L’Ulisse e la tirannia delle note di Valerio Magrelli

di Giuseppe Zucco

 

Ricordo che i miei si leggevano l’Ulisse ad alta voce,
l’uno con l’altra, a letto: con un atteggiamento
fichissimo, tenendosi per mano, tutti e due animati
da questo amore davvero feroce per qualcosa.
David Foster Wallace 

La storia degli attacchi all’Ulisse di James Joyce è antica quanto il libro stesso, scrive Valerio Magrelli in “Leggete le note da Dante a Joyce”, un articolo apparso su La Repubblica. Ma una sprezzatura leggendaria come quella di Virginia Woolf, per la quale leggere il capolavoro di Joyce era come trovarsi di fronte a un disgustoso studente universitario che si schiaccia i brufoli, non equivale alle ultimissime staffilate degli scrittori di grido come Jonathan Franzen e Paulo Coelho.

Se la prima, contemporanea dello scrittore dublinese, anteponeva il gusto personale e la morale vittoriana alla critica letteraria più illuminata, gli ultimi, invece, nostri contemporanei, (ma neanche un attimo contemporanei di Joyce, in quanto a consapevolezza letteraria), nei loro interventi a gamba tesa – interventi ritenuti tanto più autorevoli poiché amplificati dalla cima del successo commerciale – dimostrano neanche tanto sottilmente che leggere Joyce, comprenderlo, richiede fatica. Una fatica tanto più fisica se alla lettura dell’opera si accompagna tutto il compulsare delle note esplicative.

A questo punto dell’articolo, peraltro condivisibile, se non fosse che il piacere, la gioia e la sfida intellettuale che la lettura dell’Ulisse assicura è continuamente affossata sotto la lapide della parola fatica, Valerio Magrelli – il quale, sono sicuro, vuole bene a Joyce, e scrive per proteggere Joyce, e veglia sul sonno eterno di Joyce scacciando dalle sue prossimità i moscerini del successo commerciale – seguita le proprie argomentazioni compiendo un doppio passo falso e a tutto discapito di Joyce.

Intanto, paragona l’Ulisse alla Divina Commedia. Ma non tanto per illuminare e preservare la grandiosa architettura delle due opere – cosa che a suo tempo già fece Harold Bloom con altro dispendio di energia. Quanto per giustificare la presenza delle note appena sotto o di lato al testo, dimenticando a proposito tutta una serie di circostanze, non ultima il fatto che al contrario dell’Ulisse, la Divina Commedia è un poema composto tra il 1304 e il 1322 nelle cui terzine incatenate di versi endecasillabi si scioglie non l’italiano, ma un suo progenitore, il volgare fiorentino, lingua che per essere goduta a pieno ha bisogno di un apparato critico a fianco. Certo, l’Ulisse, al pari della Divina Commedia, è un’opera-mondo composita, pluriforme, stratificata, gremita di allusioni e di significanti doppiofondo in cui si annida il fantasma della storia, della mitologia, della letteratura, di Omero e Shakespeare soprattutto, ma la sua lingua è uno spettacolo molto più vicino ai bengala accessi sotto la cui volta ci si può avventurare senza nessuno che ti tenga per mano.

Anche se il vero e proprio punto della questione viene qualche riga dopo. Sempre e solo per ribadire l’importanza delle note – considerando le note non come un paratesto, ma come parte del testo, come se il commento a furia di spintoni si fosse introdotto nel testo originario, mimetizzandosi tanto da non potere più sciogliere l’uno dall’altro – Valerio Magrelli lascia rotolare questo sassolino lungo il pendio della nostra attenzione senza neanche presentire il rischio di una valanga: Come i Canti della Commedia, i capitoli dell’Ulisse vanno affrontati soltanto dopo aver letto le loro analisi. […] Occorre cominciare dal commento a ogni singolo capitolo, per poi passare al capitolo stesso. In tal modo la lettura procederà libera, ma sulla scorta di indicazioni indispensabili.

