Antonio Pascale, l’agricoltura biologica, gli OGM

di Giacomo Sartori

In “Pane e Pace” (Chiarelettere, 7,5 €) Antonio Pascale dipinge gli agricoltori biologici come esaltati che negano il progresso, dei nostalgici del passato. Ebbene, chiunque li frequenti anche solo occasionalmente sa che essi sono invece in genere più preparati, più aperti, più curiosi, dei loro omologhi “convenzionali”. Per il semplice motivo che per fare agricoltura biologica ci vogliono più attenzioni, più cognizioni, più intelligenza, più lavoro. Si usano armi meno “efficaci” (ma meno nocive), per sopravvivere bisogna compensare con il raziocinio e le conoscenze. Per questo l’agricoltura biologica – lo testimoniano i suoi manuali – è per definizione intimamente legata a quei progressi sperimentali, in particolare dell’agrobiologia, che Pascale stesso auspica. Ne fa anzi il suo cavallo di battaglia. Del resto l’agricoltura biologica industriale, da molti criticata (soprattutto per i suoi risvolti sociali), è ormai una realtà in molti paesi del Mediterraneo. E in Italia ci sono esempi di impianti di frutticoltura biologica estremamente automatizzati. Davvero Pascale, che lavora al Ministero della Politiche Agricole, lo ignora?

L’agricoltura biologica ha certo delle pecche (il rame impiegato come fungicida si accumula nel terreno, ci ricorda l’autore), per carità, ma ha gli immensi vantaggi complessivi, questo viene taciuto, di non danneggiare l’ambiente, di utilizzare poca energia fossile, di essere sostenibile nel tempo, di non insidiare la salute umana. Quando purtroppo la maggior parte delle nostre colture, anche purtroppo in Italia, portano a una grave diminuzione della fertilità del suolo, all’inquinamento delle falde (nella metà del territorio francese l’acqua delle falde non è potabile), e sono voraci di energia. Si può non essere d’accordo, si possono enfatizzarne i limiti e i difetti, si può essere ferocemente contrari, ma non si può negare, come fa Pascale, che essa sia una realtà seria, spesso molto interessante anche per le rese quantitative e per i redditi che assicura (essendo i prezzi maggiori). E perché prendersela con tale astio con i suoi sostenitori? Tra loro ci sarà certo qualche infatuato, ma la maggior parte sono persone sensate, che studiano e si informano, che reputano importante impegnarsi di persona. Sappiamo bene che senza l’impegno di tutti la battaglia per l’ambiente è persa.

Secondo Pascale, questa è la sua seconda filippica, l’agricoltura italiana sarebbe frenata da una posizione oscurantista, a suo dire dovuta alla sinistra (lui stesso però ci dice che anche i ministri di destra hanno avuto le stesse posizioni), nei confronti degli organismi geneticamente modificati. Secondo lui, fa molti esempi, i singoli gravi problemi che incontrano tante colture italiane, potrebbero essere risolti utilizzando piante modificate, se non ci fosse appunto questa medioevale opposizione. Sembra ignorare che le magagne che esemplifica sono purtroppo una costante delle attuali forme superintensive di coltivazione in frutticoltura e orticoltura (come anche nell’allevamento): risoltane una con moltissima fatica (e spesa), ne salta subito fuori un’altra, in genere più grave. E certo sarebbe bello poter venircene fuori solo con l’ingegneria genetica. Ma è un mito. Nella maggior parte dei casi le piante geneticamente modificate hanno dimostrato di parare parzialmente il problema per il quale sono state concepite, poi in genere gli svantaggi cominciano a superare i vantaggi. In molti casi lo scacco è stato totale. Questi sono i fatti ad oggi, anche se certo in futuro ci saranno dei risultati migliori, che tutti noi auspichiamo. E il loro impiego implica rischi di vario tipo e gravità, che purtroppo non sono ubbie della sinistra italiana (ma quale?), sono purtroppo realissimi, come dimostrano tanti studi. Non per niente l’Unione Europea, che Pascale non cita mai, e che condiziona le nostre scelte, ha optato una linea molto prudente, il cosiddetto “principio di precauzione”.

A dispetto del condivisibilissimo appello alla ragione contenuto nel capitoletto conclusivo, il testo di Pascale è un concentrato di pregiudizi, imprecisioni (spesso imbarazzanti), storture e omissioni. Certo, nell’introduzione mette le mani davanti, ci avvisa che lui non è uno specialista, parla da scrittore. Ma appunto questa sua posizione distanziata dovrebbe permettergli di aprirci a prospettive più ampie e più profonde. E invece le sue argomentazioni si servono della retorica stucchevole di chi solo contro tutti declama il vero, e sfruttano l’analoga emotiva parzialità, la stessa tendenziosità, che depreca nei suoi avversari. Conscio forse della propria debolezza, lancia a più riprese un appello a fidarsi “di chi ne sa più di me”. L’impresentabile bibliografia, composta di sette misere e disparate voci, non rappresenta certo un aiuto per chi volesse approfondire l’argomento.

