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Il Processo: Oscurare e Riproporre

di Mattia Paganelli

 

Alcune domande a proposito dal lavoro di Rossella Biscotti “Il Processo” (2010-2012), installazione sonora che presenta le registrazioni originali dei verbali del processo del 7 Aprile, esibita a Documenta 13 quest’estate. http://d13.documenta.de/#participants/participants/rossella-biscotti/

http://www.rossellabiscotti.com/ctr/site/news.php

Perché gli artisti italiani hanno bisogno di ricordare gli anni 70? E soprattutto perché hanno bisogno di farlo adesso? Tocca all’arte riconsiderare la storia d’Italia che il paese e la cultura ufficiale (o il discorso dell’informazione) hanno dimenticato o messo a tacere per un certo periodo? Tocca all’arte farsi carico di discutere quello che il discorso ufficiale della storia/politica non affronta? La responsabilità della cultura è anche questa, ma quello che mi incuriosisce è lo squilibrio tra l’assenza di questo dibattito in ambiti non culturali, diciamo quotidiani (informazione/media), e la sua migrazione nell’arte.
Dunque? Non buttiamoci a capofitto nell’accusa al discorso dei media come discorso del capitale, che ha vinto e schiacciato ogni altra cosa imponendo il silenzio del vincitore. Se l’arte si assume il ruolo della memoria abbandonato dal dibattito ufficiale è forse perché esiste una necessaria gerarchia cronologica che distingue tra il contenuto dei media e impegno culturale con gli eventi storici? E poi perché considerare i media il discorso privilegiato? In fondo il silenzio su quel periodo della storia italiana è cominciato ben prima dell’epoca del circo mediatico e del regime televisivo. Il problema è più sottile. La domanda va posta riguardo dal ‘modo’, alle scelte estetiche, di questo lavoro; da come tratta il suo soggetto.
Da un lato mi interrogo sul senso o valore artistico di una importazione lineare entro la cornice artistica, nemmeno una traduzione; dall’altro mi incuriosisce la logica di questo gesto estetico.
Forse bisogna cominciare a interrogarsi dalle date. Perché adesso in questi ultimissimi anni? (un altro esempio è il lavoro di Francesco Arena, nato nel ’78, riguardo l’omicidio di ‘Fausto Tinelli e Lorenzo “Iaio” Iannucci e l’appartamento di via Monte Nevoso, si veda  http://www.undo.net/it/mostra/117093 e anche http://www.peep-hole.org/index.php?/exhibitions/francesco-arena/).
È forse una moda? Una variante dell’ondata artisticamente superficiale di impegno politico che si incontra negli ultimi anni, o di una provocazione del ‘sensazionalismo’ facile che purtroppo si incontra spesso nell’arte contemporanea? O forse lo squallore sociale e culturale del berlusconesimo ha generato un rimbalzo? O si tratta invece di storia abbastanza lontana perché gli artisti vi possano attingere senza generare problemi, questioni che ormai possano toccarci davvero? In fondo per chi ha meno di 40 anni (come l’autore, anche nata 1978) gli ‘anni 70’ sono episodi avvenuti prima del suo tempo. Eppure la guerra che i genitori e i nonni della nostra generazione hanno vissuto ha lasciato un segno ben profondo anche in chi è nato dopo (come me più di 20 anni dopo). Più che mai questo è evidente oggi nel luglio del 2012 quando arrivando in Germania a visitare Documenta non posso fare a meno di pensare quello che la Germania è stata in passato. Dunque, di nuovo, perché ora? Si tratta soltanto di un’appropriazione a distanza, o c’è di più? Se l’opera non è altro che una presentazione del fatto storico senza elaborazione, non posso fare a meno di chiedermi non solo a cosa possa servire, ma soprattutto quale valore artistico abbia. Ovvero, quello che mi incuriosisce e interessa qui è in realtà capire il meccanismo di quest’opera, articolare quale sia la logica che rende questo lavoro interessante e valido (non si tratta qui delle analisi di un critico, ma delle domande di un artista a sua volta interessato ai contenuti e soprattutto hai modi politici di fare arte). Il Processo si basa su un gesto di importazione all’interno della cornice artistica di un evento storico. Si tratta dunque di un’operazione che concentra l’attenzione, mette a fuoco, in un modo che l’analisi storica lineare forse non potrebbe fare o comunque non ha ancora fatto? Ma se l’intenzione dell’autore è solo di quella di ‘riproporre’ quello che è stato ‘oscurato’ (vedi intervista a Biscotti, http://www.luxflux.org/n41/artintheory01.htm) di nuovo mi chiedo dove si trovi il momento artistico di questa operazione, quale sia la sua logica interna; se l’importazione diretta, non mediata, entro la cornice di attenzione dell’arte ne faccia una buona opera, se sia sufficiente a farne una buona opera (in fondo anche i ‘calchi’ di cemento dell’aula bunker in cui si è svolto il processo che accompagnano le registrazioni rientrano nella presentazione diretta dei fatti). Biscotti parla di un lavoro di ricerca e ricollocazione: “raccolgo materiali, interviste, documentazione, e poi porto tutto all’interno dell’opera in una misura esatta, in maniera tale che non ci sia nessun’altra combinazione possibile. Nonostante questa precisione nella formalizzazione del lavoro, lascio sempre uno spazio immenso d’interpretazione ed esperienza per lo spettatore. Mi interessa creare un’esperienza che riporti tutto in gioco: la storia e il presente, l’arte, il documento, il tempo”.  http://www.luxflux.org/n41/artintheory01.htm
