A casa della zia pazza

di Mario Schiavone

Qualche giorno fa sono andato a trovare mia zia Silvana.
Ho preso l’autobus T51 e sono sceso alla fine di via Aversa, quasi al confine fra Casal di Principe e Villa Literno. La piccola casa appartenuta ai miei nonni è stata data a mia zia, solo perché lei sta poco bene in salute. Avevano fatto un patto mio padre, primo fra i figli, e i suoi fratelli minori. Un accordo che da anni veniva rispettato senza che nessuno degli altri fratelli, i miei zii e le mie zie, avanzassero pretese. Così zia e il suo compagno, dopo la morte dei miei nonni, sono andati a vivere nella casa in cui ho trascorso gran parte della mia infanzia.
Purtroppo la zia non ha cura della casa: la sua abitazione appare come un’isola in mezzo alla città. Le mura di un rosa spento si alzano davanti ad un cortile circondato da siepi mai curate e da alberi mai potati. Al centro del cortile un grande albero di noci da cui cadono ciclicamente i frutti che nessuno raccoglie da diverse stagioni. Ho aperto con una spinta leggera il cancelletto senza serratura e sono entrato camminando a piccoli passi sul tappeto di noci che c’è davanti casa.
Raggiunto l’uscio di casa non ho bussato subito alla porta, ma ho fatto un giro nella parte posteriore dell’abitazione, per potermi avvicinare al forno in cui i miei nonni facevano il pane che vendevano o regalavano ai vicini.
Guardo la bocca del forno, è coperta da un coperchio di latta ricavato da un bidone d’olio svuotato e abbandonato in una parte del cortile. Le pareti che ricordavo essere di un bianco sporco, ormai sono nere di fuliggine. In un angolo vicino alla legna marcia c’era il vecchio stringitoio per l’uva con il perno centrale senza grasso e striato di ruggine perché fermo da troppo tempo. Ogni cosa pare immobile, senza vita, come svuotata dall’interno. Geometricamente fedele a un quadro che non ho dipinto io, una sorta d’immagine bidimensionale. Più mi avvicino all’uscio di casa e più mi pare di essere entrato in un libro pop up di cartone: sfogliando le pagine di quel tipo di libro per bambini vedi gli oggetti in apparenza capaci di muoversi con una leggera vibrazione della mano, ma allo stesso tempo legati e incastrati nella loro dimensione statica.
Abbandonato il retro della casa, sono tornato davanti alla porta e ho bussato il campanello per due volte, senza sentire alcun suono. Ho bussato con insistenza battendo le nocche di indice e medio sulla porta.
“Chi è ?” ha domandato una voce che non ho riconosciuto subito.
“Sono Mario, c’è zia ?”. Ho risposto io.

Poi, dopo un macchinoso rumore di serratura, la porta si è aperta e di fronte a me è apparsa zia con i capelli secchi spessi e lunghi come tralci di vite morti al sole.
Sulle spalle un piumino nero, sgualcito, per coprire la maglia di una tuta verde. I pantaloni con le toppe sulle ginocchia e tirati sopra le caviglie.
Ai piedi porta delle scarpe da ginnastica senza lacci. In una mano un fico secco ricoperto di cioccolato. Mentre lo mastica, le guardo i denti scuri, che fanno apparire color fango l’intera bocca.
“Sei proprio tu, Mario?”
Non sapendo che cosa dire ho annuito con la testa.
“Vieni, entra. Mettiamoci vicino al fuoco del camino ora che c’è ancora della legna.”
Ha detto mia zia.

Sono entrato nel corridoio di mattonelle a scacchi e dopo il terzo o quarto passo ho sentito una voce rauca che diceva:
“Chi è questo seccatore? Chi è che vuole venderci ancora delle pentole!”
“Pino non gridare che Mario si mette paura. Non lo avevo neanche riconosciuto. Ti ricordi di mio nipote?”
Ha detto la zia al compagno. Lui non ha perso tempo in saluti e ha cominciato a gridare.
“Hai della pasta Mario? Siamo pieni di pentole. Siamo pieni di cucchiai. Ci serve della pasta. Mangio pane secco e pomodori da giorni, voglio la pasta, capito?”
Dice ancora Pino in tono lagnoso. La sua voce attraversa il corridoio e arriva fino alle mie orecchie come se venisse da un altro mondo.
Camminiamo lungo il corridoio a elle e quando arriviamo nel soggiorno vedo un uomo seduto vicino al camino. Da un mobile della cucina la tv muta passa delle immagini di gente che batte le mani mentre due ballerini si muovono su un palco. Vicino al televisore decine e decine di vhs con i titoli scritti a penna: E-tim, Magnum Piai, Meggaiver.
Sono alcuni dei titoli che leggo posando gli occhi velocemente su alcune vhs prima di girarmi a guardare il marito di mia zia.

Ha i capelli brizzolati, la carnagione scura e guardandolo in faccia noto che le sue pupille si muovono libere e senza controllo, quasi come gli occhi di un camaleonte. Un occhio si muove verso destra, l’altro accenna un tremore verso sinistra. La palpebra destra si alza, la sinistra si abbassa. La testa chinata da un lato all’inizio, poi dall’altro. Tesa come quella di un pupazzo appena zia dice qualcosa. Il compagno di mia zia non vede, ma io l’ho appena scoperto.

Mia zia mi allunga una sedia e prima di sedermi mi guardo attorno, noto che tutta la casa è composta da pezzi che appartengono ad altre case, altre vite. I mobili appaiono disordinati e parte di un insieme poco decoroso, come denti cariati incastrati fra loro. Una credenza grigia al centro di due armadi: uno nero grafite, l’altro giallo banana.
“Mario, ma come stai?” Mi domanda mia zia.
“Sto bene. Grazie. Voi come state?”
“Come stiamo, eh…come stiamo. Stiamo come due che mangiano poco. Hai della pasta con te?Eh? Hai della pasta?”
Mentre zia parla osservo Pino. L’ho sempre chiamato per nome senza aggiungere le tre lettere di rispetto parentale. Fin da piccolo ho atteso che si unissero in un matrimonio che non è mai avvenuto, ora che sono un po’ cresciuto lo vedo lamentarsi mentre gira la testa a destra e a sinistra come una gallina stordita dall’acqua piovana.
“Pino stai zitto adesso, comportati bene. Oggi è venuto a trovarci mio nipote, comportati bene almeno oggi.”
Ha detto la zia a Pino. Poi si è leccata l’indice e il pollice ancora macchiati di cioccolato. In fine mi ha guardato facendomi un sorriso e poco dopo si è rimessa a fissare il vuoto. I minuti passavano, Pino muoveva la testa a scatti e zia non diceva niente.
“E tu come stai zia, adesso? Le senti ancora quelle voci che si parlano fra loro?”
Ho domandato a zia.
“Le sento, ogni tanto. Meno rispetto a prima. Adesso va meglio, mi faccio un’iniezione di Haldol una volta al mese. Solo cinque milligrammi iniettabili intramuscolari e tutto passa. La testa mi aiuta di più e s’inceppa di meno.”
Ha spiegato zia sorridendo e gesticolando.

“E’ pazza tua zia, è pazza. Parla sempre male di me a tutti quelli che vengono a trovarci.”
Dice Pino.
Io lo guardo senza replicare, perché dopo due tentativi di dir qualcosa la bocca si è fatta secca.
“Invece di piantare il grano. Con il grano puoi fare la farina e con la farina puoi fare la pasta. E la pasta si mangia ogni giorno a tavola, non come fa lei che nasconde la pasta pur di non cucinarmi.”
Grida di nuovo Pino, prima di tirarsi sulla testa lo scialle che gli copre appena le ginocchia.

“Il fatto è che viviamo con pochi soldi. La mia pensione, da invalida mentale al settanta per cento, è di appena cinquecento mila lire al mese. Lui prende più di me, perché ha questo grave disturbo agli occhi che gli fa vedere solo delle ombre. Ma sua madre, di quei soldi, mi lascia pochissimo.”
Mi spiega zia a bassa voce.
“E cosa fa con i soldi della sua pensione?”.
Domando io abbassando ancor di più la voce.

“ Nasconde quei soldi perché dice che vuole conservare il denaro per comprare due occhi nuovi al figlio, farlo operare. Non crede ai medici che le dicono la verità: Pino sta perdendo la vista e non si può fare più niente. Non si rende conto del fatto che forse prima degli occhi servirebbe al figlio una testa nuova.”

