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Adage Adagio – Appunti I-IX

di David Nettleingham e Christopher Hobday

studio e traduzione a cura di Federico Federici

*

Strange fruit

Scritto nell’arco di un anno, Adage Adagio, uscito originariamente in Inghilterra nel 2009 per The Conversation Paperpress, è un dialogo in versi tra due poeti di formazione diversa: David Nettleingham, ricercatore e insegnante di sociologia presso l’Università del Kent e Christopher Hobday, specializzatosi in Letteratura inglese e americana presso la stessa Università in Canterbury.

L’ispirazione per questo lavoro nasce dall’infittirsi delle discussioni tra i due autori sull’origine del vivere sociale, su quel nature versus nurture che separa la “naturalità” dalle sue elaborazioni o trasposizioni nella “società” degli uomini. Adage Adagio esprime il serrato confronto tra due posizioni distinte che tentano a ogni verso di misurare la propria distanza, di spiegare o confutare le rispettive ragioni. L’intera raccolta funziona sull’espediente dialettico di antitesi e tesi nel tentativo di risolvere la contrapposizione di fondo: da un lato Nettleingham, convinto di una matrice essenzialmente sociale dell’uomo, dall’altro Hobday, che non separa mai completamente i contesti da un a priori naturale, quasi una predisposizione genetica al libero arbitrio. Le due prospettive convergono su ciò che Nettleingham chiama “memoria” e Hobday “ereditarietà”, qualità innate o espressioni di una volontà che rendono però ogni individuo parte di qualcosa di radicale. Con una metafora, si potrebbe dire che ogni foglia è tale secondo la propria specie, ma vive solo se sono vive le radici dell’albero cui appartiene.

La dicitura “Appunti I-X” del sottotitolo non sia fraintesa. Non si tratta di un archivio provvisorio che rimanda a un’analisi e un’interpretazione (anche poetica) successive. La prima stesura costituisce solo lo strato più profondo, quello su cui si sono accumulati i dati veri e propri. Ne sono però rimasti sparsi affioramenti che costituiscono passaggi di un realismo tanto più crudo e vivo quanto più isolato all’interno di un’elaborazione anche complessa e raffinata.

Il linguaggio attraversa verticalmente tutti i piani della raccolta, contribuendo in certi casi a strutturarla fisicamente, attraverso la peculiarità delle scelte stilistiche o i rimandi visivi enfatizzati dalla disposizione del testo. È infatti nella materia linguistica che sedimentano e resistono i segni, le nuove convenzioni, i connotati sociali di chi si esprime. Non si può parlare di lingua in senso astratto, pura, libera da valori e norme d’uso, né si può intendere il suo utilizzo al di fuori di un rapporto di reciproca comprensione con il destinatario del messaggio. Nel caso di Adage Adagio tale dinamica risulta intrinseca al processo di scrittura: l’interpretazione del testo, così come solitamente appartiene a un lettore esterno dell’opera finita, entra qui come forza creativa, partecipa alla scrittura attraverso il meccanismo di interrogazione-risposta nel dialogo tra i due poeti. La comunicazione si stabilisce prima su dati oggettivi, si sviluppa poi con soluzioni differenti, secondo uno schema formale più controllato in Hobday, più libero in Nettleingham.

Procedendo per analogie tra vicenda personale e quadro storico, in un continuo gioco di messe a fuoco tra particolare e generale, i due autori aspirano a scoprire un movente profondo della storia, un tratto unico che decifri la realtà senza ridurla al carattere esemplare di un momento. L’assassinio di Francesco Ferdinando, erede al trono dell’Impero austro-ungarico e di sua moglie, la contessa Sophie, per mano di Gavrilo Princip, gli stupri di massa delle donne rifugiate in Ciad, le deportazioni di prigionieri e schiavi non sono che i pesi e i contrappesi di un meccanismo più complesso, spesso fuori controllo, che viene smontato e riprodotto nelle miniature del testo, come se la parola riuscisse a far scattare all’unisono i cortocircuiti della storia, azzerando il quadro in un black out generale.

La frattura dei versi nel quarto appunto diviene luogo fisico (non solo metrico) nella discontinuità del margine interno tra le pagine. Il testo si dispone a libro aperto su due versanti come una macchia di Rorschach, nella quale la metà storica (a sinistra) imprime una rappresentazione metaforica (a destra), tentando di istituire un paradigma tra figura storica e figura psicologica, con ciò legandole indissolubilmente. Il rispecchiamento a doppia pagina delle strofe risulta significativo sia in sequenza che in parallelo, con ciò esprimendo la trama complicata della natura umana.

Un altro ardito espediente metrico, questa volta con effetto deformante, si propone nei versi in chiusura dell’ottavo appunto e la conclusione è «una caricatura grossolana».

Le parole-scorie che puntellano il quinto appunto, incisive come resti di rovine su un paesaggio, o quelle isolate nell’enfasi della simmetria («un fucile a te e/ uno a te»), costringono alla contrazione del respiro, segnano radure, rifugi, approdi. La rabbia e la frustrazione nei residui coloniali disseminati in mezzo mondo acquistano, nella frantumazione del verso, un tono netto e accusatorio.

La disposizione a scale delle terzine legate in rima nel sesto appunto riproduce altrettanti appigli di una faticosa salita, nella quale la volontà, costantemente messa alla prova dalla resistenza sociale, sembra prevalere e aprirsi un varco. I versi appaiono sospesi o svanire nel nulla di una tensione tragica smorzata, dove la parola si fa più dolorosa e per questo impronunciabile. Come nel nono appunto, dove il risentimento è inibito da un senso di fatalità e la compattezza del testo, adatta più a nascondere che a rivelare, esprime nella sua forma chiusa l’oppressione.

Nel quarto e quinto appunto c’è poi l’intonazione dolorosa della voce di Billie Holiday in Strange Fruit: «l’edificio della legge/ la regola del sangue», le sembianze grigie di bambole addormentate o i fiumi colorati di rosso «sotto un altro carico di schiavi/ a bocca secca e febbricitanti», la tratta di un intero popolo battezzato e sospinto verso Sud richiamano l’esibizione tribale del «sangue sulle foglie e sangue alle radici», di quel «frutto che i corvi beccano,/ la pioggia coglie, il vento succhia,/ il sole fa marcire, gli alberi lasciano cadere». Gli uomini sfiniti e uccisi o venduti sono i frutti di quel raccolto amaro e strano, sono oggi gli stessi di ieri.

L’identità di un popolo è scritta nei nomi dati ai luoghi della propria terra, fiumi, paesi, montagne e alle proprie divinità, è consegnata dagli antenati nei nomi dei loro eredi. Ben consapevole di questo, chi vive sotto occupazione straniera deve anzitutto mettere in salvo l’invisibile per sperare in un riscatto.

La grande varietà di schemi metrici, l’uso libero del parlato o di prestiti da ambiti diversi rispecchiano l’aderenza problematica del testo alla materia; la cronaca e la storia sono così tentate alla voce poetica. La struttura governa sempre l’invettiva, le conferisce la misura dell’ispirazione, la forza persuasiva della riflessione. Il rapporto tra forma e significato ricalca quello tra morfologia e funzione in un organismo vivente. Ogni tentazione di enfasi retorica è assorbita in una lingua secca e precisa, o sepolta in un magma impregnato di miti.

Frequenti sono anche i richiami ad elementi archetipici: il battesimo degli idoli, la fertilità dei morti, la pietra degli alchimisti (qui scagliata come un’arma), le figure dei fiumi e delle sorgenti. Ciò permette di interpretare i materiali dell’attualità in chiave storica e antropologica, ponendo idealmente il passato di fronte alla sua responsabilità nel presente.

Come annota Joseph Campbell in Mitologia primitiva, elaborare la contraddizione tra ciò che è “elementare” e ciò che, viceversa, è dato “etnico” richiede di allentare continuamente la tensione tra “innato” e “acquisito”, tra “natura” e “cultura”. Per tale ragione, un approccio limitatamente poetico o la redazione di un resoconto storico o giornalistico rischiano di concettualizzare troppo (o troppo poco) la questione, riducendo il movente della storia a un ideale o a un atto esemplare. Occorre perciò appropriarsi di altri strumenti di indagine, elaborare la lingua, studiare la biologia, capire dove sociologia e psicologia riescono forse a marcare una distinzione tra il carattere individuale e un’attitudine collettiva.

Il quadro di riferimento è certamente ideologico, riconducibile, per parte di Nettleingham, a posizioni anticapitalistiche, mentre, per parte di Hobday, a un liberalismo egalitario e progressista. Sullo sfondo di Adage Adagio si agitano figure diverse, ciascuna con un proprio peso nella formazione dei due autori, si depositano le esperienze della letteratura post-sovietica su capitalismo, comunismo e progresso storico, le perplessità sui canoni politici e storici che veicolano esperienze ed ideali per intere generazioni, la chimera (condivisa da entrambi) che sia possibile solo un’anima buona per il progresso.

L’attacco frontale al sistema non si rifugia in un’ideologia monolitica per giustificarsi. I ripetuti conflitti in Darfur e a Timor Est, in Bosnia, il genocidio del Ruanda («hanno i corpi derelitti del Ruanda/ solo più un’anatomia di scarto») configurano altrettante fratture nella linea della storia, che procede a scatti, amalgamando le diversità non in nome dell’uguaglianza ma dell’egemonia. Gli Stati e i loro confini non sono che l’espressione politica e militare di questa idea e l’economia ne quantifica il valore contingente.

La ricerca di responsabilità svela una questione di principio, fondamentalmente antropologica, che accomuna tutti gli uomini, «da galileo a ribbentrop» (la diminuzione dei personaggi storici a categorie è sarcasticamente segnata dalla perdita dell’iniziale maiuscola). L’incapacità dell’uomo, qualsiasi uomo, in qualsiasi epoca e quale che sia la sua qualità morale o intellettuale, è essenziale. Nessuno riesce a caricare su di sé il peso dell’intera società. Anzi, la stessa fisionomia della “comunità umana” sembra piuttosto ricalcata su quella di un “mercato comune”, la cui sussistenza è cinicamente indiscutibile. Lo spazio per l’alternativa o il dissenso è anestetizzato nella festosa libertà del folclore o disperso in mille forme e organizzazioni che non raggiungono a interferire davvero con la rappresentanza politica.

La conclusione restituisce un’impressione di impotenza, nega quasi libertà d’arbitrio all’uomo, condannato a esprimere senza intenzionalità la propria innata violenza, con ciò rendendosi per carattere imperdonabile e incorreggibile.

Date le molteplici possibilità d’errore nella valutazione di termini come verità e giustizia, non si dovrebbe mai sostenere un ideale imponendolo con la forza dell’autorità. Piegarsi a un ideale significa adottarlo per sé senza comprenderlo, senza sentirne la necessità. E un buon ideale deviato non è meno pericoloso di uno sbagliato. Ciò che degrada progressivamente tutti i valori a nomenclatura vuota è la loro identificazione/sostituzione con le loro rappresentanze (o rappresentazioni) in enti astratti quali ministeri, associazioni, istituti («chi provò a salvarli/ spedì almeno un po’ di cibo/ custodito in un escremento di topo»). Non è possibile costruire la società perfetta perfezionandone l’autorità, elaborando la cornice senza il quadro. La perfezione del contenitore è salva solo a contenitore vuoto. L’ordine sociale si colloca nel difficile equilibrio tra natura e storia e spesso coincide solo con la condizione di minima criticità. L’imprevedibilità dell’individuo è innata e presto o tardi mette in discussione qualsiasi insh’Allah. Il flusso della storia non può essere congelato, è nello spirito del tempo. La dialettica del continuo distruggersi per ricrearsi indica quasi l’impossibilità di «un’altra storia» al di fuori di questo «antagonismo fatale», parafrasando Engels. Il progresso o il regresso di una società non possono essere allora visti come fattori disgiunti, in positivo o in negativo, ma elementi concorrenti alla comune dialettica della storia.

Il tentativo di schiacciare il mondo su un mercato unico, un ordine sociale unico, una cultura unica, trova l’ultima resistenza nella lingua che, anche quando si riduce a “lingua comunicativa”, non perde completamente l’inventiva, non si irrigidisce nella retorica di un codice fissato una volta per sempre (e per tutti): «immagina di non avere lingua, di non avere mai/ saputo della morte, della vita. Immagina la forma/ alle parole, o quei costrutti adatti nelle frasi/ a esprimere l’astrale inclinazione/ al contrattare e poi rimpiangere».

Nel sesto appunto, il nemico non è raffigurato disumano, diverso o straniero secondo il cliché della propaganda bellica. Al contrario, il combattente e il nemico sono accomunati nell’unico destino della disgrazia della guerra e della violenza, potrebbero addirittura scambiarsi un destino di morte («bene, questo è il mio fucile/ luccicante in pieno sole/ su chiunque// sui soldati dei nemici, gli ufficiali,/ tutti senza indicazioni, i civili,/ noi due lì»). I ruoli non sono stabiliti per diversità, né è sufficiente un movente personale o l’istigazione della storia: come per Gavrilo Princip «fu innata in mano l’arma», «se a mettermi qui al fronte col nemico/ fu il passato, fare fuoco/ sarà solo affare mio».

L’assuefazione delle masse alla rappresentazione ha reso tollerabile l’altrui morte, cancellato ogni senso di pietà: «poi toccò alla Bosnia/ tutta la paura,/ quella cosa battezzata ‘protezione’,/ non guardavi almeno altrove./ Spettatore allo sterminio/ ti muovevi piano/ invece che fissarti i piedi/ intorno a quell’intrico di radici». Il dolore si quantifica, è una merce: migliaia, milioni di persone senza volto, voce o nome contribuiscono con un solo corpo alla cifra della morte, senza distinzione. Resiste a volte appena lo stupore di fronte al numero, ma il dolore vero, la sua qualità individuale è persa, soffocata proprio nella sproporzione, mentre al dolore si accede (e per sempre in quel dolore si resta) soli. Ma la soluzione è pronta: «tutti a morte, e che dio si prenda i propri».

E allora «tu sforzati, piccino, come dicono -/ tu spingi» e se, per usare un’espressione cara a Nietzsche, l’essere umano è das kranke Tier, perciò «vivere è un tormento».

Federico Federici

***

I

Drowned idols are the seeds
of a new beginning,
a barren plea to the fertile dead,
a way of understanding
the movement of rivers.

All life resting on a tide,
pooling in uneven fractures;
silt and skin indefinable
at its banks, where thankless crowds
deepen even the shallows

and the elaborate harmony
of belly laughs is purifying,
sweating out salt flats
and immovable pillars,
breaking the surface of a single thought.

From without, these rare landmarks
of crowns and headdresses,
they are mountains rising
from the river, forcing
us around to secure the tread-water

and within, swim those
who would navigate these new stars,
with maps of the Indus
and broken instruments.
Within, it is a breaker’s yard.

So as engines rust in brushstrokes
in the reed beds and a thousand feet
rest their city, their idols drown
in some act of baptism
knowing little difference.

– DN

*

I

Semi a un nuovo inizio sono
gli idoli annegati, la supplica
rivolta sterile alla fertilità dei morti,
un modo di far proprio
il movimento dei fiumi.

L’intera vita ha un corso,
filtra in crepe scabre;
indefinibili detriti e pelle
alle sue rive, ingrate folle
approfondiscono le secche

e l’armonia complessa di risa
viscerali purifica, essuda distese
salate e pilastri irremovibili,
frantuma in superficie
il singolo pensiero.

Le rare insegne di corone
e copricapo son da fuori
come i monti sopra il fiume,
ci forzano a serrare
i ranghi e a stare a galla

e dentro, esploratori a nuoto
di questi nuovi astri
consultano su mappe l’Indo,
hanno strumenti rotti.
È un cimitero di navi dentro.

La ruggine spennella sui motori
nei canneti e spianano a migliaia
i piedi la città, affogano
quegli idoli in battesimi,
non sono consapevoli.

***

II

Stop. Go back. Hypnotic regression
to the time spent in that room
empty except for your mind,
where thought did not begin, end, resume

but was continuous, flowing off the loom,
long strands of thinking now consigned
to history. Time was up, your birth
plucked you out before you could find

a grasp on the line. Now your kind
of which you are alone upon the earth
is exiled from that perfect home
where the material was of no worth

whatever. Paradox: the dearth
is what strikes you here, mass of loam
that is the universe and its content
seems as nothing, your only home

slowly and surely buried, its dome
vanished, tomb without vent
where the you that was first climbs walls
and howls without relent.

There is a sense of energy unspent,
locked up with a wicked twin who calls,
calls you back and sends you forth,
haunts and hates the wherewithalls

and draws you to him with a savage passion,
his noisy cell your magnetic north.

– CH

*

II

Fermo. Indietro. Regressione ipnotica
al tempo in quella stanza
vuota fuor che per la mente,
dove non aveva a più riprese inizio

o fine il pensiero, ma al telaio
lì filava ininterrottamente
consegnandosi alla storia. Giunta l’ora,
per nascita strappato prima che trovassi

appiglio a un filo, la specie di cui sei
il solo esemplare in terra
è già in esilio dalla pur perfetta casa
dove nulla era sostanza materiale.

Ciò che più ti affligge qui è paradossale:
la carestia. Se l’universo è massa
di concime, ciò che ha dentro
è nulla e prima o dopo seppellita

la tua sola casa, la sua cupola svanita,
non sfiata più il sepolcro
dove l’alter ego tuo di allora
scala muri e geme senza requie.

C’è un senso di energia quiescente,
in perfido gemello prigioniera
che ti richiama a sé e poi ti allontana,
perseguita chi ha tutto e in fondo odia

ti tira a sé con furia più selvaggia,
ti segna il nord, è cellula che ti frastorna.

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1 commento

  1. splendida proposta. cosa bella. non conoscevo questi autori. letti e riletti. complimenti al poeta e traduttore Federici per il lavoro raffinatissimo di traduzione e a Raos del quale da un po’ apprezzo e seguo la ricerca poetica.
    un saluto
    paola

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