D’altro canto, se l’operazione artistica de il Processo si riduce all’importazione del materiale storico sul palco scenico dell’arte, il momento intuitivo di elaborazione e generazione di domande e significato è interamente concentrato in questa soglia infinitesimale. Tutto è ridotto alla natura effimera del “gesto artistico”, anche se questo ha comportato mesi di lavoro. Questo è il nodo interessante, la domanda che non si scioglie. Cosa accade nel passaggio apparentemente lineare da storia a arte che contiene tutto il valore dell’opera?
È, infatti, questa presentazione lineare che mi fa chiedere perché alcuni artisti contemporanei sembrino assumersi il ruolo di sociologi o di storici (a seconda delle culture in cui operano) e si interessino adesso a fatti lontani nel tempo; e che tipo di ruolo storico e sociale si propongano di svolgere; quali responsabilità vogliano assumersi con operazioni più simili alla ricerca e analisi che alla ‘produzione’ (a questo riguardo vale anche citare “The Battle of Orgrave”, la ri-attuazione degli scontri tra polizia e minatori gallesi avvenuti nel 1984, messa in scena da Jeremy Deller nel 2001).
Non mi si fraintenda, non invoco un ritorno a una pratica artistica esclusivamente formale, tutt’altro, proprio perché mi interessa il processo concettuale dell’arte mi interrogo sul meccanismo che rende questa operazione artistica. Più precisamente penso che l’elemento politico dell’arte sia proprio nei suoi modi di operare, più che negli argomenti/idee/discorsi che le fanno da materiale; che si giochi sul confine tra quello che è accettato e accettabile entro il perimetro arte e quello che ne è escluso. In altre parole, mi interrogo su come spesso l’arte contemporanea si comporti come teoria e non come pratica poetica, anche se pratica concettuale; come descriva, indichi e poi spieghi l’operazione compiuta, componga didascalie invece di rigenerare in modo proprio il significato che propone. Ovvero si comporti come linguaggio rappresentativo (metalinguaggio) e non come arte, la cui pratica in cui il materiale non è trasparente, non indica, ma è; e come tale produce un logica “site-specific” che non funziona secondo l’economia semantica propria del linguaggio.
Eppure, in questo caso sembra che il gesto di Biscotti mantenga il carattere di una pratica poetica autosufficiente, capace di conferire valore estetico all’importazione del fatto storico entro la cornice metaforica o reale dell’attenzione artistica. Infatti, a causa del silenzio della memoria pubblica, dello squilibrio tra l’attenzione dell’arte e il silenzio della storia questo gesto non sembra mai abbastanza esaustivo. È proprio questo che rende l’operazione interessante, in quanto mantiene aperto lo squilibrio e lo evidenzia. E proprio per questo Il Processo ha senso oggi e solo oggi, perché si nutre del silenzio accumulato. La distanza temporale è necessaria e costitutiva della sua logica. Il suo vero soggetto sono il silenzio e il tempo.

 

Postilla: Il Processo produce anche un altro effetto. Ascoltando le registrazioni emerge un’impossibilità di sancire la certezza legale di un collegamento di responsabilità tra il pensiero filosofico degli accusati e la pratica dei fatti (di qui la critica che fu mossa di “processo politico”). Un tentativo di ricomporre teoria e pratica in cui hanno fallito anche gli immensi edifici hegelo-marxiano che questo obbiettivo si prefiggevano. L’impossibilità cioè di tradurre quello che è intrinsecamente solo aperto all’interpretazione –la filosofia- in un “giudizio” certo e definitivo. Se questo fosse possibile, il pubblico ministero Calogero avrebbe d’un colpo risolto tutte le domande della filosofia occidentale. Il risultato è un paradosso logico in cui il tentativo di ridurre il discorso filosofico a una prova certa richiede al pensiero di svolgere il compito dell’evidenza dei fatti. Se non si trattasse di episodi drammatici, il paradosso sarebbe comico.

 

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