“Che fate? Che dite? Voi due mi nascondete la pasta. Andate a piantare il grano e con la vostra farina vi preparate la vostra pasta. Perché rubate la mia pasta, basta rubare. Andate via!”. Grida a gran voce Pino prima di mettersi a piangere.
Mia zia si scusa con me, e dopo essersi alzata velocemente si avvicina a Pino e stringendogli la testa fra le palme delle mani piega il busto verso di lui e guardandolo fisso negli occhi gli dice:
“Pino non piangere, non devi piangere. Pino non puoi piangere. Pino se piangi ti tappo il naso e le orecchie e ti getto in pasto ai maiali, Pino devi smetterla…hai capito basta, basta, basta.”
Grida zia Silvana. Ora ha una voce quasi da indemoniata. Sento freddo al petto. Non so cosa dire, non so da che parte stare quando zia si gira e fissandomi, di nuovo con voce dolce, dice:
“La volete un po’ di acqua e zucchero? Adesso berremo tutti acqua e zucchero per sentirci meglio… meglio… meglio.”

“Tua zia non sta bene! È pericolosa.”
Grida Pino a gran voce mentre io mi domando chi dei due fra lui e lei sia più pericoloso.

“Vado a prendere l’acqua con lo zucchero.”
Dice la zia con un tono di voce allegro.

Mentre lei cammina verso la cucina, non appena è nel corridoio, Pino si abbassa in avanti con la testa e portando una mano sul taglio della bocca, quasi a estrarre una a una le parole che sta per pronunciare, dice:
“Di notte vengono degli uomini a trovarla. Ballano e cantano con lei fino a tardi e non mi lasciano mai dormire. Sai come l’ho scoperto? Parcheggiano una cosa che fa molto rumore, tipo un’astronave aliena, nella piazza lì vicino la Chiesa dello Spirito Santo, poi scendono e vengono a bussare vicino alla fines…”
Pino non finisce il suo racconto che zia è già di ritorno con due bicchieri d’acqua nelle mani. Mi guarda sorridente e dice:
“Prendete e bevete, questa è la mia acqua con lo zucchero. Fa bene alla salute!”
Provo a rifiutare, dicendo in tono poco convinto e con la paura nel cuore qualcosa come:
“Grazie zia, ma io…Io ti ringrazio ma…”
“Su… su… non fare i complimenti mio bel nipotino. Bevi questo bicchierone di acqua con lo zucchero e ti farà bene.”
Prendo il bicchiere fra le mani e dico:
“Ne vuoi un po’ zia?”
“Io non posso berla, perché sono diabetica. Neanche Pino potrebbe, ma tanto Pino è ceco e ha già tutti i denti marci”. Poi ride fino a farsi venire le lacrime agli occhi.
Pino che è rimasto in silenzio fino a quel momento grida:
“I denti i denti i denti…sei tu che hai fatto marcire i miei denti vecchia strega. Che possano portarti via quegli uomini strani, che possano rapirti con la loro astronave e portarti via per sempre.”
La zia smette di ridere e guarda Pino, adesso ha il viso tirato e assume un’espressione da maestra di scuola infuriata, poi dice:
“Pino sta zitto! Quante volte ti ho detto che la notte non devi ascoltare la radio. Quel programma di fantascienza ti fa stare male. Tu non mi vuoi proprio ascoltare, ma io so cosa fare per aggiustarti. Io so cosa fare per calmarti”

Suona la campana del pendolo appeso sopra il televisore. Copre la voce di mia zia e la casa pare entrare in uno stato di apparente quiete.
Sono le cinque in punto quando mi alzo e dico a zia:
“Devo andare, è tardi. La prossima volta tornerò a trovarvi con della pasta”
“Dici davvero nipote mio? Ma per favore, non dirlo a nessuno.”
“No zia, rimarrà una questione di famiglia. Tutta tra noi.”
“Voglio anche io la tua pasta”- grida Pino.
“Ti accompagno alla porta”- dice zia.
Mentre cammino verso l’uscita, proprio all’altezza dell’angolo del corridoio, Pino grida un’ultima volta:
“C’è pasta per tutti a questo mondo, c’è pasta per tutti. Datene un po’ anche a me.”
La zia muove il mento indicandomi la porta, io affretto il passo e non appena sono fuori la zia chiude subito la porta senza dire niente.

Esco dal cortile e vado alla fermata dell’autobus. Sulla panchina sotto la pensilina della fermata una signora di mezza età mi allunga un giornale dal titolo: “Torre di Guardia”.
Poi dice: “Leggilo, fa bene leggere.”
Senza dire niente guardo la prima pagina e noto la scritta in stampatello che dice: “Aiuterai il tuo prossimo?”
Ingoio tutta la saliva che ho in bocca e respiro forte per mandare via il nodo che ho in gola. Mi giro e vedo la signora del giornale allontanarsi lentamente, come una lumaca che striscia sulla corteccia di un albero ha preso a camminare sul marciapiede facendo piccoli passi sulla crosta di cemento corrosa dalla pioggia.
Guardo di nuovo la copertina del giornale che ho in mano e comincio a piangere.

