Su alcuni fotogrammi di Chris Marker. A partire da Lo sguardo e l’evento di Marco Dinoi

pubblicato il 31 luglio 2012 in ⇨ www.lavoroculturale.org

Come riprendere le donne di Bissau? Apparentemente, la funzione magica dell’occhio laggiù era contro di me.
[…]Nei mercati di Bissau e Capo Verde ritrovai l’uguaglianza dello sguardo… e un susseguirsi di visi così prossimi al rituale della seduzione.
La guardo.
Lei mi ha visto.
Lei sa che la guardo.
Lei mi offre il suo sguardo come se non fosse rivolto a me.
E alla fine il vero sguardo, diretto… che dura un 25esimo di secondo, il tempo di un’immagine.

[Chris Marker, Sans Soleil 1983]

 
Ieri, 30 luglio 2012, è scomparso ⇨ Chris Marker: regista, sceneggiatore, montatore, direttore della fotografia, produttore, fotografo. Per ricordarlo e approfondire il suo lavoro sulle e tra le immagini, vi proponiamo alcune pagine che ⇨ Marco Dinoi ha dedicato all’analisi dei suoi film nel libro ⇨ Lo sguardo e l’evento. I media, la memoria, il cinema (Le Lettere, 2008) 1.
 

Sans Soleil – La rarefazione dell’evento

[…] Chris Marker tenta con “l’immagine della felicità” in Sans soleil, una sequenza che mostra tre bambini islandesi fare un girotondo, e che la voce narrante dice di aver tentato di montare con altre sequenze senza mai riuscire a trovare quella che potesse accordarsi con la prima: «allora ho pensato di metterle una lunga coda nera, se non si vedrà la felicità, almeno si vedrà il nero».
 


 
[…] per la voce narrante – immagine sonora che in questo caso agisce quasi come una didascalia – quella era l’immagine della felicità, ma in relazione ad altre immagini non funziona come tale, allora, a partire dalla stessa voce, lo spettatore è invitato a compiere, per proprio conto, la medesima operazione di connessione in coincidenza dello schermo nero che si fa seguire a quella sequenza, perché l’oscurità al cinema, e non solo al cinema, è sempre molto affollata. Lo sguardo a cui l’immagine della felicità si propone è invitato a innescare quell’immagine, oppure a non farlo, a proiettare i suoi desideri, i suoi fantasmi… a partire da essa, dalla sua materialità («ho incontrato tre bambini in Islanda»), e dopo di essa, nel nero che la segue. […] Si può partire dall’immagine di tre bambini che giocano in Islanda, e si può provare ad agganciare l’inquadratura ad altre per verificarne la produttività o la referenzialità («per me era l’immagine della felicità»); se la concatenazione non funziona, allora si proverà a far seguire l’immagine da una coda di nero che darà inizio al film, “senza sole” non vorrà dire “senza immagine”.

 

Level 5Nelle pieghe dell’evento

Il passaggio al limite che connette e separa cinema e memoria è anche quello che nutre la filmografia di Chris Marker. Ed è un passaggio che si fa più concretamente visibile quando il cinema si confronta direttamente con la morte. Il suicidio di una delle donne di Okinawa, sul terreno dell’ultima battaglia del secondo conflitto mondiale, mostrato in Level 5 (1997): prima il ralenti con una cornice circolare nera a circoscrivere il corpo di lei, dopo il fermo immagine con lo sguardo in macchina della donna rivolto al cineoperatore americano che sta seguendo il suo movimento verso il vuoto; come se fosse necessario estrarre quel gesto dal film, fermarlo per capire il livello di abominio che l’occhio meccanico porta inscritto almeno potenzialmente nelle modalità stesse della “ripresa”.
 


 
Fermare quell’immagine è l’unico modo per farne qualcosa, per attenuare la pornografia di quello sguardo o per rilevare quella stessa pornografia che è implicata nella presenza della macchina da presa; bloccare l’immagine sullo sguardo in macchina (Marker lo aveva già fatto in Sans soleil) serve a dare presenza alla vittima, guardarla in faccia, cosa che l’operatore non può fare preso com’è dal seguire quel movimento – è la sua non partecipazione alla scena che gira che lo rende corresponsabile di quella morte, la sua impassibilità che duplica quella della macchina da presa, il suo certificare, da “operatore di guerra”, il movimento come puro e semplice documento; in altre parole: il suo pensare il meccanismo da un punto di vista semplicemente economico. Ancora una volta è ciò che faceva il cinema di propaganda per arginare ed eventualmente azzerare la polisemia dell’immagine: farla sottostare alla performance dell’oggetto rappresentato e a quella dell’occhio per cui era prodotta; è quello che oggi fa il cliché. In Level 5 bloccare l’immagine significa sottometterla a un’esigenza più importante, sottomettere il meccanismo alla relazione con la vittima, anche in funzione dell’intelligenza, da parte dello spettatore, di come il meccano-cinema può funzionare. Arrestare l’immagine permette inoltre la sua stratificazione, il suo collegamento con un’altra immagine o con un’altra situazione – in dissolvenza appare la sequenza di un uomo che prova le sue ali posticce gettandosi dal primo livello della torre Eiffel durante l’esposizione universale di Parigi – in cui la sola presenza della macchina da presa soggiogata da principi economici di funzionamento non permette l’esitazione, la sospensione del movimento. È come se negandola, sottraendole il movimento e quindi ciò che gli è più proprio, Marker voglia indicare quanto l’immagine del cineoperatore di guerra mancasse della potenza del cinema, e in questo modo facesse paradossalmente raggiungere alla stessa immagine la massima produttività di quest’ultimo. In questo caso tale potenza può coincidere anche con il processo mentale della vittima, ricostruito in via ipotetica dalla protagonista del film; e poi: l’esitazione possibile che la presenza della macchina da presa ha assassinato, facendo di quel movimento che si produceva dinanzi ad essa qualcosa di definibile una volta per tutte: un suicidio. «La donna di Saipan ha visto la cinepresa e ha capito che questi demoni stranieri non solo la stavano braccando, ma potevano mostrare a tutti che non aveva avuto il coraggio di saltare e quindi è saltata, e colui che teneva la macchina da presa la puntava come un cacciatore attraverso un mirino, l’ha abbattuta, come un cacciatore»; quando ascoltiamo queste parole la sequenza è già terminata: è l’attrice di Marker a farsi carico di tale interpretazione guardando in macchina, non per concedere la parola a chi è stato privato di tale facoltà da una guerra condotta, da entrambe le parti, in prima istanza attraverso l’immagine (la propaganda giapponese che spinge questi corpi al suicidio come gesto più “onorevole”, invece di consegnarsi al nemico, non costruisce un’immagine di quest’ultimo?), non concedendole pietisticamente un tempo che le è stato sottratto per sempre, ma popolando l’assenza di quella parola, immettendo il suo discorso in quel flusso bloccato costituito a partire dall’immagine sottratta al flusso stesso. La singolarità di quel fotogramma strappato alla sequenza è il modo per combattere l’apparente unità di quest’ultima. E nello stesso tempo è anche un modo per pluralizzare l’immagine, per il fatto stesso che vi è un incrocio di sguardi possibile tra un soggetto (la donna) e un altro soggetto (lo spettatore), e perché l’attrice di Marker mette in relazione quel fotogramma con il tempo anteriore e con quello posteriore, lo connette con una possibilità di tempo; ciò che la sequenza “intera” non faceva appunto perché chiudeva il gesto della donna in una definizione e quindi in un tempo bloccato. È in questo modo che il cineasta riesce a restituire presenza alla vittima. Marker restituisce all’immagine quell’ambiguità che gli veniva tolta dalla ripresa economica e informativa, non, come potrebbe sembrare, sottraendo l’istante pregnante a un flusso che non presentava che istanti qualsiasi, almeno nelle intenzioni dell’osservatore dietro la macchina da presa, ma mostrando forse nell’unico modo possibile quello che c’era da vedere (malgrado tutto direbbe Georges Didi-Huberman) all’interno dell’immagine, quello sguardo individuale per definizione, lo sguardo della donna un attimo prima che questa diventi vittima di un meccano senza pietà, l’occhio della macchina da presa e quello del cameraman. Quel fermo immagine è precisamente l’immagine che balena «nell’attimo del pericolo», individuata da Benjamin come uno degli obiettivi dell’indagine storica: «articolare storicamente il passato non significa conoscerlo “proprio come è stato davvero”. Vuol dire impossessarsi di un ricordo così come balena in un attimo di pericolo. Per il materialismo storico l’importante è trattenere un’immagine del passato nel modo in cui si impone imprevista nell’attimo del pericolo» 2. È, tra le altre cose, un modo per non essere complici di quel voyeurismo osceno che sta lì a guardare senza muovere un dito. Ma non è anche e soprattutto un modo per mettere in chiaro che l’immagine ha bisogno di un corpo che la guardi (in questo caso quello dell’attrice che fa mostra di sé in quanto tale e poi quello dello spettatore), di un corpo il cui sguardo viene da essa interpellato e che si prenda la responsabilità di tale interpellazione e della risposta che essa sollecita? Non si tratta qui di innescare il gioco dell’identificazione, come illusoria equivalenza tra spettatore e spettacolo, ma più propriamente quello dell’immedesimazione: mettersi al posto dell’altro, pur rimanendo al proprio posto. Nell’oscillazione posizionale tra questi due luoghi si costruisce una modalità dell’immagine cinematografica altra rispetto a quella hollywoodiana 3, quella che vede nella dinamiche di sospensione e di articolazione dello sguardo e del senso i movimenti stessi del cinema; sono dinamiche che producono l’apertura al senso molteplice dell’immagine, contro il “senso unico” che le si vorrebbe conferire. L’arresto della sequenza (che coincide in questo caso con una sosta sull’immagine), la sospensione del racconto su cui si innesta un’altra ipotetica narrazione, è qui anche un modo per bloccare la consunzione delle immagini-evento che nel corso del film sarà direttamente messa in questione.

 

[ a cura di Massimiliano Coviello ]

 

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NOTE
  1. I brani citati si trovano a pp. 119-120 e pp. 137-141.
  2. Walter Benjamin, Gesammelte Schriften, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 1974, tr. it. parziale a cura di G. Bonola e M. Ranchetti, Sul concetto di storia, Einaudi, Torino 1997, p. 87.
  3. Ma tale modalità è stata esportata con grande efficacia in altre cinematografie, basti pensare al cosiddetto cinema “generazionale” italiano dove il cliché poggia la sua efficacia sul sicuro riconoscimento, da parte dello spettatore, di tipi e caratteri che nella gradazione presentata tendono a replicare, nella sua intera estensione, lo spettro di “personaggi” presentato dal circuito mediatico (dai talk show ai reality), in modo tale che ogni spettatore possa ri-conoscere tutte le occorrenze e ri-conoscersi in uno di essi. In questo cinema non c’è mai processo di conoscenza, ma, appunto, di ri-conoscimento.

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