Violenza e nuova violenza in Sudafrica

di Corrado Benigni 

A un criminale non importa più se sei bianco o nero (e i criminali frutto della miseria, ora che non c’è più un regime di polizia, sono ovunque), ma quanto è gonfio il tuo portafoglio. Questa è la nuova faccia della criminalità in Sudafrica, uno dei Paesi più violenti al mondo, soprattutto in questi anni che la “lotta” è finita, che il regime segregazionista è crollato. E la violenza non è più solo a Johannesburg – conosciuta da sempre come una delle città più pericolose del pianeta – ma anche nella splendida e raffinata Cape Town, lungo le sue strade scintillanti di negozi. Attraversando i quartieri residenziali della “mother city” (come la chiamano i locali), ancora a maggioranza bianca, sembra che la vita qui sia in stato d’assedio. La stragrande maggioranza delle ville è protetta da alte mura, sovrastate da filo spinato e, spesso, da recinzioni elettrificate. E quasi tutti i loro inquilini sono abbonati a un servizio di security privata, con guardie armate che, se allertate, ti piombano in casa ad armi spianate nel giro di pochi minuti. Un cartello verde appeso al cancello parla chiaro: “Armed reaction”.
La criminalità è uno dei maggiori problemi oggi del Sudafrica, dove nella sola Johannesburg ogni giorno sono commessi in media 17 omicidi. Protagonisti di atti di violenza sono soprattutto ragazzini e adolescenti, tsotsi, come vengono chiamati nel gergo del ghetto, giovanissimi che dalle periferie delle township si spingono fino al centro delle città, dove i furti e le rapine sono più “redditizi”. Si muovono sempre in gruppo, ai bordi delle strade, lungo i marciapiedi, vestiti di stracci e sghignazzanti; sotto le magliette nascondono coltelli e pistole, che ogni tanto si intravedono. Sono loro le vittime “ingenue” di un contesto dove non si sente il peso di una coscienza e di una dignità perché mancano le fonti a cui ispirarsi. Questi ragazzini allo sbando, senza occupazione, costretti a vivere di espedienti, arrivano quasi sempre da un passato difficile di povertà assoluta e di abbandoni, molti di loro sono orfani di genitori morti troppo presto di AIDS (prima causa di decesso in Sudafrica), dunque costretti già da bambini a fare i conti con la durezza della vita, una vita che ai loro occhi, forse, sembra svuotata di ogni possibile valore. Chi non ha niente da perdere non conosce la paura, chi ha un passato da dimenticare non ha ragioni per difenderlo, come spiega la guida che mi accompagna lungo le strade di Langa, la township più vecchia e grande di Città del Capo, dove la popolazione nera (quasi 50 mila individui) è stata segregata per decenni, con il divieto di entrare in città se non esibendo un apposito visto. Langa assomiglia poco a Soweto, la più famosa township di Johannesburg, dove accanto a baracche di lamiera (rifugio dei più sfortunati) ci sono i lussuosi palazzi dei nuovi ricchi e dove si trovano anche cliniche private, scuole e asili di alta qualità. Langa è perlopiù costituita da baraccopoli quasi sempre prive di strutture sanitarie, acqua potabile e collegamenti elettrici. Qui la popolazione nera vive ancora adesso pressoché nelle stesse condizioni di arretratezza dai tempi dell’apartheid. Da quasi vent’anni agli abitanti delle township è stata promessa un’esistenza decente, ma nulla è cambiato. Anzi, la crescita economica non solo non ha colmato, ma ha approfondito le disparità tra gruppi sociali, lasciando i poveri ancora di più nella miseria. Così la frustrazione diventa un terreno fertile per la violenza e la criminalità è quindi un modo come un altro per uscire da situazioni di povertà. Da un recente studio del governo sudafricano su giovani criminali è emerso che la maggior parte di loro non era cosciente di avere commesso qualcosa di riprovevole. E questo forse è il dato più allarmante: il crimine vissuto come un fatto normale, un modo come un altro per procurarsi da vivere, a cui si aggiunge un clima di impunità diffuso: la maggior parte dei reati rimane senza colpevole.
Sono spesso i turisti a subire aggressioni. Qualche giorno prima della mia partenza da Cape Town un viaggiatore italiano è stato vittima di una rapina da parte di una banda di teppistelli, come ci ha raccontato lo stesso sfortunato protagonista: «Sono andato a uno sportello per fare un prelievo e quando mi sono voltato mi sono ritrovato strattonato da un gruppo di ragazzini. Ho cercato di impedire che mi rubassero la tracolla che tenevo in mano, ma nel trattenerla uno di loro mi ha sferrato una coltellata sull’avambraccio. Risultato: lacerazione dei tendini». La polizia – che negli ultimi anni, soprattutto in occasione del campionato del mondo di calcio del 2010 si è arricchita di 60mila nuovi agenti– cerca di proteggere gli stranieri dalle aggressioni, spesso scortandoli almeno nei luoghi più frequentati della città, allontanando in modo anche brutale, quasi come fossero animali, tutti coloro che cercano di avvicinarsi a loro, anche se a volte si tratta di poveri e innocui mendicanti in cerca solo di qualche monetina.
Così, girando per le vie di Cape Town, mi chiedo: «Ma l’apartheid può davvero dirsi finito in Sudafrica? E quel “lungo cammino verso la libertà” (per citare il titolo della bellissima autobiografia di Nelson Mandela), che avrebbe dovuto portare il popolo nero verso la conquista della dignità umana, si è compiuto?» Certo il processo di “normalizzazione” è complesso e richiederà ancora molti anni. Tuttavia visitando questo Paese, dai grandi centri ai piccoli villaggi del Nord, si ha l’impressione che questo cammino sia ancora solo all’inizio, nonostante siano passati più di due decenni dalla liberazione di Mandela e dall’abolizione delle leggi razziali. Una minoranza di persone di colore ha potuto arricchirsi andando a far compagnia all’élite bianca, che ancora detiene il potere politico ed economico, mentre il paese registra un tasso del 40 per cento di disoccupazione. Ai neri che hanno il “privilegio” di lavorare è affidata la manovalanza, le mansioni più dure e umili. Non è difficile rendersene conto anche solo entrando in qualsiasi negozio di Città del Capo: ovunque vengo accolto dal sorriso di una ragazza di colore, ma all’angolo, seduta in disparte, fa capolino la poco sorridente padrona bianca dell’esercizio, che a mala pena mi saluta. Così anche nei ristoranti e negli alberghi, quasi tutto il personale è nero. Sì, è vero che la popolazione del Sudafrica è composta per il solo 30 per cento di bianchi, ma per il popolo nero sembra ancora molto difficile affrancarsi dalla propria posizione di sudditanza. Tutto questo non fa che alimentare il clima di rabbia e di violenza che attraversa il Paese. L’uccisione, lo scorso agosto, di 34 minatori per mano della polizia durante una manifestazione sindacale – le cui immagini hanno fatto il giro del mondo e che il Sudafrica difficilmente dimenticherà – è da ricondursi a questo clima generale di tensione, dove l’uso della forza pare essere ancora l’unica lingua. La causa della violenza – come hanno scritto alcuni giornali nazionali – va rintracciata anche nelle condizioni in cui vivono i minatori: molti di loro risiedono in agglomerati approntati ai margini delle miniere, altri in ostelli di fortuna. Fra di loro vige un senso di precarietà e di frammentazione: la violenza restituisce loro almeno l’illusione di uno spirito di unione e di solidarietà. I fatti di cronaca, tuttavia, rivelano anche l’altra faccia della nuova ondata di violenza, che è sempre più spesso a carattere xenofobo e che produce vittime proprio tra gli immigrati. I minatori uccisi infatti provenivano quasi tutti da stati confinanti, come il Mozambico e lo Zimbabwe. In Sudafrica gli immigrati, stimati in 5 milioni, costituiscono il dieci percento della popolazione circa. Giunti a diverse ondate perché attratti dalle maggiori prospettive economiche o per sfuggire a realtà disastrate, come quella dello Zimbabwe, sono impiegati nei lavori più umili e pericolosi. Anche se i problemi economici degli ultimi anni, come il declino proprio del settore minerario, gli alti tassi di disoccupazione e l’inflazione crescente, hanno ridotto i margini di crescita, suscitando il malcontento dei locali. Da qui a percepire gli immigrati come dei “ruba lavoro” e dei criminali, il passo è stato breve.
Il processo di riconciliazione del Paese, che la TRC (Truth and Reconciliation Commission, guidata dall’arcivescovo Desmond Tutu, Nobel per la pace) ha solo apparentemente risolto, gestendo in maniera relativamente pacifica il passaggio di consegne tra il regime dell’apartheid e quello della maggioranza nera, pare purtroppo ancora lungo. Le difficoltà di riconciliazione riguardano non solo i rapporti interraziali, senz’altro i più frequenti, ma anche quelli tra i sessi (il 30 per cento delle donne sudafricane ha dichiarato di essere stata stuprata almeno una volta nella vita), tra le generazioni e tra le classi sociali. E forse, come ha indicato il Nobel J.M Coetzee nel suo capolavoro “Vergogna”, occorre cercare altrove – in un ritrovato senso di dignità umana e di rispetto per l’altro – la possibilità di ricominciare.
Paese dalle mille contraddizioni e dagli infiniti contrasti, dove persino due oceani (l’Indiano e l’Atlantico) si scontrano e si annullano e che non a caso è anche chiamato lo “Stato arcobaleno”, il Sudafrica ha dimostrato più volte, nella propria storia, di essere capace di risollevarsi e di superare gli scontri e le differenze che lo attraversano, diventando una delle nazioni più sviluppate del pianeta. Perché come ha detto Nelson Mandela, l’unico uomo ad avere così tante strade e piazze a lui intitolate in vita: “La nostra gloria più grande non sta nel non cadere mai, ma nel risollevarci ogni volta che cadiamo”.

 

 

[Apparso, con il titolo “Le città sudafricane in mano alle gang giovanili”, su Il Reportage n. 12, ottobre-dicembre 2012]

 

[Immagine: Installazione di Moshekwa Langa, “Temporal Distance (With Criminal Intent). You Will Find Us in the Best Places.” (1997-2009)]

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6 Commenti

  1. ti ringrazio per questo articolo, Corrado, prendendo in prestito le parole di una delle poesie del tuo ultimo libro, “Tribunale della mente” (ed. Interlinea)

    pag. 17

    L’ultimo giorno sarà annunciato
    da una gazzella, dice l’antico rito.
    Intanto qui tutto si sconta e il bersaglio
    non ha più un centro esatto
    perché nella misura della giustizia si compia
    perfetta la nostra pietà.

  2. Da anni mi occupo di Sudafrica del post-apartheid sulla carta stampata (letteratura e scienze sociali, in primo luogo) e non ho mai “toccato con mano” la realtà del paese (ma poi, quale realtà? quale mano? quella del turista? quella del ricercatore? la stessa mano con cui si tocca la carta prima di partire?), e mi trovo a delineare lo stesso panorama qui proposto. Giungo però a conclusioni diverse: il regime di polizia c’è ancora, e si è trasformato da guardia armata della segregazione razziale a security, egualmente violenta, per le multinazionali, in uno spiccato ambito laboratoriale del neoliberismo; l’auspicata normalizzazione, insieme all’auspicata riconciliazione, tende a oscurare i conflitti sociali che rimangono presenti, o che si sono ri-formati negli ultimi anni; accanto a “Vergogna” di Coetzee (uno dei pochi libri che ho letto più volte, in assoluto, e che credo vada continuamente compulsato… in primo luogo perchè bello), c’è una moltitudine di scrittori neri, coloured e bianchi – spesso poco o non tradotti – che non hanno creduto alla svolta ideologica della Rainbow Nation e portano avanti una critica ancora, se non forse più, vista la disillusione, radicale.
    Analogie e differenze tra reportage ‘dal vivo’ e conoscenza ‘su carta’ purtroppo sono il metro della conoscenza europea del Sudafrica di oggi, come di tante realtà postcoloniali, o comunque ‘non-europee’. Una cosa che ci sfugge così tanto, che domani (o forse già oggi, già stasera) District 9 – in quanto allegoria, non in quanto esposizione della verità-vera – potrebbe essere qui.
    Lorenzo

  3. “Da un recente studio del governo sudafricano su giovani criminali è emerso che la maggior parte di loro non era cosciente di avere commesso qualcosa di riprovevole.”

    l’indistinguibilità delle cose, dello sguardo. e l’Europa sta a guardare

    • @ nc: Grazie Natalia.
      @Lorenzo: Sono d’accordo con te quando dici che “il regime di polizia… si è trasformato da guardia armata della segregazione razziale a security”. E’ davvero così, l’ho toccato con mano. Le ragioni sono complesse e certo c’entra anche (ma non solo) “l’ambito laboratoriale del neoliberismo”, a cui ti riferisci. Il fatto è che il post-apartheid non ha (ancora) realizzato quelle aspettative che la gente si aspettava e questo sta creando profondi malcontenti nella popolazione; un po’ come è accaduto in Russia dopo la fine la fine del comunismo. Ma, come ho scritto, i processi di normalizzazione sono molto lunghi e complesi ed è passato troppo poco tempo dalla fine del regime segregazionista, quindi è normale che le ferite siano ancora aperte.

  4. Vedo che ci muoviamo su terreni simili… Al tempo stesso, continuo a credere che auspicare la “normalizzazione” – sia essa politica, economica, sociale, culturale – com’è si fa per il Sudafrica che si é voluto riconciliare – giustamente, per caritá! – porti apoi sotterrare conflitti che prima o poi riappariranno, inevitabili. E non sará la normalizzazione dell’anomalia Sudafrica (anomalia che, a costo di ripetermi, non é poi cosí lontana, per alcuni versi, dal nostro passato, presente e futuro) a cancellare il crimine, ma una politica economica, sociale e culturale diversa. Mi permetto di segnalare il volume “Against Normalization: Writing Radical Democracy in South Africa” di O’Brien, non tradotto in italiano, per vedere da una prospettiva piú articolata come letteratura e teoria critica abbiano affrontato gli snodi dolorosi del presente e del passato prossimo sudafricano.

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Renata Morresi scrive poesia e saggistica, e traduce. In poesia ha pubblicato le raccolte Terzo paesaggio (Aragno, 2019), Bagnanti (Perrone 2013), La signora W. (Camera verde 2013), Cuore comune (peQuod 2010); altri testi sono apparsi su antologie e riviste, anche in traduzione inglese, francese e spagnola. Nel 2014 ha vinto il premio Marazza per la prima traduzione italiana di Rachel Blau DuPlessis (Dieci bozze, Vydia 2012) e nel 2015 il premio del Ministero dei Beni Culturali per la traduzione di poeti americani moderni e post-moderni. Cura la collana di poesia “Lacustrine” per Arcipelago Itaca Edizioni. E' ricercatrice di letteratura anglo-americana all'università di Padova.
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