quello pane orzato del quale si satolleranno migliaia

di Antonio Sparzani

Il dantesco Convivio vuol essere, nelle sue intenzioni iniziali, una piccola enciclopedia dello scibile dell’epoca, Dante vuole farsi perdonare della, almeno apparente, leggerezza della Vita Nova («fervida e passionata, questa temperata e virile» ci avverte, contrapponendo a quella la presente opera), e delle Rime scritte in vita e in morte di Beatrice (e probabilmente di altre donne più o meno celate al pubblico sguardo) e intende anche mostrare a tutti quanto egli sia bravo e sapiente, e quanto sia dunque stato ingiusto l’esilio comminatogli nel 1302. L’opera però si ferma dopo il quarto trattato, malgrado Dante ne avesse previsti quattordici oltre al primo. Tranne questo, appunto, introduttivo, tutti sono scritti come commento a una canzone. Sarà, come dicono i commentatori, che già gli urgeva dentro la Commedia e non voleva perdere altro tempo.

Ma quello che io trovo davvero di grande lungimiranza, oltre che di notevole bellezza, è proprio il trattato introduttivo (integralmente leggibile ad esempio qui), nel quale Dante si sofferma a spiegare come e perché abbia deciso di scrivere tutta l’opera servendosi del volgare italiano, invece che del latino tipico di tutte le opere dotte dell’epoca, e che peraltro anch’egli usò per il De monarchia, per il De vulgari eloquentia e le altre cosiddette minori.

E il primo motivo che Dante adduce per la scelta linguistica è proprio quello di arrivare a far giungere la vera scienza a quante più persone possibile.

«E acciò che misericordia è madre di beneficio, sempre liberalmente coloro che sanno porgono de la loro buona ricchezza a li veri poveri, e sono quasi fonte vivo, de la cui acqua si refrigera la naturale sete che di sopra è nominata.»,

dove «li veri poveri» sono, s’intende, quelli che non sanno. Così che Dante si risolve a dar loro aiuto:

«Per che ora volendo loro apparecchiare, intendo fare un generale convivio di ciò ch’i’ ho loro mostrato, e di quello pane ch’è mestiere a così fatta vivanda, sanza lo quale da loro non potrebbe esser mangiata.»

Della metafora del pane e delle vivande è intriso tutto il Convivio ed è questa la caratteristica che lo rende così vivo e palpabilmente vicino a chi si dispone a partecipare al banchetto. E appunto di tale metafora si serve anche per parlare della lingua:

«Poi che purgato è questo pane da le macule accidentali, rimane ad escusare lui da una sustanziale, cioè da l’essere vulgare e non latino; che per similitudine dire si può di biado e non di frumento. E da ciò brievemente lo scusano tre ragioni, che mossero me ad eleggere innanzi questo che l’altro: l’una si muove da cautela di disconvenevole ordinazione; l’altra da prontezza di liberalitade; la terza da lo naturale amore a propria loquela.»

Dante è ben cosciente delle forti differenze tra le due scelte: «lo latino è perpetuo e non corruttibile, e lo volgare è non stabile e corruttibile», ma, argomenta, questo è proprio quello che lo rende più adatto alla scopo che egli si prefigge: illustrare e commentare delle canzoni, scritte in volgare e beninteso trarre da ciò insegnamenti generali.
Inoltre Dante è ben cosciente del mutamento linguistico cui è soggetto il volgare al tempo suo, come del resto in qualsiasi altro tempo da allora ad oggi, tanto che scrive:

«perché lo latino è perpetuo e non corruttibile, e lo volgare è non stabile e corruttibile. Onde vedemo ne le scritture antiche de le comedie e tragedie latine, che non si possono transmutare, quello medesimo che oggi avemo; che non avviene del volgare, lo quale a piacimento artificiato si transmuta. Onde vedemo ne le cittadi d’Italia, se bene volemo agguardare, da cinquanta anni in qua molti vocabuli essere spenti e nati e variati; onde se ’l picciol tempo così transmuta, molto più transmuta lo maggiore. Sì ch’io dico, che se coloro che partiron d’esta vita già sono mille anni tornassero a le loro cittadi, crederebbero la loro cittade essere occupata da gente strana, per la lingua da loro discordante.»

Ed è in questa mischia che Dante si vuole buttare: dopo qualche altra considerazione, insiste:

«mostrare intendo come ancora pronta liberalitate mi fece questo eleggere e l’altro lasciare. Puotesi adunque la pronta liberalitate in tre cose notare, le quali seguitano questo volgare, e lo latino non averebbero seguitato. La prima è dare a molti; la seconda è dare utili cose; la terza è, sanza essere domandato lo dono, dare quello.»

E questa terza modalità Dante la spiega proprio bene, in termini che non si possono che condividere:

«La terza cosa, ne la quale si può notare la pronta liberalitade, si è dare non domandato: acciò che ’l domandato è da una parte non vertù ma mercatantia, però che lo ricevitore compera, tutto che ’l datore non venda. Per che dice Seneca che “nulla cosa più cara si compera che quella dove i prieghi si spendono”. Onde acciò che nel dono sia pronta liberalitade e che essa si possa in esso notare, allora, s[e] conviene esser netto d’ogni atto di mercatantia, conviene esser lo dono non domandato.»

Già da queste poche citazioni avrete notato come l’argomentare di Dante sia serrato e proceda per terzetti di clausole: per giustificare un comportamento egli produce sistematicamente tre ragioni, e ognuna di queste si articola a sua volta in tre sottoclausole, e così via. Io ovviamente qui salto la maggior parte del testo, sperando comunque di riuscire anche così a convincervi della sua bellezza, e voglio solo aggiungere la spiegazione che Dante dà di quel «naturale amore a propria loquela», eccolo:

«l’ordine de la intera scusa [cioè di tutta l’argomentazione portata a giustificare la scelta del volgare] vuole ch’io mostri come a ciò mi mossi per lo naturale amore de la propria loquela; che è la terza e l’ultima ragione che a ciò mi mosse. Dico che lo naturale amore principalmente muove l’amatore a tre cose: l’una si è a magnificare l’amato; l’altra è ad esser geloso di quello; l’altra è a difendere lui, sì come ciascuno può vedere continuamente avvenire.» «E queste tre cose ― prosegue Dante ― mi fecero prendere lui, cioè lo nostro volgare, lo qual naturalmente e accidentalmente amo e ho amato.»

Dante prosegue a descrivere sia la malvagità di coloro che disprezzano il volgare loro (italiano) e tengono invece in pregio altri volgari, sia il suo particolare rapporto di amore e di amistade col volgare che avrebbe poi usato per la sua opera maggiore. Concludo semplicemente copiandovi qui la conclusione del primo trattato, conclusione che mi pare nulla abbia da invidiare ai passi più alti della Commedia:

«Così rivolgendo li occhi a dietro, e raccogliendo le ragioni prenotate, puotesi vedere questo pane, col quale si deono mangiare le infrascritte canzoni, essere sufficientemente purgato da le macule e da l’essere di biado; per che tempo è d’intendere a ministrare le vivande. Questo sarà quello pane orzato del quale si satolleranno migliaia, e a me ne soperchieranno le sporte piene. Questo sarà luce nuova, sole nuovo, lo quale surgerà là dove l’usato tramonterà, e darà lume a coloro che sono in tenebre e in oscuritade per lo usato sole che a loro non luce.»

[In latino l’orzo era hordeum, da una radice indoeuropea connessa al “macinare”, greco krithḗ, e sembra proprio sia stato il primo cereale a essere coltivato in area europea. La metafora dell’orzo si piega nella scrittura di Dante a rappresentare un che di prezioso e fondamentale, un succo della vita che di questa è sostegno e meraviglioso alimento.]

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Antonio Sparzani, vicentino di nascita, nato durante la guerra, dopo un ottimo liceo classico, una laurea in fisica a Pavia e successivo diploma di perfezionamento in fisica teorica, ha insegnato fisica per decenni all’Università di Milano. Negli ultimi anni il suo corso si chiamava Fondamenti della fisica e gli piaceva molto propinarlo agli studenti. Convintosi definitivamente che i saperi dell’uomo non vadano divisi, cerca da anni di riunire alcuni dei numerosi pezzetti nei quali tali saperi sono stati negli ultimi secoli orribilmente divisi. Soprattutto fisica e letteratura. Con questo fine in testa ha scritto Relatività, quante storie – un percorso scientifico-letterario tra relativo e assoluto (Bollati Boringhieri 2003) e ha poi curato, raggiunta l’età della pensione, con Giuliano Boccali, il volume Le virtù dell’inerzia (Bollati Boringhieri 2006). Ha curato due volumi del fisico Wolfgang Pauli, sempre per Bollati Boringhieri e ha poi tradotto e curato un saggio di Paul K. Feyerabend, Contro l’autonomia (Mimesis 2012). Ha quindi curato il voluminoso carteggio tra Wolfgang Pauli e Carl Gustav Jung (Moretti & Vitali 2016). È anche redattore del blog La poesia e lo spirito. Scrive poesie e raccontini quando non ne può fare a meno.
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