[questo testo è apparso – in forma decurtata – su “Alias” del 10.06.2012]

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32 Commenti

  1. Trovo una sola parola: matti. Questi sono matti: come quei “professori” che pubblicavano studi sul buco nell’ozono, a loro dire inesistente. Sono dei matti, mi vengono in mente quei matti dei primi anni Settanta che si erano esaltati sulla iper-tecnologia, per cui sognavano un mondo dove nessuno lavorava perché a tutto pensavano le macchine. Ma erano in buona fede in fondo, erano per così dire dei matti-bambini; questi invece sono dei matti decrepiti, viva l’industria, gli ecologisti vogliono solo le candele, siamo a questo livello. E sono pure in mala fede. La critica che faccio all’agricolutura biologica è sui prezzi. Troppo alti, e c’è una speculazione inaccettabile. Ho fatto parte di un gas (gruppo di acquisto solidale), compravamo prodotti biologici direttamente dagli agricoltori. Gli stessi prodotti (degli stessi produttori), venivano venduti in un supermarket del biologico a prezzi triplicati. In Germania e Inghilterra l’agricoltura biologica, molto diffusa (hanno qualcosa da dire questi matti sulla situazione del bio degli altri paesi?), ha prezzi inferiori a quelli dell’Italia.

  2. Ho profundo rispetto per chi lavora la terra e protegge la pianeta. il futuro è nell’ecologia, nel rispetto della natura. In Provenza ho la fortuna di trovare frutti bellissimi della terra in produzione locale. Ho disertato supermarket. Provo piacere quando ritrovo il gusto della mia infanzia in una fragola, un pomodoro, una ciliegie.

  3. Credo che il problema, se vogliamo considerarlo un problema, sia generato da un’approssimazione che Antonio Pascale stesso confessa quando afferma di non parlare da esperto ma da scrittore. Ogni persona pratica ha gudagnato la consapevolezza che discernere è una funzione che necessita almeno di un setaccio (culturale? Forma mentale?) e se sono due di differente spessore di vaglio, posti con il più spesso in alto rispetto quello più fine, il discernimento svela ancora più differenze tra i semi. Parlare di biologico vuole dire tutto e nulla, è un nome generico, così come si può dire maschio, femmina, giallo,viola o fortuna e sventura. Esistono molteplici aspetti del biologico, così come ne esistono molteplici dell’agricoltura che chiamiamo tradizionale (quando in realtà la sua tradizione inizia con Liebig nella seconda metà dell’800) Fatta questa premessa arrivo a dire che, da scrittore che si è dedicato all’agricoltura biologica a tempo pieno da circa sette anni, comprendo la posizione di Antonio Pascale così come comprendo anche le ragioni che l’hanno prodotta. Come prima cosa è vero che alcuni coltivatori biologici sono fanatici, esaltati e, a volte, socialmente pericolosi, soprattutto quando usano troppo l’immaginazione e poco la vanga. Così come sono fanatici e socialmente pericolosi anche i coltivatori ordinari, a volte, soprattutto quando usano troppo la chimica e poco la testa. Io ho scelto di coltivare biologico, e nella mia azienda non sono presenti sostanze di sintesi, neppure il verderame. Neppure sementi OGM, questo non perché io abbia una repulsione specifica per gli OGM, o i prodotti prima citati, semplicemente non ho bisogno dei loro servigi. Quando posso recupero varietà antiche e conservo i semi, come faceva mio nonno. C’è da dire che la mia azienda è in zona collinare montana, ed è costituita da soli sette ettari, in pianura la tentazione di fare monocolture estensivo intensive posso comprendere che sia forte, ma fatta eccezione per qualche artista, qualche agronomo, molti consorzi e centri mercato dell’ortofrutta, che possono godere nel vedere i campi sconfinati di grano, mais, spinacio, barbabietole, io amo la biodiversità; così come amo la diversità e il confronto. Sono per la consociazione così come auspico la convivenza e il dialogo. Queste righe vogliono essere un invito ad Antonio, se ne ha voglia, per approfondire insieme un ragionamento in un dialogo.

  4. scusa Ettore, ma leggendo il tuo intervento mi sorge il dubbio che tu non abbia letto il libretto di Pascale (o forse mi sbaglio?); perchè naturalmente le sue posizioni sono più che legittime: il problema mi sembra piuttosto la povertà e la faziosità delle sue argomentazioni, che mi hanno davvero colpito (al punto che ho avuto difficoltà a scrivere questo pezzo, tante erano le inesattezze o anche vere e proprie falsità delle quali avrei voluto parlare); io del libro parlo, non delle posizioni in sé: come ribadisce sempre anche il nostro Andrea Inglese, non si può discutere di un libro senza averlo letto;

    casualmente dopo aver scritto il pezzo sono incappato in libreria in un ottimo e recente libro sull’agricoltura biologica (“La bio entre business et projet de societé”, a cura di P. Baqué), dove molti problemi sono invece enunciati e affrontati in modo molto serio (come suggerisci tu stesso la questione è complessa ci sono molte forme di biologico …); certo, l’autore non è uno specialista della questione (ma se non lo è una persona che lavora da vent’anni per il ministero dell’agricoltura, chi lo è?), come del resto non lo sono nemmeno io, ma questo può essere una scusante per degli enunciati inesatti e/o faziosi?; non lo credo proprio; personalmente sono sempre molto interessato – come del resto mi sembra lo sia NI – agli sguardi dei non specialisti; però appunto devono apportare qualcosa, e alzare il livello del dibattito, non abbassarlo; e a dirla tutta la povertà/arroganza delle argomentazioni di Pascale mi sembrano purtroppo sintomatiche della situazione italiana, dove ogni discussione – spesso appunto attraverso”l’autorevolezza” di personaggi mediatici, che sovente usano l’arma del coinvolgimento passionale – tende a essere ricondotta a un basso livello giornalistico, e chi ne sa – c’è sempre – non ha voce; staremmo freschi se tutti i testi di Chiarelettere, che appunto mi sembra cerchi di contrastare questa tendenza, fossero di questo tenore!;

  5. Non ho letto il testo in questione ma ho letto diverse cose di Pascale soprattutto in tema di agricoltura e scienza e non mi sembra assolutamente un fanatico (anzi) e nemmeno un ignorante, ripeto però che non ho letto il volume in questione ma lo farò.
    Sul tema OGM sono completamente d’accordo con lui: lasciamo sperimentare in maniera controllata e poi facciamo decidere il consumatore (o deve sempre esserci qualcuno più “esperto” che deve scegliere per noi?). Mi sembra che per il biologico sia lo stesso: reputo il biologico migliore? Allora sono disposto a spendere di più. Non lo credo? Scelgo il convenzionale.
    Attualmente questa possibilità ce l’abbiamo per il biologico per gli OGM no.
    A mio avviso noi ragioniamo sempre da occidentali con la pancia piena e, dal mio punto di vista, il grosso problema del biologico (non sempre e ovunque, sia ben chiaro) sono le rese; forse a voi 10-20% in meno sembrano nulla (magari fate lo stesso ragionamento con il vostro stipendio) ma per uno che è vicino alla soglia della fame la differenza è enorme.
    Consiglio la lettura del seguente articolo pubblicato su nature:
    http://www.nature.com/nature/journal/vaop/ncurrent/full/nature11069.htm
    che non è sicuramente catastrofista ma mette alcuni paletti sul biologico “tutto e subito”.
    Una domanda: ma la maglietta con cotone indiano che abbiamo addosso con cosa è fatta? Oppure quel buon prosciutto DOP di Parma?

    • sulla necessità della ricerca, è chiaro che le potenzialità sono enormi, siamo d’accordo; e la tua posizione – che per fortuna non è quella dell’Europa, né quella di molti paesi europei, a cominciare dall’Italia, che stanno applicando in maniera restrittiva le consegne europee (vedi il caso del mais) – è perfettamente legittima; ma si può scrivere in maniera seria delle piante modificate – come fa Pascale – senza accennare minimamente agli scacchi (in primo luogo quello del cotone Bt) e ai rischi, se non fosse altro per relativizzarli e sminuirli? si possono mettere avanti solo gli ipotetici miracolosi vantaggi?; si può essere così unilaterali, a suon di omissioni e approssimazioni e silenzi?; io credo davvero che non sia nè onesto nè serio; e mi immagino molto male che in un altro stato dell’europa occidentale un intellettuale potrebbe farlo senza provocare una valanga di reazioni; perchè invece da noi èpossibile?
      ma ripeto, non metto in discussione la posizione in sé, e ben venga – davvero – che qualcuno si faccia carico di sostenerla; né metto in discussione l’autore, che è un bravo e onesto scrittore; parlo di questo testo;

      dall’articolo che citi, come da altri, risulta che le rese del biologico sono dello stesso ordine di grandezza, anche se in generale un po’ inferiori, a quelle dell’agricoltura industriale; il che è miracoloso, sapendo che gli input energetici sono invece di un ordine di grandezza nettamente diverso, e spesso ridottissimi; se nel conto computiamo anche i costi ambientali della seconda, e le perdità di fertilità che induce (= la sua non sostenibilità nel tempo), le differenze anche proprio strettamente economiche si riducono ancora, o anche le posizioni si invertono; e in realtà tutti gli organismi e gli esperti che si occupano di agricultura a livello mondiale, per paradossale che possa sembrare (e proprio ai nostri occhi occidentali di cui parli,perchè la nostra idea di agricoltura è quella, anche se in realtà infinitamente minoritaria sia in termini di superfici che di bocche sfamate) è con l’agricoltura tradizionale (in particolare le policolture, l’esatto opposto della nostra idea di agricoltura; si veda: MALEZIEU, GRIFFON, BALDY, DUPRIEZ- DUFUMIER-OZIER-LAFONTINE- TRENBAH- de RAVIGNAN- VALET..) che possiamo sperare di nutrire i 9.000.000.000 di persone che saremo tra qualche decennio; in realtà nel corso del secolo passato l’agronomia è partita in quarta a lottare contro gli ecosistemi: per buona pace di Pascale dovrà in futuro – se vogliamo sopravvivere, e in quadro di minori risorse energetiche – fare marcia indietro; anche proprio rispolverando quelle pratiche che suo nonno agricoltore povero conosceva bene, e che lui considera medioevali;

        • sullo stesso sito trovate anche questo articolo di Baqué, che in poche parole illustra le 2 facce dell’agricoltura biologica, quella più battuta adesso, i cui prodotti servono per lo più per soddisfare le esigenze di clienti “esigenti” di alcuni paesi ricchi, e quella che potrebbe invece diventare una soluzione per nutrire l’umanità in un contesto di minori disponibilità energetiche e mirando alla ineludibile sostenibilità delle pratiche agronomiche impiegate:

          Le Bio est-il toujours la solution ?
          « La bio peut-elle nourrir la planète ? Pour répondre à cette question, il faut savoir de quelle agriculture biologique il s’agit. La bio s’est considérablement développée ces dernières années. De 1999 à 2008, la surface mondiale cultivée en bio a été multipliée par 3,3, pour atteindre désormais 35 millions d’hectares. Il faut relativiser ce chiffre. Tout d’abord, les deux tiers des surfaces mondiales certifiées bios sont des prairies. Ensuite, le fort développement de l’agriculture bio se produit dans des zones comme l’Amérique latine, l’Asie, l’Afrique ou des pays européens comme l’Espagne, l’Italie ou la Roumanie, qui ne sont pas, ou très peu, consommateurs de produits certifiés bio. Leurs productions sont destinées à nourrir les populations de quelques pays d’Europe (Allemagne, France, Royaume-Uni, Suisse…) et d’Amérique du Nord. La production d’une partie de plus en plus importante de l’alimentation « certifiée » bio dans les pays pauvres ou émergents est avant tout destinée à augmenter les exportations et le commerce international, source d’énormes profits financiers.
          Cette bio a été encouragée par les groupes de la grande distribution et, dans leur sillage, par les puissantes coopératives agricoles et l’industrie agroalimentaire, qui ont investi un marché devenu « porteur ». Leur recherche de produits et de matières premières alimentaires disponibles en grande quantité, à moindre coût et en toute saison, a stimulé le développement dans les pays du Sud d’agricultures bios intensives basées sur la monoculture, l’exportation, la concurrence, la spoliation des terres et l’exploitation de la main-d’œuvre. Elle reproduit le modèle économique dominant : les producteurs du Sud sont au service exclusif des consommateurs du Nord. Cette bio-là n’est pas au service de la souveraineté alimentaire, définie par la Via Campesina comme étant « le droit de chaque nation de maintenir et d’élaborer sa propre capacité de produire ses propres aliments de base dans le respect de la diversité productive et culturelle ».
          Une autre bio, porteuse d’autres valeurs que celles du marché, de la concurrence et du profit, peut prétendre un jour nourrir la planète. Cette bio-là fait appel à des pratiques agricoles qui ont existé en Europe, et qui continuent à exister ailleurs, qui sont héritières de millénaires de cultures paysannes fondées sur le respect de la nature, la connaissance des sols et des plantes, la préservation des semences, une certaine sobriété et une certaine autonomie… Ces savoir-faire, qui eux-mêmes évoluent et s’améliorent, sont à l’opposé des méthodes de l’agriculture industrielle.
          Ainsi comprise, l’agriculture biologique a tous les attributs d’un puissant outil libérateur, structurant et efficace pour une autre relation entre l’homme et la nature, harmonieuse et non plus destructrice. Elle exige de prendre en compte la justice sociale dans la répartition de la terre, en tant que bien commun, et dans l’accès aux moyens de production. Elle est donc appelée à se rapprocher d’une agroécologie en phase avec les mouvements paysans, telle que défendue par Olivier De Schutter, rapporteur spécial des Nations unies sur le droit à l’alimentation.
          Cette agroécologie peut être une réponse aux défis alimentaires majeurs de la planète. Selon Olivier De Schutter, elle est une composante essentielle du droit à l’alimentation et elle pourra doubler la production alimentaire de régions entières si les États s’engagent rapidement à en faire la promotion. Elle devra garantir une nourriture pour tous, accroître les revenus des paysans et ne pas compromettre la capacité de la terre à satisfaire les besoins futurs.
          Philippe Baqué
          Politis, 08/03/12

