioni di polizia, notoriamente opache a studi indipendenti e analisi critiche. Abbiamo scelto di parlare di due tra i lavori più recenti e significativi, quello di Didier Fassin, La force de l’ordre. Une antropologie de la police des quartiers (Seuil, 2011), studioso di scienze sociali a Princeton e all’EHESS di Parigi, e quello di Jean-Hugues Matelly e Christian Mouhanna, Police: des chiffres et des doutes. Regard critique sur les statistiques de la délinquance (Editions Michalon, 2007), ufficiale di gendarmeria e sociologo il primo, ricercatore e specialista di questioni di polizia il secondo.

 

L’interesse del libro di Fassin nasce dal fatto che, rispetto a un’ormai ricca letteratura francese sull’argomento, la sua è un’indagine di territorio, realizzata per osservazione diretta secondo i metodi dell’etnografia contemporanea. Questo non impedisce all’autore di utilizzare un’ampia documentazione di carattere statistico né gli preclude di sviluppare un quadro interpretativo ampio. Secondo Fassin, la polizia non può essere considerata come il mero strumento armato della classe dominante. Si tratta di un corpo intermedio tra potere politico e società, di cui va studiata la specifica cultura istituzionale e l’autonomia relativa. Ciò vale anche nel caso della polizia francese che, essendo una polizia di Stato, è gestita in modo centralizzato a livello nazionale e tende a dipendere dagli orientamenti ideologici provenienti dal Ministro degli Interni e dal Presidente della Repubblica.

Fassin ha seguito per 15 mesi (dal maggio 2005 al febbario 2006 e dal febbraio 2007 a giugno 2007) le ronde diurne e notturne della BAC, la Brigata Anti-Criminalità, un corpo speciale in abiti civili creato a metà degli anni Novanta con lo scopo specifico di reprimere la criminalità dei cosiddetti quartieri “sensibili”. La BAC costituisce un osservatorio privilegiato per cogliere gli effetti reali, e non più propagandistici, delle politiche contro l’insicurezza. In primo luogo, la BAC gode, all’interno della polizia, di una notevole autonomia, che favorisce comportamenti spesso illegali e in ogni caso estranei a qualsiasi deontologia istituzionale. I membri della BAC, reclutati tramite domanda volontaria e per cooptazione dei superiori, sono considerati i “duri” del mestiere, ossia impermeabili più di altri a controlli e sanzioni. In secondo luogo, essi intervengono laddove, secondo l’immaginario condiviso, il disordine e il crimine sono di casa: le periferie urbane povere, caratterizzate da una popolazione giovane e d’origine africana, seppure per lo più di nazionalità francese.

Fassin nel corso della sua narrazione mette progressivamente in scena la contraddizione che si situa al cuore del dispositivo sicuritario. Le forze dell’ordine si trovano innanzitutto a risolvere una difficile equazione: in un contesto di strutturale calo della criminalità, devono legittimare, di fronte al potere politico, un aumento di produttività nella repressione: ossia un numero maggiore di arresti e di risoluzione dei reati. Sul terreno concreto della BAC questo si traduce in un quotidiano scenario tragi-comico fatto per lo più di sconsolata inazione, di qualche convulso ma quasi sempre vano intervento a seguito di una segnalazione giustificata, e infine di ripetuti controlli d’identità, alla ricerca di un possibile consumatore d’hashish o di qualche immigrato clandestino da poter arrestare. L’aspetto comico riguarda l’inefficacia di tanto dispiego di uomini e mezzi a fronte di quelli che sono gli obiettivi espliciti delle forze dell’ordine, ossia furti, aggressioni, vandalismi. L’aspetto tragico riguarda, invece, l’obiettivo inconfessabile di tanto protagonismo, che non è quello di prevenire il crimine e mantenere l’ordine pubblico, ma piuttosto quello di rafforzare un ordine sociale strutturalmente ingiusto e discriminatorio. Gli agenti della BAC, ripetendo controlli d’identità e brutali perquisizioni nei confronti di adolescenti che ben conoscono, compiono una pedagogia della mortificazione, nel corso della quale – come scrive Fassin – “l’abitudine dell’umiliazione deve produrre l’habitus dell’umiliato”(1).

Una parte importante del libro di Fassin è dedicata a questa fenomenologia dell’umiliazione, a cui gli uomini della BAC in particolare sottopongono i loro bersagli privilegiati, i giovani dei quartieri popolari d’origine africana. L’abuso poliziesco pubblicamente riconosciuto – dalle torture all’omicidio involontario –, pur producendo ogni anno in Francia un certo numero di vittime, non è che la punta dell’iceberg di una più banale e ordinaria violenza. Quest’ultima non è necessariamente riconducibile alla sua manifestazione fisica e può concretizzarsi come violazione della dignità della persona. Posto che questa violenza risponde a una specifica ma inammissibile funzione – ricordare ai cittadini di second’ordine qual è il loro posto di fronte allo Stato –, essa presenta tuttavia dei costi enormi per la società nel suo insieme. Scrive l’autore: “Inefficaci rispetto agli obiettivi, umilianti per gli abitanti, pericolose per i poliziotti e costose per le finanze pubbliche, queste pratiche hanno potuto svilupparsi in virtù del fatto che non sono state oggetto di una valutazione, come invece dovrebbe accadere per ogni azione pubblica”(2).

Al di là del fumo negli occhi rappresentato dalla “politica delle cifre”, Fassin invita ricercatori, cittadini, forze dell’ordine e classe politica a riflettere su queste contraddizioni fondamentali, che sempre più difficilmente possono lasciar coesistere il mito repubblicano dell’integrazione e della legge uguale per tutti con le violazioni sistematiche dei diritti di una parte della popolazione.