Dato che già nella collana degli Oscar Mondadori l’Ulisse è venduto inseparabilmente da una Guida alla lettura, significherebbe pure che prima ancora di sincronizzarsi agli oscillamenti fisici erotici spirituali di Leopold Bloom toccherebbe arrancare dentro duecentottantadue pagine di ragguagli critici. La Guida alla lettura, tra l’altro, debutta con questo tenore: Ulisse è un punto di arrivo non solo nell’attività creativa di Joyce, ma nell’evoluzione della letteratura occidentale. Al pari di Waste land di Eliot (pubblicato nello stesso anno 1922), e più ancora della Recherche proustiana, segna la consumazione definitiva dell’esperienza decadente e simbolista, e perciò anche di quella romantica e post-romantica, sfociata nel decadentismo.

Da un punto di vista puramente sentimentale, è come se tu ti fossi innamorato, e volessi baciare a tutti i costi la ragazza più bella del pianeta terra, ma al colmo di timidezza, al solo fine di avvicinarla, decidessi intanto di frequentare e sedurre e baciare la sua migliore amica, la quale ti parla tutto il tempo della più bella, dei suoi trascorsi e delle sue aspirazioni, nonostante l’aspetto della migliore amica, al contrario dell’immagine della ragazza che palpita tra le parentesi delle tue costole, abbia qualcosa di ferocemente antisociale, un certo strabismo, per esempio – e, a tratti, una irreparabile bruttezza.

Il commento, per dirla tutta, le note, sono molto utili, a volte necessarie, ma non hanno mai la stessa forza espressiva cognitiva emotiva del testo originale – almeno, è quasi impossibile trovare qualcosa che suoni uguale: per questo è sempre meglio che si palesino dopo e non prima, il rischio sarebbe quello di disperdere quel senso di avventura e il desiderio di smarrirsi che pervade chi pesa questo genere di titoli in mano. Per di più, l’opera, ancora meglio, in questo caso, l’Ulisse, non si esaurisce nel suo contenuto, nella tirannia del contenuto che le note impongono, ma dispiega parte del suo potere e del suo fascino nel continuo elettrico sbocciare della lingua.

È anche per questo che fa tanto più male, a fine lettura, l’articolo di Valerio Magrelli. Non solo per questo infinito procrastinare il piacere della lettura. O per la pretesa di curare la fatica della lettura – là dove si presenta – con la fatica di seguire prima migliaia di altre annotazioni appuntate, il più delle volte, in un noiosissimo stile accademico. Quanto per questa implicita sfiducia alla migliore letteratura. Come se questa, James Joyce in testa, non riuscisse più a bussare e a farsi accogliere senza che prima qualcuno non ne annunci la presenza. Come se il lettore – un lettore disposto, bisogna riconoscerlo, parzialmente già attrezzato, a scalare le grandi opere – prima ancora di capire, non sentisse, non avvertisse di per sé, la bellezza, il rilancio, l’invenzione, la scommessa.

[qui, l’articolo di Valerio Magrelli pubblicato su La Repubblica del 12/9/2012. La citazione di David Foster Wallace è tratta da Come diventare se stessi. Foster Wallace si racconta, di David Lipsky, Minimum fax 2011]

Print Friendly, PDF & Email

17 Commenti

  1. le obiezioni sono sensate, come si dice garbate, ben espresse, ma non ti sembra ingenuo da parte tua, zucco, credere che si possa leggere un qualsiasi testo senza un apparato di note interiore? il linguaggio, con cui interpretiamo qualsivoglia testo, è tutto tale, non esiste lettura ingenua…hai voglia e come sono annunciate le presenze… e a questo punto nota più nota meno non è che cambia molto…

  2. Che bello, questo articolo ridà speranza a chi la letteratura la insegna (e a chi la studia). Forse un po’ meno ai critici, ma ben venga.

  3. @ livio

    livio, non ho nulla contro le note, nè capisco bene cosa sia la “lettura ingenua”. ho solo scritto, ma trovi tutto su, che prima delle note bisognerebbe lasciare risuonare, in tutti i suoi livelli, il testo.

    poi, pretendendo che i lettori leggano prima il commento che il testo originario, non credo che si faccia un gran servizio al libro in questione, come a molti altri. incentivare la lettura attraverso un via accademica – che ha una sua dignità, una sua maniera, una sua storia, ma anche una sua specifica difficoltà – credo sia molto rischioso. finirebbe per tagliare la gambe a molti lettori che già faticano ad avvicinarsi ai libri. è come sobbarcarli di un peso ulteriore.

    forse, all’inizio, per orientare i lettori, servirebbe una sorta di divulgatore appassionato, qualcuno che ti racconti la sua personale esperienza di quel libro, qualcuno che ti apra la porta su un paesaggio vastissimo, senza farti sentire piccolo e misero davanti ai complessi enormi meccanismi della Grande Opera. baricco, a suo modo, lo fa da anni. ma mi piacerebbe che oltre a lui, per esempio, su un giornale come repubblica, fosse dato lo stesso tipo di spazio anche ad altre voci, tanto per allargare il raggio d’azione.