          • e visto che ci siamo:

            su questo sito: http://organicisbeautiful.wordpress.com/2011/09/24/agroecology-olivier-de-schutter/
            si trova una sintetica definizione (con la possibilità di accedere a una presentazione in PowerPoint) della “agroecologia” (che per molti versi si può considerare un sinonimo di agricolura biologica = “organic farming”) di Olivier De Schutter, Segretario Generale dell’ONU per il diritto al cibo, citato nell’articolo precedente:

            Agroecology: Olivier De Schutter. Learn more with the Powerpoint
            Posted on September 24, 2011

            There are many words to describe organic agriculture. Agro-ecology is the concept used by Olivier De Schutter, the United Nations Special Rapporteur on the Right to Food. Since 2008 the professor has taken up the mandate in the U.N. to promote the full realization of the right to food. With great interest I have followed the publications, that always provide insightful overviews on topics such as seed policies, the role of agribusiness and agro-ecology. Throughout the publications Mister De Schutter seeks to find ways to ensure right to food and support smallholder farmers; the approach of agroecology is the guiding tool to reach the full goal of socio-economic and environmental sustainability.

            How is it defined? ‘Agroecology is both a science and a set of practices. It was created by the convergence of two scientific disciplines: agronomy and ecology. As a science,
            agroecology is the “application of ecological science to the study, design and management
            of sustainable agroecosystems.” As a set of agricultural practices, agroecology seeks ways to enhance agricultural systems by mimicking natural processes, thus creating beneficial biological interactions and synergies among the components of the agroecosystem. It provides the most favourable soil conditions for plant growth, particularly by managing organic matter and by raising soil biotic activity.’ (Source 08/03/2011: “Agroecology and the Right to Food”, Report presented at the 16th Session of the United Nations Human Rights Council [A/HRC/16/49] p. 6 )

            This year, with two other students I have prepared a power point presentation that includes the key points of his publication “Agroecology and the Right to Food” You can download the presentation here: Presentation Small is beautifulFinal

            Needless to say that I admire the work of this man…

  6. Ma come mai uno scrittore che afferma di non sapere un cazzo sull’argomento, di quell’argomento dovrebbe scriverne ??
    Mi sfiìugge l’urgenza …
    Pascale lavora al Ministero della Politiche Agricole ?!
    E che ci fa lì?

    Sartori, era proprio necessario scrivere di questo insensato libretto?

  7. Giacomo, non ho letto questo libro di Pascale, ma rimedierò presto, ho però avuto occasione di conversare con lui, almeno un paio di volte, dell’argomento in questione. D’altra parte ne ha parlato anche in altri suoi libri ma questo può non significare nulla, perché dopo quanto mi hai scritto in risposta abbiamo una sola possibilità per continuare una conversazione. Quindi aspettiamo che mi arrivi il libro per proseguire. Quello che voglio aggiungere però, e lo voglio fare in senso ampio, è che il mondo del biologico e del naturale è veramente pieno di gente fuori di testa, esaltata e spesso aggressiva. Si sentono, in modo specifico i peggiori, dei paladini della terra, dei rivoluzionari del naturale, poi inquinano in un infinità di modi che neppure immaginano. Prima di potersi permettere di accusare in modo categorico qualcuno o di attaccarlo ( ripeto: da una parte e dall’altra) credo sia necessaria un’integrità di visione e di comportamento che pochi si possono permettere. Io non mi sogno di dare del folle a Pascale, anche perché interpreto la sua intenzione come provocatoria, e, tutto sommato, anche molto coraggiosa. Forse bisogna ammettere che c’è troppa ipocrisia, da una parte e dall’altra della barricata, credo che Pascale, lo scrittore, l’intellettuale, abbia voluto compiere un atto forzato di non ipocrisia.

  8. Quello che non capisco (e non avendo anch’io letto il libro dovrei tacere) è perché Antonio Pascale, agronomo di formazione, senta il bisogno pasoliniano di dire che parla da scrittore. Lo dico davvero senza malizia.

    • in una pagina piuttosto confusa – purtroppo ora non ho qui il testo per citarla – Pascale tira fuori anche Pasolini, mettendolo nel sacco dei “passatisti”, dei nostagici, della sinistra italiana nemica del progresso e degli OGM

      • ma a parte questo nemmeno io lo capisco; o meglio, mi sembra faccia parte dell’impianto retorico del testo, che appunto punta più che sulla verve dell’emozione e sull’energia polemica – una voce narrante addetta al mestiere/specialista della materia non potrebbe permetterselo – che sulla solidità degli argomenti;

        • il vero problema è che gli OGM non hanno “argomenti solidi”.