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14 Commenti

  1. Letto tutto d’un fiato, toglie il respiro e la cura nel descrivere i dettagli con l’inconfondibile stile dello Schiavone, ricco di metafore con uno sguardo attento e disarmato non riesce a farti smettere di mangiare le parole, una dopo l’altra.
    Spero di poterti leggere presto sfogliando delle pagine cartacee…

  2. Molto bello: un racconto dove si sentono le voci.
    Il ritorno in luogo d’infanzia, confine del nostro cuore,
    non prepara alla realtà del cambiamento.
    Si sente una delle voci della terra sud, vuole ingrandire
    e raggiungere la nostra vita.
    In quest’estate forse sono passata vicino alla casa della zia,
    perché fiction e realtà si mescolano.

    • Fiction e realtà finiscono per mescolarsi con una puntualità impressionante.
      Grazie per aver letto e condiviso questa mia storia.

  3. I pantaloni arrotolati sopra le caviglie. Era un dettaglio che non ricordavo! Sei riuscito a descriverlo meglio di quanto riesca a fare la mia memoria, aggiungendo dettagli inventati e modificati che rendono il tutto un possibile inizio di un romanzo. Cosa faranno tutto il giorno chiusi in quella vecchia casa? L’astrinave aliena piena di uomini esiste veramente? Il caro nipote ritornerà a trovarli? Siamo sicuri che non si siano mai sposati? …bravo Mario. Mi è piaciuto ma mi ha lasciata con la voglia di continuare va leggerlo, come se ci fosse ancora molto da dire. Un racconto senza fine.

  4. narrazione d’umanità tridimensionale, intensa sul piano descrittivo e coraggiosa per come s’avventura nell’angoscia rosa spenta di una realtà sociale in cui c’è solo una cosa che fa più orrore di un malato di mente: due malati di mente. bellissimo lo straniamento con cui il protagonista varca il confino che circonda l’isola in mezzo alla città, ovvero la sensazione di sfogliare un “libro di cartone pop up”. la storia stessa assume una posa statica a moto circolare uniforme (quasi borgesiano) in cui l’elemento di novità (mario) tocca con mano il mondo stagno in cui galleggiano a bagno maria pino e silvana senza che il contatto con l’acqua (zuccherata) generi la benché minima increspatura. difatti quando la porta si richiude alle spalle di mario nulla cambia. nel complesso, davvero il racconto si legge d’un fiato e lascia il segno. due elementi di perplessità (magari voluti, vedi tu): il primo sono le motivazioni di mario (la “visita a zia” è un evento psicologicamente sgradevole e non è chiaro perché il nipote scelga volontariamente di sottoporsi all’orrore); il secondo è l’anestesia olfattiva dell’ambiente-stagno in cui, per contro, odori “forti” dovrebbero essere all’ordine del giorno (è una scelta concettuale perché in realtà mario sta “sfogliando” un libro pop up? potrebbe essere, ma per quanto, allora, la scelta sia giustificata, impedisce al lettore un’immersione completa nella realtà scomoda della piccola casa). non mi ha convinto, invece, il finale, ma questo forse è un mio limite in quanto non amo le eccessive esplicitazioni un po’ retoriche. il messaggio, peraltro, arriverebbe forte e chiaro anche senza il titolo del giornale e il pianto di mario.
    insomma, compliments e grazie del racconto.

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Helena Janeczek è nata na Monaco di Baviera in una famiglia ebreo-polacca, vive in Italia da trentacinque anni. Dopo aver esordito con un libro di poesie edito da Suhrkamp, ha scelto l’italiano come lingua letteraria per opere di narrativa che spesso indagano il rapporto con la memoria storica del secolo passato. È autrice di Lezioni di tenebra (Mondadori, 1997, Guanda, 2011), Cibo (Mondadori, 2002), Le rondini di Montecassino (Guanda, 2010), che hanno vinto numerosi premi come il Premio Bagutta Opera Prima e il Premio Napoli. Co-organizza il festival letterario “SI-Scrittrici Insieme” a Somma Lombardo (VA). Il suo ultimo romanzo, La ragazza con la Leica (2017, Guanda) è stato finalista al Premio Campiello e ha vinto il Premio Bagutta e il Premio Strega 2018. Sin dalla nascita del blog, fa parte di Nazione Indiana.
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