  4. I livelli di lettura e di comprensione del testo sono davvero tantissimi. O si premette che lettura e comprensione dell’Ulisse di J. è riservata ad una cerchia limitata che possa autonomamente accedere al testo e goderne appieno la ricchezza linguistica e contenutistica, con profonda invidia degli altri; oppure è lecita ed anche doverosa l’indicazione di Magrelli per una diffusione più ampia dell’opera. D’altro canto si consideri che opere come quelle citate, assieme ai classici, costituiscono testi di formazione, non solo per gli operatori culturali ma anche per chi voglia scalare pian piano le colline della letteratura e farsi in qualche modo aiutare da qualcuno o da qualcosa. La conoscenza credo che travalichi ambiti specialistici e professionali. I più recenti contributi pedagogici disseminano i momenti formativi in ogni ambito e tempo della vita (“Educazione permanente” ). Dunque, un distinguo prudente e critico circa i diversi livelli possibili di lettura, a mio parere, destina le osservazioni di Zucco a chi già sia in grado di fare a meno di strumentari addizionali e notazioni preliminari. Concordo sulla fatica che molti testi richiedono per essere compresi e goduti appieno. Non tutti, però, riescono a stappare una birra coi denti e molti usano l’attrezzo.

  5. @ carlo

    però anche la lettura e la comprensione di un testo critico su un’opera come l’ulisse richiede sia molto impegno sia una qualche conoscenza pregressa, o no?

    per farla breve, non credo che all’ulisse, e a libri del genere, ci arrivi chi ha letto molto poco nella sua vita. chi si attarda su queste cime, avrà compiuto tutto un personalissimo percorso per trovarsi lì (oltre ad avere avuto dalla sua parte moltissimi momenti di educazione permanente, di cui parli tu). a volte, per essere brutale, sono i libri a scegliere i propri lettori.

    ma poi il bello è proprio un’altro: al contrario di un testo critico, la letteratura, per forza propria, ti fa “sentire” le cose prima di spiegartele. per fare il primo esempio che mi viene in mente, il flusso di coscienza: nell’ultimo capitolo, leggendolo, ne fai esperienza viva – lì per lì non hai bisogno che qualcuno ti dica cos’è, come funzioni, da dove derivi, quale teoria ci sia dietro o intorno. la vivi, la senti, la percepisci. poi, magari, al colmo di quella percezione, volendo definire quella percezione, magari ti rivolgi all’aiuto di qualche testo ulteriore. proprio per questo il pericolo di elitarismo (che brutta parola) è scongiurato.

    certo, se poi si vuole sapere, punto per punto, come l’odissea, per dirne un’altra, si rifletta nello specchio deformato dell’ulisse, è un’altra cosa. capire come joyce ha lavorato lo rende ancora più straordinario ai nostri occhi. ma il non dominio di queste informazioni non pregiudica la lettura.