          – gli insetti, così come le piante, maturano resistenza genetica;
          – le piante coltivate (colza OGM) diventano infestanti di altre coltivazioni;
          – gli alimenti non sono più gli stessi (il mais OGM ha un maggior contenuto di lignina del mais normale, il pomodoro arricchito di vitamina A ha un minor contenuto di licopene);
          – gli agricoltori, mediante contratti di soccida, diventano “manovali” di colui che ha il brevetto della pianta;
          – grazie all’apomissia inducibile chimicamente il proprietario del brevetto diventa automaticamente proprietario del cibo…..

          Ma, forse, pascale queste cose non le conosce….

  9. Bè oddio avrà pur scritto qualcosa..
    certo! il libretto di cui vien da dire peste e corna è un primo passo …
    mmmh…l’inizio è claudicante per tutti…
    Io comunque lo incoraggerei a proseguire sulla strada della scrittura…
    sempre meglio che averlo come agronomo che lavora al Ministero italiano della “Politiche Agricole”

  10. Certo che, se questi sono gli alti livelli auspicati, confrontati con la presunta povertà e faziosità delle argometazioni portate da Antonio Pascale, allora siamo messi bene. Non c’è bisogno di avere letto il libro per riconoscere nei commenti l’automatismo dinamico dei lapidatori dozzinali.
    Spero che la libreria sia lesta nel farmi avere il libro.
    Gianni, potrebbe essere che Pascale, creando un collegamento al suo interpretare lo scrittore, cioè stabilendo il campo di considerazione, non voglia parlare da agronomo, per evitare un’autorevolezza di competenza che rischierebbe di delegare i fatti esposti a una presunta oggettività, che li paralizzerebbe nel vicolo cieco delle gerarchie culturali che hanno limite nell’ipse dixit?
    Per ora ho letto del libro solo quello che si trova in rete e dell’introduzione mi sento di dire questo: l’autore rinuncia alla sua autorità di funzionario e agronomo, per indossare l’opinabilità letteraria. Sceglie la via difficile e contestabile, per compiere un’iperbole. A me sembra un’intenzione eroica, di una forma retorica, purtroppo, rara.

    • ..ma quale opinabilità letteraria, quale iperbole, quale coraggio e quale retorica rara…

      a me Pascale mi sembra più un Wile Coyote che si traveste da tronco d’almero per intralciare la corsa del Roadrunner BeepBeep…

      …sappiamo tutti come va a finire.

  11. Vedi, Ettore, quando pubblicai “Metropoli per principianti”, sapevo di scrivere “da scrittore”, cose “di architetti”. Ma non ho mai fatto “un passo indietro”. Non ho mai negato le mie competenze di architetto. Ho parlato di quegli argomenti usando una lingua che fosse “per tutti”, non esoterica, ma mai nascondendomi dietro il fatto che chi parlava era uno scrittore, non un architetto. Non è per creare un principio di autorità ma è proprio per evitare ambiguità: gli scrittori non è che possono parlare di tutto in quanto scrittori. Non è una categoria superiore. Altrimenti siamo al profetico pasoliniano.
    E dato che Pascale ha le competenze del caso non capisco questo suo voler mettere le mani avanti. Sembra quasi (ma insisto non l’ho letto e sto dicendo cose più che smentibili) dire: ho avuto delle intuizioni, da scrittore; non è necessario che siano scientificamente provate. Non so, insomma. Mi tocca leggerlo. (e che tra l’altro non è affatto un problema: Pascale scrive bene. Lo scrittore lo sa fare.)
    [ecco: è che contesto l’autorevolezza dello scrittore in sé. Avrei preferito mi avesse parlato da “cittadino”. ma è un lungo discorso…]

  12. Scusate, invece di farsi pippe sul “perchè Pascale ha scritto da scrittore e non da agonomo” non è meglio andare a chiederlo direttamente a lui? Per quanto mi riguarda è una differenza che non sussiste, anche perchè come si può decidere di essere una cosa anzichè un’altra? Ma è evidente che esistono persone con una sensibilità diversa che attribuiscono alle parole un concetto specifico. Può essere che Pascale attribuisca al ruolo di scrittore la sola funzione divulgativa e nulla più? Ma appunto, non è meglio chiederlo a lui direttamente? Non si fa prima e si evitano speculazioni superflue?

    • Hamlet, non preoccuparti, nessuna pippa mentale… stanotte ho dormito tranquillo. E stai certo che appena ne avrò l’occasione glielo chiederò.

  13. Scusate ma una terza via no???Io questa primavera per la prima volta nella mia vita, ho avuto la possibilità, e mi sono fatto un piccolo orto, e che vi devo dire raccolgo e magno meglio di prima!
    Senza rame e senza scontrini salati!

