Bruciati vivi

Di Francesca Ceci

Ci sono crimini peggiori del bruciare i libri. Uno di questi è non leggerli”.
Iosif Brodskij

C’è un filo conduttore, che mi piace pensare sia di colore rosso, che del resto non potrei immaginare di nessun altro colore.

Unisce, o forse divide, le vicende e i punti di vista che ruotano attorno all’idea di libro in sé, al potere che le pagine sono in grado di generare e alle paure che le parole di altri messe per iscritto riescono a creare. A pensarci bene, appare inverosimile l’enorme differenza che assumono i concetti nel momento in cui vengono scritti o solo pronunciati, con netta prevalenza dei primi sui secondi, come se altrimenti, una volta espressi, evaporassero nell’aria con ciò che volevano significare. Come se gli stessi concetti, pensati e discussi a tavola, in assemblea o semplicemente tra sé e sé, cominciassero ad esistere solo nel momento in cui gli viene data forma concreta ed evidente. Col rischio che inizino a vivere di vita propria.

Probabilmente ciò che ha da sempre spaventato e terrorizzato l’altro – questa entità generica in grado di assumere le forme di chiunque, dal vicino di casa al regime di stato – è l’idea stessa di vita propria, della relativa indipendenza o della conseguente presumibile capacità di diffusione e condivisione che assumono quelli che erano solo pensieri astratti una volta impressi – per lo più, o forse ormai non più? – sulla carta.

È stata la paura la caratteristica costante di ogni stato evidentemente o velatamente autoritario, ogni uomo – generalmente autoproclamatosi – dittatore ha riconosciuto nel libro il proprio peggior nemico, non in un volume specifico o in un singolo né gruppo di autori, bensì nell’idea stessa di libro quale contenitore di qualcosa di esule dal proprio volere e controllo, quasi sempre a questi opposto. Ulteriore riprova della non conoscenza dei testi medesimi, da condannare in gruppo.

E da tale concezione alla conseguente soluzione il passo sarà sembrato breve.

Come in sasso\carta\forbici il sasso vince sulle forbici e la carta sul sasso, il filo rosso ci porta in modo naturale ad immaginare che sulla carta vinca sempre il fuoco o, per continuare a giocare, che su di essa prevalgano comunque le forbici della censura.

E quando non si sa esattamente a cosa servono queste forbici, per cosa si gettano i fiammiferi accesi e che cosa la censura esattamente si illude di proteggere, o meglio nascondere, si rischia la più ridicola conseguenza dell’ignoranza. Come in quella che è diventata la favola grigia dei militari cileni, che per ordine di Pinochet avrebbero dovuto bruciare i testi non graditi e che, per eccessiva solerzia, per paura di sbagliare o forse perche sfogliandoli avranno confuso le forme astratte con le onde del Malecón, finirono col dare fuoco ai libri d’arte cubista piuttosto che a quelli di storia cubana e castrista. Un tipico esempio di crasi incompresa.

A immaginarlo dopo quasi quarant’anni l’aneddoto fa sorridere e scuotere la testa o chiudere gli occhi e restare in silenzio.

E cosa ne avrebbero fatto, mi chiedo, gli stessi militari, se si fossero imbattuti invece nelle opere di uno scrittore cubano ostacolato e ingannato da quel medesimo governo di cui essi si trovavano a dover cancellare le tracce? Quale prepotenza sarebbe prevalsa, e in nome di quale principio, tra i due opposti, che pure si regolano allo stesso modo per l’eliminazione dei nemici di carta?

Di Reinaldo Arenas, lo sposo del mare, impressiona la perseveranza e la passione, l’una il prosieguo dell’altra, la prima la causa della seconda o viceversa.

Scrittore e omosessuale cubano, visse, scrisse e amò nello stesso tempo e in ordine sparso, ostacolato sotto ogni fronte. Non gli era riconosciuto alcun diritto di amare, tanto meno di scrivere, ancor meno di partire, eppure nella sua vita raccontata riuscì ugualmente in tutto questo. Innamorato dei suoi lavori controversi come di pochi dei tanti uomini che incontrò sulle spiagge di Cuba, fu costretto a scrivere dell’amore quotidiano, delle idee comprese e condivise con i compagni che sopravvivevano come lui e semplicemente e amaramente delle conseguenze del regime di Castro, nascosto nei parchi pubblici, arrampicato su un albero, con il solo aiuto della luce del giorno: “Cominciai a scrivere le mie memorie sul quadernino che Juan mi aveva portato. Il titolo, appropriato, era Prima che sia notte: scrivevo fino a quando si faceva buio, aspettando la notte in cui sarei stato preso dalla polizia. Dovevo farlo prima che il buio scendesse, definitivamente, su di me; prima di finire in cella. Poi quel manoscritto, come quasi tutti gli altri che avevo scritto a Cuba e che non ero riuscito a portare fuori dal paese, andò perduto, ma in quel momento scriverlo era per me una consolazione; era un modo per rimanere con i miei amici quando non lo fossi stato più”.

Fu costretto a nascondere i propri manoscritti sottoterra nelle campagne da cui proveniva o sotto le tegole del tetto della camera che abitava, per evitarne la distruzione che, puntuale, avveniva ugualmente.

Esprimeva idee spaventose o solamente le sue, ma così tenaci da essere ricopiate e ribadite allo stesso modo dopo ogni distruzione più e più volte, con le stesse parole e nello stesso volume che tornava ogni volta in vita. La persecuzione del suo io e l’annullamento delle sue parole non furono sufficienti ad assassinarlo, ma lo aiutarono ad uccidersi da solo, esule paradossale negli Stati Uniti.

Cosa temere così fortemente da libri appassionati come quelli di Arenas e dalle sue tristi poesie?

È la stessa domanda che mi sono posta tenendo il filo rosso dal capo opposto, soppesandolo per cercare di capire quando e come sia il singolo ad attribuirsi il coraggio di appiccare il fuoco ai libri che ha letto.

 Pepe Carvalho è il personaggio di Manuel Vázquez Montalbán che definisce la propria biografia impresentabile: “Ex rosso. Ex agente internazionale. Amante di una puttana più selettiva che seletta”. È intelligenza, disincanto e cinismo allo stato puro e ognuna di queste sue qualità – impossibile definirle difetti – trova fondamento e concretezza nell’abitudine di scegliere dall’ampia libreria, talvolta a caso ma più spesso consapevolmente, nelle serate trascorse nella casa sulla collina, un libro destinato poco dopo a non esistere più.

È l’uomo che dichiara tra le righe di preferire la letteratura alla vita, e allo stesso tempo è colui che non rimpiange di alimentare il caminetto con le pagine da lui stesso strappate da quei libri che pure lo hanno formato e accompagnato e dai quali, ad un certo punto del proprio percorso, sembra sentirsi tradito e deluso, come se si trattasse di persone viventi. Ed è per questo che li brucia vivi.

Carvalho si mise in macchina e prese a salire il Tibidabo per tornare nella sua casa di Vallvidrera. Gettò nel secchio della spazzatura tutta la pubblicità trovata nella buca della posta, accese il caminetto con “La filosofia e la sua ombra” di Eugenio Trias, calcolando che avrebbe dovuto un po’ dosare il lento rogo della sua biblioteca. Gli restavano all’incirca duemila volumi, a un libro al giorno ne aveva per sei anni. Bisognava stabilire qualche pausa tra libro e libro, o acquistarne altri, e la semplice possibilità lo disgustava. Forse dividendo in due parti ogni tomo della “Filosofia” di Bréhier e facendo altrettanto con la collana dei classici della “Pleiade”, avrebbe potuto resistere più a lungo. Gli spiaceva bruciare i classici della “Pleiade” che riteneva piacevolissimi al tatto. Talvolta li prendeva in mano per accarezzarli e li rimetteva nell’inferno paralitico degli scaffali cercando di evitare il ricordo di passate letture che un tempo aveva creduto lo arricchissero”.

Diventa la sua abitudine nelle serate di solitudine, condivisa poche volte con le rare persone che hanno accesso alla sua casa e al suo punto di vista sulla disillusione creata dalla cultura, come se tutte le storie e gli uomini in essa racchiusa non aiutassero affatto a vivere.

La prima volta che lessi le storie di Carvalho e cominciai a chiarirmi di che tipo di personaggio si trattasse, le reazioni furono discordanti e sospette, inconcepibile dar fuoco a uno scritto, gesto simbolico per antonomasia dell’insabbiamento e dell’appiattimento umano. Non reputavo in alcun modo pensabile che la difesa contro il personale disadattamento potesse essere la distruzione di quelli che consideravo la fonte di molti dei nostri pensieri, più forte talvolta degli spunti offerti dalla vita stessa. Continuando a leggere le sue avventure e le sue teorie, a incontrare gli stessi personaggi che incrociava lui, provenienti da tutti i mondi possibili, e soprattutto seguendo, talvolta condividendo, le riflessioni che da tutto questo scaturivano, ho iniziato a temere che tanta presunzione potesse celare una qualche effettiva ragione.

Non avrei saputo dire quanti libri avevo letto da meritare addirittura il rogo, certo è che la lettura mi aveva aperto e ottenebrato la mente allo stesso tempo, mi aveva dischiuso alla mera bellezza delle parole e alle loro infinite inimmaginabili combinazioni, e contemporaneamente aveva creato nella mia testa ambizioni e miraggi, ingannevoli abbagli, forse allucinazioni, di storie che da qualche parte pure dovevano esistere, senza che riuscissi a capire esattamente dove.

Avrei voluto discutere con lui di questo davanti al camino di Vallvidrera. Ma da lontano mi limito a fare un nodo a quel che resta del filo rosso, per ricordarmi di centellinare lentamente i libri che ancora mi restano da leggere e che lui, volente o nolente, non brucerà più.

(Francesca Ceci – 1979 -, ha pubblicato racconti nelle antologie Cose a paroleGiulio Perrone; Parole in corsa; 150 strade; Silenzio, parlano i libri; Roma da scrivere; Napoli Cultural Classic. Un suo racconto, “Dieci volte forse”, è risultato terzo classificato nella I edizione del Premio “Io, Massenzio” nell’ambito del Festival delle Letterature di Roma).

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3 Commenti

  1. Con lievità (ma sia chiaro niente a che fare con la superficialità) l’autrice di “Bruciati vivi” propone un’acutissima riflessione sul valore socio-culturale della scrittura e, dunque, per estensione del libro. Intrigante, poi, il dialogo impossibile con certi personaggi letterari che evidentemente l’autrice ha molto amato e che grazie alla sua invenzione diventano veicolo, e metafora, per amare ancora di più (per chi già la pratica) la parola scritta e indurre altri a scoprirla.

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Vivo e lavoro a Roma. Libri: Lettere a una fanciulla che non risponde (romanzo, Bompiani, 2024), Qualcosa sulla terra (racconto, Industria&Letteratura, 2022), Storia aperta (romanzo, Bompiani, 2021), L'isola di Kalief (con Mara Cerri, Orecchio Acerbo 2021), Il regno dei fossili (romanzo, il Saggiatore 2019), Mio padre la rivoluzione (racconti, minimum fax 2017. Premio Campiello-Selezione giuria dei Letterati 2018), Stati di grazia (romanzo, il Saggiatore 2014), Città distrutte. Sei biografie infedeli (racconti, Gaffi 2012. Nuova edizione: il Saggiatore 2018. Premio SuperMondello e Mondello Opera Italiana 2012). Provo a leggere i testi inviati, e se mi piacciono li pubblico, ma non sono in grado di rispondere a tutti. Perciò, mi raccomando, non offendetevi. Del resto il mio giudizio, positivo o negativo che sia, è strettamente personale e assolutamente non professionale. d.orecchio.nazioneindiana@gmail.com Questo è il mio sito.
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