  6. Pure per me è indifendibile la posizione che pare assumere Magrelli in certi passaggi, procrastinare il testo in quella maniera è quasi un invito a leggere sempre e solo dentro lo schematismo dei critici e dei curatori, e mai fuori… mi sembra assai lontano dai propositi di De Angelis e Melchiori, i quali non dicono COME leggere l’Ulisse, sarebbe impossibile, perché le peculiarità di quell’opera non sono sintetizzabili in un libello analitico, SONO l’Ulisse; quello che cerca di fare la guida è dare dei punti fermi, in primis nei confronti del modello omerico e quello sensoriale-anatomico, e poi localizza narratologicamente i vari quadri in maniera quanto più lineare e scenografica possibile (Siamo nella torre, ci sono questi, codesti e quelli; siamo al bordello, c’è Leopold, c’è Stephen … che incontrano questi… che parlano con questi… il monologo è di Leopold, o di Stephen oppure come nel capitolo delle strade i monologhi interiori appartengono a dei passanti, o hanno natura corale… ecc).
    Per me è stata utile la guida laddove mi diceva con un qualche anticipo chi monologava, in base a quali sollecitazioni, in che ambiente, davanti a chi (la guida è uno strumento geografico-narrativo, diciamo, un navigatore satellitare, per usare un termine in voga oggi). Leggendo con grande attenzione il testo queste cose si capiscono senza bisogno di Melchiori e De Angelis (non dimentichiamo che Joyce non era contento che applicassero le note al suo libro, perché avrebbero soffocato la lettura) ma avere qualche pulce nell’orecchio prima di imbarcarsi non guasta, permette di concentrarsi di più sulle qualità dell’opera ché non è tanto nel narrativo che compie le sue acrobazie, quanto nella poesia, nel lavorio sulle lingue e sul linguaggio, nella rappresentazione di sensi-immagini-segni attraverso il pensiero immediato… La guida è più una cartina storico-geografica al servizio della narrazione, serve soprattutto secondo me per non naufragare dove non avrebbe molto senso naufragare… Joyce prevede il naufragio, prevede lo smarrimento, ma lo prevede dentro a delle sequenze narrative quasi sempre delineate (non riconoscere la sequenza narrativa è pericoloso per godere appieno dell’Ulisse). Se non riesco a capire quello che sta succedendo (a livello di intreccio) nella carrozza che porta Leopold e altri conoscenti al cimitero per il funerale e poi non capisco la scena del seppellimento, allora mi perdo una porzione consistente di quello che (a mio avviso) Ulisse è. Io credo sia lecito perdersi nelle emorragie di pensiero di Molly Bloom (probabilmente è quello che Joyce vuole), ma è meno lecito perdersi nella fabula tuttosommato semplice di questo straordinario mondo. Possiamo perderci nel monologo di Leopold chiuso nel gabinetto, nelle migliaia di immagini “sensoriali” che lo circondano, ma non possiamo non aver capito dove Leopold si trova.
    A questo serve la guida, ed è utile.
    Non mi piace invece concettualmente ciò che dice Magrelli… vieppiù che leggere tutta la guida prima di leggere tutto il testo mi sembra perlomeno insensato. Conviene procedere semmai di pari passo. Leggendo il capitolo critico prima del relativo capitolo sul libro…
    Ma ognuno poi fa come gli pare, Ulisse è un libro con tanti di quei piani di lettura, significato e significanti che ce n’è davvero per tutti.

  7. Provo ad andare per ordine. Joyce ha scritto e pubblicato l’Ulisse, poi la critica letteraria, quella meritoria che vale la pena considerare e menzionare, ha cercato di di-spiegarla, di volgarizzarla nel senso buono, di renderla accessibile: a se stessa per prima, credo.

    L’operazione della critica, fondativamente mi sa, è secondaria, e se è una critica senza frustrazioni, è la prima ad ammetterlo, è la prima a dire – Io vengo dopo, e sono orgogliosa di venire dopo delle opere come quella di Joyce!
    Davvero non so perché un lettore che ha voglia di leggere, di fare l’esperienza di lettura con Joyce, debba – non che non possa, se così gli piace, ma che “debba”… – leggere prima chi ha scritto su-Joyce. E per fare cosa? Per “capirlo”. Ah.

    Joyce, come ogni scrittore che cavalca i secoli, è comico; cioé: fonda un suo senso del comico, tante volte agghiacciante, vabbé. Leggere Joyce è uno spasso, e significa fare immediata esperienza della sua comicità che, come tutte le comicità nuove e non passive ripetizioni di comicismi già instaurati, può non essere colta, anzi, se ne può dire – Ehi, ma questa roba non dà nessun piacere!; anche se la frase corretta, e sincera, dovrebbe essere – Ehi, ma questa roba non mi dà nessuno dei piaceri che mi ero abituato a provare!

    Leggere prima la critica su-Joyce e poi Joyce è come farsi spiegare una battuta prima ancora di averla ascoltata: su, è una idiozia.