Police: des chiffres et des doutes, di Jean-Hugues Matelly e Christian Mouhanna, è un brillante lavoro di sociologia della polizia dall’interesse almeno duplice. Da un lato mostra i limiti della sola riduzione a risultati statistici del lavoro delle forze dell’ordine, individuando i rischi che tale riduzione comporta non solo a livello politico, ma anche per il funzionamento della stessa istituzione poliziesca. Dall’altro, espone il punto di vista critico verso la propria istituzione del comandante Matelly, nella sua doppia veste di gendarme(3) e ricercatore associato a un laboratorio del Centro Nazionale della Ricerca Scientifica (CNRS).

Quella che Matelly e Mouhanna sviluppano è una vera e propria critica della ragion statistica che non si limita all’uso che ne fa l’istituzione poliziesca, ma investe anche la pretesa degli organismi politici di monitorare e sviluppare le proprie azioni attraverso una valutazione che presenti i criteri formali dell’obiettività scientifica. Questo lavoro non si limita a criticare il ricorso quasi esclusivo allo strumento apparentemente più neutro offerto dalla scienza contemporanea: la logica statistica o, come più volte sostenuto in pubblico negli ultimi anni, le “cifre indiscutibili”. Una volta messo in dubbio il valore epistemologico assegnato al dato statistico, a essere intaccata è la rappresentazione stessa del fenomeno “crimine”, la cui conoscenza non può essere che parziale e dipendente dalla produzione stessa delle statistiche. La politica delle cifre, imposta con forza alle istituzioni poliziesche francesi dal 2002, sostituisce, infatti, alla statistica come strumento d’analisi e alla valutazione della qualità del servizio offerto ai cittadini una più becera ricerca di un risultato stabilito a priori. Il raggiungimento di quest’ultimo, inoltre, diventa condizione di ottenimento di finanziamenti e premi salariali di produttività nella più tipica logica liberista già applicata ad altri ambiti istituzionali.

Tuttavia, anche prescindendo dal dubbio valore rappresentativo che le statistiche di polizia hanno riguardo al fenomeno della criminalità, e dai molteplici errori, strategie e possibilità di manipolazione dei dati che gli autori identificano, la critica annidata in queste pagine riguarda sopratutto rapporti tra le sfere politica, poliziesca e pubblica. Non solo, infatti, si impedisce che l’azione delle forze dell’ordine sia valutata da un attore indipendente, ma in una società ad alta complessità giuridica, dove i crimini potenziali sono quasi infiniti, nessuna efficace procedura di classificazione è messa in atto per migliorare il valore delle statistiche ottenute. Sola rimane la politica dell’annuncio, la dichiarazione volta a rassicurare l’opinione pubblica.

La ragion statistica decreta allora di per sé il successo o l’insuccesso governativo, fungendo, a seconda dei casi, da volano o da peso insostenibile per le carriere politiche. Ma, per i membri delle forze dell’ordine, essa può anche diventare causa di perdita di credibilità nella propria gerarchia e nel sistema politico.

Consideriamo, a titolo esemplificativo, l’Affaire Matelly. Più volte ammonito dalla propria gerarchia in seguito alla pubblicazione, nella sua veste di ricercatore, di articoli critici verso la propria istituzione e, al tempo stesso, premiato e apprezzato per la chiarezza delle sue analisi, il comandante Matelly è stato accusato di essere venuto meno all’obbligo di riservatezza cui ogni militare è sottoposto e radiato in seguito alla pubblicazione di un articolo sulla riforma della Gendarmeria da lui cofirmato nel 2008 sul quotidiano online “Rue89”. Dopo forti, ma apparentemente inutili proteste provenienti sia dall’interno della Gendarmeria che dal mondo della ricerca, Matelly è stato reintegrato il 12 gennaio 2011 in seguito a una decisione del Consiglio di Stato che ha considerato la punizione sproporzionata rispetto alle accuse. Cionostante, il mancato esplicito riconoscimento del suo diritto di ricerca l’ha obbligato a sospendere la propria partecipazione alle attività del CNRS, non potendo, per via del proprio statuto, garantire l’indipendenza intellettuale che il ruolo di ricercatore richiede. Emerge così pubblicamente l’attrito esistente tra queste due componenti dello Stato. L’istituzione poliziesca, sottoposta alla forte pressione politica, ha applicato una politica di progressiva chiusura e, non potendo attaccare direttamente i risultati scientifici ottenuti da Matelly, non ha trovato altra via che punirlo ledendone in tal modo i diritti di cittadinanza e di espressione e scaricando in conclusione sul singolo il peso intero dello scontro istituzionale. Tuttavia, se in passato scontri di questo tipo erano più rari e risolti senza clamore, il cambiamento dei rapporti istituzionali e la tensione che li caratterizza a seguito della nuova cultura del risultato sembrano oggi renderli più aspri, più frequenti e, fortunatamente per l’opinione pubblica, potenzialmente più visibili.

 



1) Didier Fassin, La force de l’ordre. Une anthropologie de la police des quartiers, Seuil, Paris, 2011, p. 145.

2) Ibidem, p. 329.

3) La Gendarmeria francese, corpo militare controllato dal Ministero dell’Interno, è l’equivalente dei Carabinieri italiani, primariamente dedito al controllo del territorio rurale (quello cittadino essendo attribuito alla Polizia Nazionale).

[Questo articolo è apparso sul numero di giugno di “alfabeta2”]

 

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