essere o non essere . . .

di Antonio Sparzani

Ci sono state, e ci sono, nella mia vita, come probabilmente in quella di molti altri, occasioni nelle quali ho sentito l’urgenza di richiamarmi a qualche puntello di base, di ripetere il riferimento a qualche testo fondamentale, di ritrovare una bandiera sotto la quale riconoscermi; urgenza squisitamente soggettiva, frutto solitamente di un accumulo di sdegno, di una rabbia montata a poco a poco e fatta traboccare da qualche ultima goccia, di una contingente, ma forte, forse eccessiva, valutazione pessimistica della umana natura. Non sarà così diversa, fatte le debite differenze di intensità e di importanza, dall’urgenza e dalla rabbia che portò i milanesi a fare le barricate delle cinque giornate contro l’intollerabile oppressione austriaca, o i francesi a prendere la Bastiglia contro lo strapotere dei nobili e dell’ultimo Capeto, e di tutte le occasioni nelle quali i tanti oppressi hanno provato e talvolta efficacemente saputo ribellarsi contro i pochi oppressori.

L’esca che mi ha fatto scattare qualcosa nella testa stavolta ― si parva licet, naturalmente ― è quella costituita dall’ultimo episodio di malaffare e ruberia scoperto nel bel paese, quello della regione Lazio, nel cui fiorito merito non intendo minimamente entrare, visto poi che è ormai strombazzato ai quattro venti per le orecchie di ognuno; e che certo non sarà né il più grave, né l’ultimo di una nutrita serie, recente e non recente.

Il testo di riferimento che proprio istintivamente mi è saltato davanti agli occhi è forse il più famoso testo della letteratura inglese, il celebre monologo che Shakespeare fa pronunciare ad Amleto nella prima scena del terzo atto della tragedia omonima: Amleto ha appena finito, nell’ultima parte del secondo atto, di istruire una compagnia di attori appena arrivata ad Elsinore affinché recitino un testo che faccia arrossire di vergogna lo zio Claudio, regnante e novello sposo della madre di Amleto, ma anche recente assassino del proprio fratello, legittimo re di Danimarca, Amleto padre di Amleto. Nella scena prima del terzo atto il re e la sua novella sposa, ed ex cognata, Gertrude, vogliono far incontrare Amleto con Ofelia, per saggiare le vere intenzioni del principe, che nel frattempo si fingeva pazzo per ingannare appunto il re usurpatore ed avere una mano più libera per la sua vendetta.

Amleto passeggia nella reggia e così comincia (una traduzione italiana possibile ad esempio qui)

To be, or not to be: that is the question:
Whether ‘tis nobler in the mind to suffer
The slings and arrows of outrageous fortune,
Or to take arms against a sea of troubles,
And by opposing end them?

L’essere e il non essere qui non hanno il sapore Parmenideo astratto e universale, ma entrano immediatamente nelle stanze dell’uomo e sono sinonimi della lotta contro l’ingiustizia o invece dell’assuefazione rassegnata al potere e all’ingiusto volere dei potenti. Cosa è più nobile, sopportare nella propria mente oltraggi e sofferenze o davvero ribellarsi e dunque far cessare quel mare di angoscia e di dolore: preziosa ambiguità quella di arms che in tutta la tragedia conserva il doppio senso di “braccia” e di “armi”.
Insomma essere significa insorgere, realizzare la propria natura di uomo tra gli uomini, con pari diritti e pari opportunità e significa quindi non tollerare che altri si arroghino diritti e poteri illegittimamente conquistati.
Amleto prosegue:

To die: to sleep;
No more; and by a sleep to say we end
The heart-ache and the thousand natural shocks
That flesh is heir to, ‘tis a consummation
Devoutly to be wish’d. To die, to sleep;
To sleep: perchance to dream: ay, there’s the rub;

ecco la soluzione che sembra più facile ― da «desiderarsi devotamente» ― la soluzione del sottrarsi, dello sfuggire alla vita intera, per far finire quel heart-ache, quel dolore al cuore e del cuore e quei «mille naturali turbamenti» che costituiscono la nostra terribile eredità di uomini. Ma qui, si obietta Amleto, qui nell’incertezza che avvolge ciò che avviene dopo la morte «Morire, dormire, forse sognare» sta la difficoltà, the rub è tipicamente nel gioco delle bocce qualsiasi ostacolo che impedisca alla boccia di percorrere il cammino stabilito. Ed è questo l’ostacolo che fa esitare il sofferente dal togliersi di mezzo definitivamente, l’incertezza del dopo, interrompere il cammino della boccia non si sa dove porti.

For in that sleep of death what dreams may come
When we have shuffled off this mortal coil,
Must give us pause: there’s the respect
That makes calamity of so long life;
For who would bear the whips and scorns of time,
The oppressor’s wrong, the proud man’s contumely,
The pangs of despised love, the law’s delay,
The insolence of office and the spurns
That patient merit of the unworthy takes,
When he himself might his quietus make
With a bare bodkin? who would fardels bear,
To grunt and sweat under a weary life,
But that the dread of something after death,
The undiscover’d country from whose bourn
No traveller returns, puzzles the will
And makes us rather bear those ills we have
Than fly to others that we know not of?

Non perde l’occasione Shakespeare per un piccolo elenco di mali che opprimono l’uomo del suo tempo, dalle male azioni degli oppressori all’insolenza delle cariche ufficiali ― come non sentire una carica di acuta modernità ― ; ma la coscienza dell’incertezza ci rende tutti codardi:

Thus conscience does make cowards of us all;
And thus the native hue of resolution
Is sicklied o’er with the pale cast of thought,
And enterprises of great pith and moment
With this regard their currents turn awry,
And lose the name of action.

E nessuno più osa, né togliersi di mezzo, né prendere le arms e ribellarsi contro il mare dell’ingiustizia dilagante.
C’è però un momento, questo è il messaggio che ho sentito forte e chiaro, in cui occorre smettere di leggere Shakespeare e dare coerente seguito al proprio coraggio e alla propria più autentica natura di uomini.

[ho usato, come ormai tutti fanno, il testo con ortografia modernizzata; chi volesse vedere l’originale vada qui a vedere i quartos e il first folio]

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2 Commenti

  1. dunque:
    To fight, or not to fight: that is the question:
    Whether ’tis nobler in the mind to suffer
    The slings and arrows of outrageous politics,
    Or to take arms against a sea of criminals,
    And by demonstrating end them?
    (dubbi di un Amleto laziale/britannico/danese)

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Antonio Sparzani, vicentino di nascita, nato durante la guerra, dopo un ottimo liceo classico, una laurea in fisica a Pavia e successivo diploma di perfezionamento in fisica teorica, ha insegnato fisica per decenni all’Università di Milano. Negli ultimi anni il suo corso si chiamava Fondamenti della fisica e gli piaceva molto propinarlo agli studenti. Convintosi definitivamente che i saperi dell’uomo non vadano divisi, cerca da anni di riunire alcuni dei numerosi pezzetti nei quali tali saperi sono stati negli ultimi secoli orribilmente divisi. Soprattutto fisica e letteratura. Con questo fine in testa ha scritto Relatività, quante storie – un percorso scientifico-letterario tra relativo e assoluto (Bollati Boringhieri 2003) e ha poi curato, raggiunta l’età della pensione, con Giuliano Boccali, il volume Le virtù dell’inerzia (Bollati Boringhieri 2006). Ha curato due volumi del fisico Wolfgang Pauli, sempre per Bollati Boringhieri e ha poi tradotto e curato un saggio di Paul K. Feyerabend, Contro l’autonomia (Mimesis 2012). Ha quindi curato il voluminoso carteggio tra Wolfgang Pauli e Carl Gustav Jung (Moretti & Vitali 2016). È anche redattore del blog La poesia e lo spirito. Scrive poesie e raccontini quando non ne può fare a meno.
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