    Per cui: chi vuole fare esperienza di Joyce, se vuole la mia, se lo legga. Poi, se ne sarà stato conquistato, proverà a capirlo. Niente impedisce una seconda lettura dell’Ulisse, né una seconda, una terza. I capolavori si riconoscono così: ogni rilettura sa essere inedita in un modo nuovo.

    Certo nessuno deve sentirsi condannato da un pre-giudizio categorico che detta “L’Ulisse è bello!, bruto sarai te se non ti piace”. Leggere l’Ulisse e dire – Ma questo libro è uno schifo!, fa parte dei diritti di un lettore onesto, se è onesto e lo ha letto, e questo non farà di lui un demente o un pigro e un bacchettone. Magari non gli piace Joyce e poi va pazzo per Cortazar, chi può dirlo. Io persone che l’Ulisse lo abbiano letto poi tutto e che abbiano detto che è uno schifo non ne ho mai conosciute, ma statisticamente questa mia considerazione non vale niente. Joyce è una vera meraviglia e può diventare un libro per la vita, di quelli che si vogliono avere sempre vicini, questo sì.

    Se poi Joyce fa veramente orrore, a chi lo ha letto potrà sempre consolarsi con un Paulo Coelho o un Jonathan Frenzen. Però, se un poco si vuole bene, non accontenterà di niente di meno di una Virginia Wolf.

    Un saluto!,
    Antonio Coda

    • @Antonio Coda

      “Joyce è una vera meraviglia e può diventare un libro per la vita, di quelli che si vogliono avere sempre vicini”

      Sottoscrivo appieno questa frase. Ed anche il ragionamento sul comico e la critica.
      Per me l’Ulisse è diventato un libro per la vita, il mio libro preferito, o per lo meno quello che m’ha regalato più gioie a leggere, ma è un libro che quasi nessun lettore medio ha letto fino ai fatidici rintocchi di “sì” di Molly Bloom. Conosco io stesso poche persone che hanno finito questa lettura, e sono tutte delle persone ipercolte.
      Da una parte il doppio tomo Mondadori scoraggia, è vero, e forse il single di Newton e Compton va più verso le esigenze del mercato librario (vedremo a breve l’Einaudiana di Celati) ma io credo che tanto l’appesantimento della guida può tenere lontani dal comprare questo libro, tanto la sua rinuncia assoluta, della guida dico, per un lettore medio, può comportare l’abbandono della lettura dopo una cinquantina di pagine.
      Le ragioni di questo le ho dette nel mio commento di prima.

      Sul fatto che non ci sia bisogno di leggere la critica letteraria joyciana prima di leggere l’Ulisse sono perfettamente d’accordo. Figuriamoci, e ripeto la mia idea che procrastinare il testo in quella maniera è quasi un invito a leggere sempre e solo dentro lo schematismo dei critici e dei curatori, e mai fuori. Per il resto una bussola narrativa può essere uno strumento utile.

      saluti

      • Ciao Dinamo,

        per il piacere di parlare attorno a Joyce, ti dico a me come è andata: quando decisi – perché è vero: bisogna deciderlo – di leggere l’Ulisse, comprai l’edizione Mondadori e il manualetto allegato m’indispettì, perché aveva proprio l’aria di dirmi – Se vuoi farti un giro in questo libro, o ti ci accompagno io o ti perdi e rovini tutto.

        Siccome è il caso più unico che raro di un libro in edizione economica con guida alla lettura allegato, ho reputato il manualetto strettamente necessario, visto che un editore deve pensarci approfonditamente, prima di mandare a stampa un volume accompagnato da una cosa così “antipatica” in termini di marketing.

        Così ho iniziato a leggere le prime pagine del manualetto e ormai l’atmosfera era quella di un esame universitario. Senza aver ancora letto neppure una pagina di Joyce, cominciavo a chiedermi s’era poi stata una buona idea, arrischiarmi nell’Ulisse.

        Già scoraggiato, ho letto la prima pagina del romanzo, immaginandomi qualcosa di molto più serioso e cruciverbistico di quello preannunciato nella guida. Dopo la prima pagina, sono andato a precipizio nelle altre, perché Joyce scrive alla grande, ha una potenza di immagine e di arguzia e di racconto e di duello con il lettore che nessuna guida – attenta come deve essere alle tematiche, alle implicazioni, alla cultura-in-campo – può replicare.