    • vedi, sei d’accordo anche tu con Olivier De Schutter dell’ONU: la sua presentazione linkata più sopra si intitola “Small is beautiful”;
      ma appunto – scherzi a parte – è incredibile quanto la visione di chi conosce davvero l’agricoltura mondiale, e dei suoi risvolti riguardo alla povertà e alla fame, diverga da quella degli economisti e dei genetisti – che spesso nulla sanno di agricoltura, e credono nelle soluzioni miracolose, ahimé inesistenti – e anche dalla percezione del nostro “grande pubblico”;

  14. “ma si può scrivere in maniera seria delle piante modificate – come fa Pascale – senza accennare minimamente agli scacchi (in primo luogo quello del cotone Bt) e ai rischi, se non fosse altro per relativizzarli e sminuirli?”

    Giacomo, scusa la mia ignoranza, ma che sarebbe il cotone Bt?

    Cambiando discorso, dal mio supermercato la lattuga bio costa 1,71 volte la lattuga ordinaria. Se i costi di produzione per m2 fossero uguali per lattuga bio e lattuga ordinaria, ciò corrisponderebbe ad una resa del 58% della lattuga bio rispetto a quella ordinaria, leggermente inferiore alle stime dell’articolo di Nature indicato sopra.

    • sulla ascesa e sulle disavventure del cotone “Bt” (= in cui sono stati trasmigrati dei geni che derivano da un batterio, appunto il Bacillus thuringensis, che producono tossine che avrebbero dovuto risolvere per sempre il problema di un insetto nocivo) con i suoi risvolti ecologici/economici (la resistenza alle tossine che è presto spuntata negli insetti), sociali (l’indebitamento dei contadini indiani, strozzinati dalle ditte che vendono i pacchetti di sementi e concimi etc., con le decine di migliaia di casi di suicidio), e i risvolti ecotossicologici (l’effetto delle tossine su animali non nocivi) trovi moltissimo in rete;

      il problema dei prezzi è molto complesso; tieni comunque che i prezzi relativamente bassi (in realtà alti) al dettaglio di molti prodotti agricoli sono il frutto di un vero e proprio strozzinaggio a spese degli agricoltori (le grandi catene hanno politiche molto aggressive) e di una distruzione dell’ambiente; il biologico ha rese quantitative abbiamo detto analoghe, ma spesso costi di produzione più alti, per vari motivi: aziende più piccole, più manodopera, minor sfruttamento della stessa (non è il caso di molti prodotti biologici che vengono da aziende industriali in Marocco o Spagna etc., i cui prezzi relativamente bassi vanno di pari passo a una schiavizzazione (non esagero) dei lavoratori) … su cui si aggiungono in effetti margini più alti della distribuzione;

      tieni presente che la lattuga è uno dei prodotti in cui si trovano più residui di pesticidi (Pascale preferirebbe chiamarli agrofarmaci: non cambia molto); io ti consiglio caldamente di pagarla 1,71 volte di più, e magari mangiarne un po’ meno (tieni presente che la lattuga biologica ha più sostanza secca: te ne accorgi dalla consistenza più dura) e di berci dietro un bicchiere d’acqua, e buttarne via meno quando la prepari (cosa che con i prodotti biologici è prassi); non vorrei che poi spendessi di più per la chemio :)))

      • Devo ammettere che il cotone Bt l’avevo già gugolato, ma mi sono scontrata con il fatto che si trova di tutto ed il contrario di tutto, e da profana è difficile capire che cosa sia indipendente e attendibile e cosa no — insomma chi è prezzolato da Monsanto e chi no. Se tu hai già fatto un po’ di screening, magari puoi indicare qualche link.

        Per quanto riguarda i prezzi, ma guarda che un moltiplicatore di 1,71 non è affatto male, ed è un prezzo che sono ben contenta di pagare! A parità di costo per metro quadro, ad una resa dell’80% del bio rispetto all’ordinario corrisponde un moltiplicatore di 1,25, ad una resa del 70% un moltiplicatore 1,43 e così via. Come ho già detto il moltiplicatore 1,71 corrisponderebbe ad una resa di circa il 58%, inferiore sì alle stime di Nature ma non poi di così tanto. D’altro canto se supponiamo invece una resa diciamo del 75%, ciò corrisponderebbe, sempre a parità di costi, un moltiplicatore di 1,33. Per arrivare al 1,71 bisogna avere un costo di produzione bio 28,25% maggiore a quello ordinario (sempre per metro quadro), che non è affatto male. (Verifica: 1,2825 / 0,75 = 1,71).

        In altre parole un moltiplicatore di 1,71 potrebbe essere giustificato sia da
        1) parità di costi, e resa del 58%; che da
        2) costi superiori del 28% e resa del 75%;
        dove i costi sono sempre riferiti a metro quadro e la resa è quella bio rispetto a quella ordinaria. Tutte e due le possibilità — ed i vari gradi intermedi — sono perfettamente ragionevoli.

        Tieni conto che ho scelto l’esempio della lattuga anche perché sia quella bio che quella ordinaria in vendita nel mio supermercato hanno la stesso paese di provenienza, la Svizzera nella fattispecie. Il che significa che le condizioni di lavoro o sfruttamento della manovalanza dovrebbero essere le stesse sia per la produzione bio che per quella ordinaria. Tieni conto anche che sia la lattuga bio che quella ordinaria in questione sono in vendita nello stesso supermercato, quindi il canale di distribuzione è lo stesso in tutti e due i casi. Per questi motivi mi sento di poter escludere differenze sociali e di distribuzione dalle cause del maggior prezzo della lattuga bio da quella ordinaria.

        Tutto ciò mi porta però ad un punto nell’articolo che mi lascia un po’ perplessa, dove sottolinei come l’agricoltura bio utilizzi poca energia fossile, e quella ordinaria ne sia invece vorace. Ciò dovrebbe abbassare i costi per metro quadro, tanto più quanto maggiore è la differenza di consumo energetico. Il fatto che i costi per metro quadro siano tendenzialmente maggiori, farebbe pensare o che gli altri fattori di costo sono così svantaggiosi da compensare ogni guadagno energetico, o che la differenza non sia poi così grande.

        Comunque, i fattori di costo per la produzione di lattuga dovrebbero essere

        i) Sementi
        ii) Concimi
        iii) Pesticidi (ovviamente non per il bio)
        iu) Gasolio per i trattori
        u) Usura di trattori e strumenti vari
        ui) Irrigazione
        uii) Manodopera

        Dimentico qualche cosa?

        ***

        “magari mangiarne un po’ meno (tieni presente che la lattuga biologica ha più sostanza secca: te ne accorgi dalla consistenza più dura) e di berci dietro un bicchiere d’acqua”

        Perché, tu di solito mangi senza bere??? ;-)

        • senz’altro mano a mano che l’energia fossile aumenterà di prezzo, i concimi chimici costeranno sempre di più (per fissare l’azoto atmosferico ci vuole molta energia, e non a caso la Russia e altri paesi produttori di gas producono anche i concimi azotati); ma appunto – sono la persona sbagliata per parlare di queste cose – ci sono sempre i costi che non rientrano in una mera contabilità aziendale o anche solo in un bilancio statale: i danni ambientali che l’agricoltura sta producendo, sempre più gravi, i danni sociali (l’agricoltura industriale di molti paesi del sud – per esempio il Brasile – affama e fa sloggiare i contadini, creando le enormi ondate migratorie verso le città, e tutti i problemi che ne conseguono) …;

          comunque tieni presente che le forme di agricoltura tradizionale un minimo migliorate e con un minimo di strumenti – e che per molti versi sono spesso assimilabili all’agricoltura biologica e alla agroecologia, le rese sono molto più alte rispetto a quelle della agricoltura industriale (= sono forme intensive, pur non danneggiando l’ambiente); Pascale sembra ignorarlo comoletamente, ma per esempio il libro citato sopra di Dufumier, uno dei massimi esperti in circolazione, queste cose le spiega nei dettagli; sono forme che danno da mangiare alla gente e sradicano la fame, anche se “economicamente” considerate da molti governi non interessanti (il Brasile, che vuole esportare prodotti agricoli);

          ps: il bicchiere d’acqua serviva a compensare – almeno retoricamente – l’acqua in meno che il tuo organismo assimilava mangiando la mela biologica, appunto con più sostanza secca (= meno acqua)

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giacomo sartori
giacomo sartori
Sono agronomo, specializzato in scienza del suolo, e vivo a Parigi. Ho lavorato in vari paesi nell’ambito della cooperazione internazionale, e mi occupo da molti anni di suoli e paesaggi alpini, a cavallo tra ricerca e cartografie/inventari. Ho pubblicato alcune raccolte di racconti, tra le quali Autismi (Miraggi, 2018) e Altri animali (Exorma, 2019), la raccolta di poesie Mater amena (Arcipelago Itaca, 2019), e i romanzi Tritolo (il Saggiatore, 1999), Anatomia della battaglia (Sironi, 2005), Sacrificio (Pequod, 2008; Italic, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011), Rogo (CartaCanta, 2015), Sono Dio (NN, 2016), Baco (Exorma, 2019) e Fisica delle separazioni (Exorma, 2022). Alcuni miei romanzi e testi brevi sono tradotti in francese, inglese, tedesco e olandese. Di recente è uscito Coltivare la natura (Kellermann, 2023), una raccolta di scritti sui rapporti tra agricoltura e ambiente, con prefazione di Carlo Petrini.
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