        Ho cominciato a leggere in accoppiata guida e romanzo, ma solo per rendermi conto a ogni pagina come Joyce scrivesse molto più di quanto la critica possa dire, perché in questo sta la potenza della letteratura e la differenza tra uno scrittore e un critico: il primo ha la potenza sintetica di dire in una frase quello che un critico per quanto intelligente e generoso non potrà mai dire in maniera altrettanto esauriente con meno di una tesi di cento pagine.

        Apprezzavo molto le note propriamente dette, con riferimenti a fatti e nomi storici o poco più, per il resto l’Ulisse fa esplodere dal di dentro ogni griglia nel quale si cerca di farlo stare: la stessa griglia nella quale voleva contenerlo Joyce non regge, il romanzo ha superato di gran lunga l’intenzione poetica dello scrittore.

        Per questo, secondo me, semplicemente si deve stabilire l’approccio all’opera: se la si vuole leggere o se la si vuole studiare, e nel caso di studio, qualsiasi romanzo di Balzac, Flaubert o Dostoevskij o Pynchon o Aldo Busi merita una guida alla lettura al pari di Joyce, che intanto di suo si difende benissimo, in quanto a “godibilità” di lettura.

        Infine, ultimissima osservazione: bisogna ringraziare sempre i detrattori vecchi e nuovi di Joyce. Sembra siano gli unici, ogni tanto, a ricordare pubblicamente la sua esistenza e il suo essere inamovibile pietra di paragone per la letteratura di tutte le epoche.

        Un saluto!,
        Antonio Coda

        • “Infine, ultimissima osservazione: bisogna ringraziare sempre i detrattori vecchi e nuovi di Joyce. Sembra siano gli unici, ogni tanto, a ricordare pubblicamente la sua esistenza e il suo essere inamovibile pietra di paragone per la letteratura di tutte le epoche”.

          Il mondo della critica joyciana mi pare essere molto chiuso e sigillato, è un argomento molto tecnico, specialistico, ci vogliono anni di studio… Io non ho mai letto un articolo o un saggio su Joyce che non fosse soppesato parola per parola come le fettine di prosciutto crudo.
          Sono studi che fanno poca eco, se ne sente pochissimo parlare, lo sai bene.

          Le sparate contro l’Ulisse solitamente arrivano da altri settori culturali, l’ultimo di Coelho è un atto scenico forse anche mirato a non permettere ai suoi lettori di respirare altra letteratura che non sia quella della qualità letteraria promossa da lui e da quelli che scrivono come lui…

          ma dagli artisti arrivano anche delle chiavi di lettura eccellenti, come nel caso famosissimo di CB che a mio avviso ha letto l’Ulisse in uno dei modi migliori di leggerlo, o al tributo che troppi anni fa gli fece Vila-Matas col suo Dublinesque.

          Sul discorso in sé precedente, pure io non sono stato lì troppo a spulciare la guida mondadori, ma quando l’ho fatto non mi è sembrata un saggio accademico… certo tra quella e il testo c’è un abisso.
          la centralità del romanzo sulla critica non va assolutamente messa in discussione. ma quella di Melchiori e De Angelis non è proprio una critica, è una stampella.
          ad ogni modo dobbiamo essere riconoscenti a De Angelis per la traduzione che parecchi anni fa riuscì a eseguire… una traduzione che come ho detto qui (http://ilpontelunare.blogspot.it/2012/05/lulisse-di-joyce-e-la-nuova-traduzione.html), io continuo a preferire alla nuova di Newton e Compton.

          un saluto joyciano,
          sperando di non diventare troppo autoreferenziali…

          ciao

          • Ciao Dinamo,

            non conoscevo il libro di Vila-Matas e ti ringrazio per la segnalazione, anche se di solito i libri-mossi-dai-libri mi freddano un po’: a una prima occhiata però sembra che questo di Vila-Matas sia molto di più.

            Gli studi joyciani, essì, sono molto sofisticati: ho un amico che a suo tempo a Joyce dedicò la sua tesi di laurea e fu affranto dalla mole dei contributi specialisti pubblicati sulla sua opera, compresa una non so se mitologica tesi basata sulla ricerca dei nomi dei fiumi “celati” all’interno del Finnegan’s, che comunque lui ha affrontato, così come l’Ulisse, in lingua originale. – Tutta un’altra storia!; mi ha assicurato. Io gli invidio la competenza linguistica che gliel’ha permesso. Adesso si dedica a Pynchon, che alla poderosità vitale – ma esplosa, nel suo caso – di Joyce ci rimanda.

            Naturalmente a Melchiori e De Angelis non possono che andare i più sentiti ringraziamenti: tradurre Joyce deve essere stata una esperienza tra il disperante e l’esaltante. Io ora aspetto sempre con trepidazione che qualcuno se la senta di tradurre Alasdair Grey.

            In fondo anche io credo che Joyce non abbia bisogno di un battage pubblicitario e che sia più un premio inaspettato per chi si dà l’occasione di leggerlo che un castigo per il lettore appassionato al quale viene brutalmente posto come un must.

            Un saluto!,
            Antonio Coda

  8. un articolo che comincia con virginia wolf (invece che woolf) e jonathan frenzen (invece che franzen) indispone un po’ però. un conto sono i refusi nei commenti, un conto all’interno del post stesso, a mio modesto avviso.
    l.

  9. cmq le tesi di magrelli vanno contestualizzate in un discorso critico e anche poetico che si muove da tempo in direzione del superamemnto delle distinzioni fra testo, pre-testo, paratesto e altri circondari del testo, si veda in particolare il suo Nero sonetto solubile (2011) e, volendo, il mio commento analisi sullo stesso

    http://www.ilprimoamore.com/old/testo_2020.html

  10. e se invece considerassimo l’Ulisse come un compendio alla vita? Alla vita di tutti? A me questo è capitato circa due anni fa quando in pieno lavoro su Montale, attraverso Bazlen molto amico del nostro, ci arrivai. E la cosa che mi ha sorpreso di più è stata sicuramente quella di godere, passati i quarantanni, della semplcità di quell’opera.In altri termini un’opera che ai tempi dell’università mi sembrava ostica, che bisognava, era necessario studiare ancor primadi leggerla, di colpo appariva come quasi sicuramente il suo auotre voleva che fosse, un romanzo da leggere, che tutti potessero leggere e poi, volendo, studiare. Quando si è giovani, …enti, …enta, è difficile entrare in risonanza con un’opera del genere, un’opera che è costituita, secondo me, ovvero da non joyciano, di memoria\oblio ed esperienza. Come se Joyce raccontasse al ritorno da un lungo viaggio ai propri compagni contemporanei, adesso vi racconto com’è andata. effeffe

I commenti a questo post sono chiusi

articoli correlati

¡Que viva la traducción! – La letteratura italiana in Argentina

(Dopo le prime puntate in Spagna - qui e qui - ecco una nuova intervista per capire che ruolo...

Un grandangolo deforma leggermente ai lati l’espressione attonita di Mario e Cristina

(Un altro piccolo estratto da una cosa lunga che vado scrivendo da tempo) di Giuseppe Zucco Un grandangolo deforma leggermente ai...

Gli scrittori sullo schermo e Nella casa di François Ozon

di Giuseppe Zucco Si sa, gli scrittori sono esemplari romantici: così il cinema, quando non è impegnato nella caccia al...

¡Que viva la traducción! – La letteratura italiana in Spagna 2

(Dopo la prima intervista, ecco una seconda che chiude idealmente il capitolo sulla letteratura italiana in Spagna. Questa volta...

¡Que viva la traducción! – La letteratura italiana in Spagna

(Una cosa di cui si sa poco o nulla è che ruolo giochi la letteratura italiana all'estero e quanto...

Una sessione di consapevolezza riguardo a Hitchcock e ai film che parlano di grandi opere

di Giuseppe Zucco Va bene, partiamo dalla morale: se fossimo più trasparenti a noi stessi, se sapessimo leggere meglio il fondo...
giuseppe zucco
giuseppe zucco
Alcuni suoi racconti sono apparsi su Nazione Indiana, Nuovi Argomenti, Rassegna Sindacale, Colla. Nel 2010 ha partecipato alle Prove d’Autore di Esor-dire, a Cuneo. Sempre nel 2010, nel numero 52, la rivista «Nuovi Argomenti» ha inserito un suo racconto nella sezione monografica Mai sentito, segnalando l’esordio di cinque nuovi scrittori.
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: