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Rivendicazione di Matilde Famularo

Plaza Once y Caballito, D.O.

di Davide Orecchio

Molti anni dopo Ascona la riscatta dalle quinte. Quattro suoi componimenti aprono Le voci contro, antologia dedicata dal critico ticinese a poeti non solo defunti e inediti, né semplicemente vissuti nell’incertezza d’essere o non essere artisti ma deceduti ognuno con violenza, oltraggiati nella morte o scomparsi senza lasciare salme. L’isola, Il viaggio, Fabbrica e Maledetto Perón arredano lo zibaldone di Ascona (compendio di annegati e pugnalati, fucilati, sciolti nell’acido, smembrati e sparsi tra terra e mare – poeti purosangue) e li compose Matilde Famularo. Il mondo letterario ci si rifà gli occhi. S’innescano raccolte personali, traduzioni, traduzioni di traduzioni. I suoi manoscritti causano aste tra editori, ma lei che li vergò con grafia di attaccabrighe è morta da vent’anni, è svaporata. Non può vedere come quei necrofili si sbranino.

La sua non è arte per tutti. Al festival di Roma l’attrice Natalia Quarzo imbocca con buona volontà la Cantata dei balordi ma non arriva alla fine. Fermata dallo schifo quando è l’ora di pronunciare la “catilinaria”, abbandona il palco che il pubblico fischia e una critica, in realtà giornalista, in realtà cronista che da un po’ recensisce libri e l’appongono su tutte le fascette scriverà che “ci voleva più coraggio”. Ha ragione: la bravura che mise Famularo nell’esprimere la furia tocca a chi sceglie di leggerla. Pochi si confessano arrabbiati. Se ognuno lo è “perché l’idrofobia nella sua costanza è umana” (G. Fahndel, Beabsichtigungen über Mensch und Gesellschaft, 1982, p. 261), nove su dieci si fingono mansueti e silenziano la collera tra i cuscini del privato. Ancora in vita e allergica alle ipocrisie della maggioranza, Matilde descriveva la moltitudine di “defalcati e senza patata” con l’insolenza di chi si consumerà presto. Lei era diversa.

A sei anni scopre la forza della propria ira sulla spiaggia di Scari, non la più bella ma approdo dell’isola dov’è nata e vive. Laggiù la sabbia è nera e d’estate s’infuoca: per alleviare il dolore ai piedi Matilde salta su una pietra che seppure rotonda la ferisce in un piccolo varco tra pelle e carne. Lei che non s’accontenta di gridare prende il ciottolo e gli mostra i denti, scorticandosi lo graffia e lo getta in mare. Ecco che è venuta a galla la follia, punto debole o rimedio?, diciamo “una natura” che le si scoperchia e la stupisce e inorgoglisce pure, perché è sua, “perché sono fatta così e nessuno è fatto come me”. La volontà non c’entra nulla, invece la reazione sì. Dov’è un ostacolo lei si precipita e picchia e gli addebita un disegno. Dal ciottolo in su la lista è lunga. Ha molti nemici tra porte, pareti e pavimenti dove sbatte o cade. Dappertutto c’è un’anima. Sbucciarle un ginocchio è un insulto: la bambina risponderà con la furia dei tacchi. Legni e intonaci che l’hanno ostruita prenderanno calci come pugnalate, e le urla di un’orda. Le maniglie che le incrostano polsi e gomiti subiscono sberle e pugni. Sputa su ogni macchinazione delle cose, che non hanno diritto di ferirla.

Nel mezzo di una mare profondo, blu e calmo, bestemmia la medusa che l’ha punta con uno strazio che allontana pesci e pescatori.

Scivola sulla scale ripide che portano al faro di Strombolicchio: mentre il ginocchio fiotta qualche goccia di sangue, Matilde impreca sull’aria che respira e maledice.

La sua pelle è già bruciata dal sole i cui raggi di nascosto le scavano come cunicoli sul volto rughe disposte a mostrarsi molto dopo nella vecchiaia che Matilde non conoscerà. Figlia di pescatore vive in un’isola che non ha corrente elettrica con sei fratelli oltre al padre, due cani e una nonna manesca in una tana ai piedi della chiesa di San Vincenzo, accoccolata insieme a parecchie nel punto più riparato e se non geometricamente, geograficamente antitetico rispetto alle bocche del vulcano che colano lava dall’altra parte del cono. Per chi veda dall’alto si mostra una mescolanza di calcestruzzo e pietra, una fratellanza di tetti senza colore abbracciati nella china all’ombra del tempio, rifugiati nel suo soccorso mentre la montagna spara fuoco. Vita elementare comandata dalle stagioni dove il pesce fresco è il cibo dell’estate oppure d’inverno lo si tira fuori dal ghiaccio per condirlo con cipolle, erbe diverse e olive nere. La madre è morta prima di tutto questo quando Matilde aveva tre anni e nel suo letto la donna aspettava e il sangue le colò dalla bocca e il braccio le scivolò sui fianchi. Ecco l’innesco del quaderno poetico che riempie tra i tredici e i quattordici con le sole forze della seconda elementare e non lascia spazio che a proteste. Dove maledice tutto. Maledice i denti che cadono, le croste di sangue, le unghie spezzate, il fiato della nonna, le bestemmie del padre, il mal di gola e la febbre, l’odore della cacca, le pustole del morbillo, maledice il dolore, ogni graffio subito, l’incomprensibile gergo del padre, la puzza del suo corpo, maledice gli abiti del padre, le scarpe del padre, le mutande del padre, “che non voglio lavare, che non voglio annusare mai più”, gli scogli affilati e neri che raschiano i piedi, il vulcano, i suoi rumori e la sua cenere. Mischia l’acuzie del dialetto a una lingua di rossori e timida. L’intruglio è una gengiva appena spaccata dal dente, irrorata di sangue.

La nonna le viene incontro sulla piazza della chiesa alla fine di un giorno di arsure. Le chiede: È vero che ci odi?. È falso: Matilde Famularo non odia nessuno. Odia i processi, gli effetti e le cause, le nuvole quando desidera il sole, il sole quando desidera l’ombra, il freddo quando vorrebbe stare al caldo e l’incontrario, le spine di pesce nel palato, gli inciampi e le cadute, le offese inflitte al suo corpo, odia quando si scopre a odiare. Spesso è esausta per essere così burbera e pensa che presto si fermerà, si accuccerà, non si rialzerà mai più e invece cresce finché adesso ne ha diciassette, bidella in una scuola di Lipari –  prese un traghetto per l’isola maggiore, trovò una branda presso cugini in una casa di Lingua, comprò un camice grigio e zoccoli –. Pulisce bagni e pavimenti, agita campanelli, spolvera le sedie e i banchi. Non vista spia le lezioni del maestro Gaetano Volante, unico per tre classi, messinese che di anni ne ha quaranta, particolarmente devoto alle poesie di D’Annunzio e mentre lui insegna impara anche Matilde. Riempie quaderni che ormai sono a decine. Ha maturato una lingua che, come noterà Scalzelli (Poesia regionale italiana, vol. 2, 1983, p. 75), è un “miracolo di autodeterminazione, frutto ostinato spuntato nell’arido”. La rabbia inizia a tradursi in concetti come i suoni in melodie, i grugniti in proteste o desideri o speranze. L’umore si fissa nell’invettiva, trova la sua strada. Ogni notte almeno una pagina di quaderno. Ogni controra altrettanto. Poesie senza metrica né rima. Pensieri di carta. Nasce adesso la fortuna postuma di Famularo ma lei non lo sa, sa solo che detesta i seni che quando si sdraia nuda le si allargano senza pudore ma non cascano, anzi sembra che ascendano, che una bocca invisibile li succhi per i capezzoli verso l’alto. Matilde se ne vergogna, cammina curva nel sacco del camice. Odia pure il sedere, che dallo specchio le sembra cresca un giorno dopo l’altro e vorrebbe schiacciare come biancheria in valigia.

Un giorno le cade un quaderno, l’ultimo e incompleto, sulle maioliche del corridoio a scuola. Passa il maestro Volante e lo nota. O guarda il petto di Matilde che si sporge per raccoglierlo? O s’accorge di entrambi? Ma di quale per primo? Non c’è risposta. Però lui si china, prende il taccuino e glielo porge. Ecco il contatto. Volante ha visto Famularo.

Camminano sulla spiaggia tra mucchi di reti salate da cui pendono sugheri e gusci di granchio. Matilde si ripara dal vento con una mantella di lana. Volante la riscalda col braccio. Incespicano nella sabbia e nelle pietre. A ogni inciampo lei sorride. Il vento le screpola le labbra. Il vento è anche la musica dell’incontro. Volante indossa un cappello di feltro e una giacca di lana nera. Sono seri. La vita è seria.

Io che ho quarant’anni e ho avuto tre donne, studiavo i poeti, insegno per due soldi e avevo cento speranze, oggi ti scelgo.

Io che so da dove vengo e nient’altro (pietre nere e pesci essiccati sopra, cenere, lava, mio padre), accetto che tu mi prenda con te. 

Il due luglio del sessantasette sono sposati. Lasciano Lipari per Messina, Messina per Villa San Giovanni, Villa San Giovanni per Roma. Non è una luna di miele.

Buenos Aires
Prendono un aereo. Atterrano a Ezeiza. Escono dall’aeroporto. Il freddo parla un’altra lingua e piove. Salgono su un autobus. Percorrono una steppa divisa dalla strada, interrotta da fidanzamenti di baracche. Da principio le spelonche sembrano  branchi di animali, poi a mano a mano che l’autobus prosegue nel tragitto si avvicinano in gruppi fitti e crescono in altezza, finché dei tuguri di lamiera non c’è più traccia e nemmeno della campagna, e i cani ora abbaiano tra casupole senza intonaco. “Le persone sono scure e hanno strani occhi che si affacciano sugli zigomi come le donne ai balconi”, non tutte le persone – annota Matilde – ma molte di quelle che ha visto.

Passa un mese e vivono nel quartiere di Villa Soldati. Della casa che abitano si vedono i mattoni, come uno che vada in giro senza scarpe o coi pantaloni sciolti. Il tetto è di lamiera e una delle due finestre – quella della cucina, che dà su una strada chiamata Varela – si chiude con una persiana di cartone che non ripara dall’odore della discarica. La casa appartiene a Jorge Gravano, capocantiere che paga il salario di muratore a Volante ma sottrae l’affitto e le spese dell’acqua e per la luce. Volante cercava in Argentina un cugino che aveva promesso miracoli, ettari di terra da coltivare a sud di Córdoba oppure vigne fertili al confine col Cile. Non l’ha trovato. Volante (non più maestro) quando rincasa non apre bocca. Sostiene – non ora, perché adesso tace, ma in un altro momento nel quale ha lasciato detto che… – la stanchezza gli ha tolto le parole. Non legge più libri. Gli piace dare ordini e lo fa coi gesti. Mangia la cena, si addormenta. Nel sonno fa rumori con la gola, lo stomaco e lo sfintere. Quando ha un po’ di desiderio prende Matilde senza chiedere prima. La fruga come un possesso. Le preme sull’inguine senza dolcezza e con urgenza. Matilde, che non odia gli uomini ma solo le cose che non stanno al posto loro, abbassa gli occhi per schiudersi.

Lavora in una fabbrica d’insaccati su Castañares. Ha compiti d’inserviente. Pulisce i bordi delle tinozze dove versano la mortadella fusa, asciuga il liquido colato per terra e già un po’ solido e gommoso. Spazza via i resti dei maiali, raccoglie in sacchi le unghie, gli occhi, le orecchie, le froge. Ogni tanto vomita. Si porta l’odore della fabbrica a casa. Lo sente nelle narici mentre cucina, nelle mani; quando si scorda, ha un soprassalto se l’avverte di nuovo e pensa che è come un intruso che spia nell’ombra. Per cucinare deve farsi forza. Poi arriva Volante stremato e gli apparecchia. Non mangiano assieme. Matilde preferisce cenare sul letto. Beve dalla tazza, raccoglie pane dal piatto, versa le molliche sul grembo e sul rimbocco ma non se ne accorge perché l’unica lampadina è spenta (“se posso sto al buio, dove non vedo niente e neppure la mia condizione”). Volante che odia le molliche viene a letto, infila le gambe sotto al lenzuolo e quelle lo graffiano, chiede cos’è già sapendolo, poi urla e tira un pugno sulla schiena di Matilde (nell’urto risuona tutto il corpo di lei). In altre occasioni è mansueto e cerca perdono. Una domenica alla Recoleta scoppia a piangere, ammette il disastro, s’inginocchia per terra, nasconde il viso nel ventre di Matilde, geme che lei è troppo giovane e lui troppo vecchio, mormora di separarsi. Lei però lo stupisce: Abbiamo fatto bene a venire. Eravamo vermi su un’isola. Poi una richiesta: Potresti non picchiarmi più? Suo marito si commuove, le prende le mani e le bacia. In quanto alla preghiera, non sarà esaudita.

Passa del tempo la cui irrilevanza è un contenitore di azioni mancate e volontà inespresse (che per Matilde Famularo significa non scrivere) e da qualche parte nel maggio del sessantanove gli studenti protestano sull’asfalto di Corrientes finché uno di loro resta per terra, sparato. L’episodio per Volante vale una pagina di giornale letta al bar che lui commenta così: sparo meritato, li ammazzassero tutti. Qui Matilde scopre un nuovo lato del marito che si sente uomo d’ordine, nostalgico di qualsiasi dittatura (anche di quelle che devono ancora arrivare) e al posto giusto in Argentina dove il regime non cerca rimpianti, esiste. Grossa sorpresa cui si somma in coincidenza e come partorita da una nuvola la caduta dal cielo di un muratore che stuccava l’intonaco esterno della fabbrica – poco prima le aveva parlato usando ogni strumento dell’espressività di un volto, il gioco di labbra e sopracciglia, il gonfiarsi e sgonfiarsi delle guance, la capacità di aggrottarsi della fronte, e adesso è quasi un cadavere con pochi fremiti e sangue. Lei impallidisce, quasi sviene. Implora che lo aiutino. Il tonfo del corpo l’ha assordata. Qualcun altro invece solleva il macello e lo carica su un furgone; sangue e carne ruzzoleranno per sterrati lontani.

La critica non ha stabilito nessi e Matilde Famularo non ha biografi (chi ammucchia queste righe dà solo l’impressione di esserlo), ma non si può considerare un caso che nel coevo Quaderno delle delusioni 

(1 – Opera furibonda, ha intimidito tutti. Riportarne brani fedelmente è impossibile per chi è abituato al rispetto delle convenzioni. Queste pagine parlano una lingua infernale. Solo ascoltarla – leggerla – perde e costringe a ritrovarsi. Nessun coraggio è all’altezza di riprodurla. Quindi che nessuno s’illuda: le virgolette non vestono la voce di Matilde, non ne sono che la versione aiutata, la diluizione di un succo.) 

elenchi “obblighi, costrizioni, fatti merdosi” come “svegliarsi all’alba, preparare per l’Indegno, andare in fabbrica”, come “lavorare dieci ore” nella “putrefazione della speranza, nel marciume della felicità”. “Perché siamo poveri?”, chiede. “Perché soffriamo? Perché i violenti sono violenti? L’Indegno è violento e il padrone pure. I meschini spalleggiano. Le vicine si coprono le orecchie. I colleghi guardano altrove. I poliziotti perquisiscono e spalleggiano. Le strade sono sporche. La sporcizia della casa non posso pulirla. Il letto mi odia. I vestiti mi fanno brutta. Vorrei altri vestiti. Vorrei cappelli e calze di seta. Nel mio quartiere solo facce violente. Perché ho mal di schiena? Le ginocchia non dovrebbero guaire. I fianchi non dovrebbero piangere. Le mani non dovrebbero gemere e la colpa è solo tua”, dice come rovesciandogli fango addosso a un creatore del quale ometto il nome per rispetto di chi legge e si ritrova da qualche parte una fede, ma con questo tradisco l’irriverenza di Matilde Famularo che dinanzi alla rabbia e alla verità sacrificava il pudore e infatti scrive che “il maledetto è il colpevole che abita lassù, non nella mia baracca, non nelle ville di Belgrano, non nell’isola dove morì mia madre e perché morì mia madre? Perché ascoltai il suo rantolo? Perché vidi il suo sangue?”. Dal decimo foglio al ventesimo tutto un elenco di soprusi che come ha notato Scalzelli “slittano dal privato al pubblico, dalle mura domestiche all’arena del lavoro in una sorta di precosciente furia operaia e femminista. In realtà lista di torti e vendette insieme, voce di una vittima che s’immagina carnefice”.

Protesta per i diluvi di Buenos Aires, gli stupri, la sordità, il lezzo della fabbrica, il vomito, la morte, la vita non goduta, lo schiavismo, le mutande strappate, le calze strappate, le tenerezze mai conosciute, la madre che non ebbe tempo, la prigionia del lavoro, la libertà dei ricchi, le percosse di Gaetano Volante e annuncia: “L’Indegno sia fracassato in ogni suo osso e rimbalzi mollemente verso la latrina per tramutarsi in merda, ma gli resti il naso così che possa annusarsi. A ogni capo taglino la testa e poi piscino in bocca. Al Capo dei capi taglino a fette il sedere come un prosciutto. Alle donne che fanno finta di non sentire quando l’Indegno mi sventra strappino le unghie e gliele ficchino dove so io. A mio padre che non ha mai scritto da che sono partita, che non chiede e non offre io auguro che i polpastrelli divengano braci. A tutti quelli che non amano e pretendono amore la pelle si essicchi e li sorprenda, ormai cartepeste, la morte. Il cancro arrivi solo a chi se lo merita. Che i ricchi sbiadiscano, che i potenti stingano, che i militari si sciolgano sotto la pioggia e le loro armi si liquefacciano come giocattoli di cioccolato. I dittatori penzoleranno. Le fabbriche funzioneranno da sole. Gli operai non lavoreranno ma saranno pagati il doppio. Il cibo sarà buono e non ci gonfierà la pancia. Le malattie saranno abolite. Allargherò le gambe solo se ne varrà la pena”.

Al buio nella casa su Varela un uomo chiude la finestra e vi allaccia il cartone per ripararsi dagli sguardi. Coi capelli bianchi di calce scivola verso il letto. Respira su un corpo che l’attendeva, poi lo rovista. Entra dove non è il benvenuto. Si agita goffamente, sapendolo. Resta dove s’è ficcato il necessario per essere felice. Ma quando gli sembra che la felicità sia arrivata, s’accorge che è qualcos’altro. Anche se volesse scoprire cos’era (un sentimento? Un furto? Un saccheggio?), non potrebbe: è già tutto finito.

“Ecco il nostro limite peggiore: i fatti ci schiacciano e le malattie ci aggrediscono. Navighiamo a vista su di un mare nero pieno di trappole. Tutto questo sembra durare in eterno ma naturalmente, se l’universo potesse parlare, sosterrebbe che non siamo mai esistiti. O che in quell’attimo (il nostro attimo) lui era altrove” (Vuillarde, 1970).

La guerra
Anni, mesi, giorni e ore sono latte scaduto, arance guaste, mele col marcio marrone e molle. Tanto vale frullarli, centrifugarli, estrarne il liquido. Gettare le bucce, scartare la polpa. Se si compie l’operazione per decine di questi putrefatti, il ricavo è non più di un bicchiere, forse due. Se ne versi il contenuto in un altro bicchiere attraverso la scrematura di un passino. Con un coltello si asperga la spuma tanto inutile quanto amara. Quello che resta è la vita al netto delle scorie. Il tempo senza il tempo perduto. Per questo (non occorre spiegare altro) è già il settantacinque (non molto né poco prima, che stanno nella spazzatura con le cocce) quando la mano di Matilde ha perso la fede e stringe una pistola e lei che non ha più di un cognome, quello che le diede suo padre, adesso spara e cento metri più in là due poliziotti si abbassano nella polvere. Matilde spara di nuovo. I poliziotti stanno quatti. Arriva una moto. L’uomo che la comanda le grida di salire e lei si getta sul sellino. Partono verso la foresta di Acheral.

Il paesaggio è cambiato. Boschi e montagne di Tucumán rimpiazzano Buenos Aires città di lamiere. Una militante dell’Erp sta al posto di una sguattera. Matilde non più Volante e di nuovo Famularo pulisce fucili, carica pistole, accudisce dinamite, dorme in tenda, cambia branda ogni notte, sogna il nemico, si sveglia tra i ruscelli, mangia coi compagni, sta di sentinella, inumidisce gallette, legge gli scritti di Santucho, sa a memoria Guevara, crede ciecamente ai compagni, crede ciecamente al Vietnam argentino, crede ciecamente alla lotta rivoluzionaria, pensa alla finta democrazia di Isabelita Perón e sputa. Un anno fa venne nella foresta, due anni fa assaltò una banca, tre anni fa conobbe il tipografo Arturo Coloccini che le insegnò la militanza e per lui, che le offrì un amore biodegradabile e a rapida scadenza, abbandonò Volante ubriaco in qualche bicocca. Adesso Coloccini è già sbiadito e Matilde quando può scende nei villaggi dei contadini, urla slogan col megafono, regala cibo e vestiti, apparecchia la rivolta dei braccianti; però quelli l’ascoltano poco. È il periodo della “rabbia morale e politica”: la definizione si deve ad Ascona che l’ha anche datato nel triennio settantadue-settantacinque. Vi appartiene per intero il Ciclo delle disgrazie insieme a componimenti come Ricordare Trelew, Alzati compagno!, Alba operaia, Magisterio di Córdoba, dove Matilde, compiuta la metamorfosi (secondo Scalzelli visse un  anno intero mendicando nella via Florida, ma lo studioso adduce prove insufficienti e fonti inverosimili), si vota alla generazione dei futuri scomparsi. Vive tra i monti. Non ha perso la rabbia dell’isola, ma la scaglia contro nuovi nemici. Le cose non ne sono più degne. La sua furia è cresciuta. Sulle gambe di venti quaderni s’alza un odio mai letto in poesia. I quaderni li ha tutti con sé, da Buenos Aires non ha portato altro. Ogni tanto ne declama brani ai compagni di follia che la chiamano menestrella e ridono, oppure riflettono su quanto hanno ascoltato e diventano seri.

Ascona, nella Nota critica su Matilde Famularo (Le voci contro, p. VI) evidenzia la “rarefazione dei concetti” e un “verso ormai del tutto visuale” dove la collera non ha più bisogno di invettive, saziata dalla cosmogonia delle scene.

Una calca chiede il diritto di voto; al di sopra di migliaia di teste e pugni sollevati, dal suo balcone un ottuagenario in abito da sera e rughe scruta quel tappeto e s’accarezza le medaglie sul bavero. Sul pavimento di una fabbrica come altre cento fabbriche un uomo e una donna in tuta da lavoro strisciano da direzioni opposte e verso il centro raccogliendo su corpi e tessuti un liquame che potrebbe essere petrolio o grasso di macchinario, ma che forse è sangue condensato; ciechi l’uno per l’altra non possono riconoscersi, mentre tutto il resto lo vedono bene. Un coltello preme nella carne lacerata l’uniforme, la camicia, la canottiera, la peluria e l’epidermide: lo impugna una mano callosa, lo spinge un’intenzione di vendetta; quindi la scena si replica per tutte le uniformi e i coltelli d’Argentina, la cornucopia di casacche va in brandelli, le sagome che vestivano si accasciano e un coro esulta. Squadre di pallottole danzano incontro ai morituri come damigelle verso i cavalieri al ballo delle debuttanti, un valzer infuoca la corsa – è un’altra vendetta. Piccole bombe dilaniano singoli corpi, ordigni più grossi maciullano intere caserme.

Ogni quadro ha la sua morte da irrigare. Sotto i piedi – come lava, come acqua, come polvere – formicolano i perché. Perché hanno fame? Perché quegli stracci? Perché sono così tanti e restano deboli? Perché non si vendicano, non aggrediscono, non si alleano? Pagine stipate di ideologia, rancore politico, succhiate giù dal fardello sociale che mira dritto all’abisso e le porterebbe con sé nella morte se di quando in quando la calligrafia di Matilde, che sembra un corsivo, un carattere dell’antichità, non liberasse un’immagine munita di volo, visione che tira la zattera sulla superficie dell’acqua così che galleggi su correnti poetiche. Perciò ecco l’esercito dei bambini angelici che disarmano i militari con l’oro degli sguardi (uno dei ritratti più noti di Famularo). Le donne del porto in rivolta confiscano il pescato ai mariti che rientrano dal mare: lo gettano in acqua, lo seppelliscono tra i flutti. Un vecchio malato s’alza di scatto dal giaciglio dell’ospedale, strappa i tubi dal corpo, riscatta il pene dalla cannula, lacera i cerotti e chiede libertà – che gli tolgano il respiro. Ecco gli Stati di grazia, dove iniziano ad affiorare gli scomparsi: gente sparita da mesi torna a farsi vedere e i cittadini assistono al ricomporsi delle fattezze (come una sagoma che sorge dal buio, come un essere che si manifesti dal nulla ma per gradi). In un caffè della Diagonal a un tavolo prima vuoto adesso siede Cristina; nessuno l’ha vista entrare, nessuno la vede da tempo. Lei che era morta per tutti, sorseggia una birra. Héctor compra il giornale su Rodriguez Peña: due anni prima l’ultimo che lo vide, vide un uomo braccato da belve. Il guerrigliero Octavio Riccetti, stando alla cronaca maciullato da tre mitragliatrici e poi dato in pasto ai cani, entra in un cinema su Corrientes: compra un biglietto per Effetto notte e s’infila in sala.

Poco prima del tramonto, dopo un giorno di lotta, angoscia e fuga, Matilde passeggia nella selva facendo finta di perdersi. Gioca alla bambina nel bosco. Ma felci e canneti non la spaventano. Giusto il crepuscolo, un po’. Si mette a sedere ai piedi di una ceiba sfruttandone il tronco come uno schienale. Al riparo del legno si pacifica e respira. Posa la pistola sull’erba. Slaccia le scarpe e le sfila. Toglie i calzini, rinfresca i piedi. Sbottona la giacca militare. Scioglie i capelli dal fazzoletto sudato. Riposa. Dall’isola a qui il viaggio è stato lungo. Ti è servito a qualcosa? Non avresti potuto essere un po’ meno arrabbiata? Forse avresti trovato un uomo migliore. E a cosa ti è valso tutto quell’odio? La so io la risposta: a ficcarti in una guerra. Questo corsivo non consegna pensieri appartenuti a Matilde ma al compilatore (non autore, né fratello, mai poeta, intruso) che adesso sulle zampe di un lombrico sale dalle radici alle spalle di Matilde fino al ramo più alto dell’albero, e da lì vola via sotto l’ala di una civetta, che poi abbandona per l’ala più grande di un aereo capace di volare nel tempo (smascherandolo) e guarda un’ultima volta la piccola Famularo addormentata sotto la pianta e finalmente la comprende.

Era innocua. Non avrebbe alzato il dito su nessuno e per questo si armò, solo per difendersi. Chi sa quanti uomini l’avrebbero desiderata e fatta felice. Invece rimediò un vecchio carnivoro, e poi gente di passaggio. Colpa della sua mitezza.

Ballata di Tucumán
È arrivato l’esercito. Sono passati solo pochi mesi. Matilde si nasconde nel cuore del bosco. I bracconieri le danno la caccia. Mangia insetti, dorme tra l’erba alta. Sospetta anche il vento e le stelle cadenti. Attende il nemico. All’alba lava gli occhi con la rugiada. Di notte si riscalda nella terra. Di giorno vive in un cespuglio e scruta. Ricorda il passato. Spera di vivere ancora. Ascona e Scalzelli concordano nel datare lo stadio tra il settembre e il novembre del settantacinque. Né c’è dissidio tra i due critici nel collocarvi l’ultimo componimento della poetessa, cinque pagine anonime il cui si titolo si deve ad Ascona: Ballata di Tucumán. Chiudono il quaderno che Matilde insieme agli altri notes affiderà a Ines Bernardini, cuoca e compagna di strada degli erpiani ma diversamente da loro destinata alla salvezza (fuggirà dalla selva col lascito poetico, quindi tratta in salvo da un prete di Catamarca, espatriata in Bolivia, ruzzolata in Brasile e gettata in Italia). Per alcuni nella Ballata l’arte di Famularo raggiunge la vetta. Ma se l’Indice del Sant’Uffizio esistesse ancora, dell’opera non rimarrebbe che cenere. Altrove nelle creazioni di Matilde il ricorso alla bestemmia si consuma nell’accidentalità di un punto esclamativo; qui diventa un costume, l’abito che si veste ogni giorno. “In forma scritta, l’odio non è mai stato espresso meglio” (Scalzelli, On Matilde Famularo’s Poetry, in V. Kottke (a cura di), Arts and Society, Boston, 2001, p. 189). “La Ballata è una macchina inventata per ferire, costruita con un numero infinito di lame e altrettante trappole emotive” (Ascona, Introduzione a Matilde Famularo, Opere complete, Torino, 2009, p. XXI).

È probabile che sia stata composta nei giorni della macchia, dopo un falso allarme, prima di una minaccia, nell’eco perpetuo degli spari che s’avvicinano. Ma questa Furia dimentica la politica, evita la superficie dei fatti, lascia le imprecazioni consuete contro il qui e ora e, colta dalla malinconia dell’exit, sceglie di colpire le usurpazioni del tempo, le malattie mortali, gli amori mancati, gli amici invisibili, i figli impossibili, le ferite senza causa (inferte di notte, scoperte al mattino), le carezze mai ricevute, le case dove l’autrice non abiterà mai, le comodità mai godute, i piaceri mai provati, la povertà, il bisogno, la necessità di sperare, l’obbligo di scordare. Cosa merita una bestemmia?: la sfortuna, la tristezza, ogni culo di sacco, tutte le prigioni, i secondini, i torturatori, il potere, gli ordini e l’obbedienza, il potere travestito da chiesa, il lavoro senza costrutto, la schiavitù, la morte dei bambini, la morte delle madri, la longevità dei tiranni.

“Ho messo le proteste in un sacco. Ho aggiunto dinamite al sacco. Ho infilato il sacco in un razzo che partirà per lassù e lassù esploderà”.

(2 – Vale il chiarimento della nota 1.)

A esergo della Ballata, la poesia smette di cantare e la rabbia si quieta. Compare una prosa. È l’ultima scrittura di Matilde prima della morte, dove ammette di non essere stata “felice”: “Sono nata ignorante e povera e per fuggire da quell’inizio ho commesso un mucchio di errori. Per campare ho pulito cessi e pavimenti e se, per miracolo, la mia vita dovesse durare altri cento anni, credo che li passerei a pulire ancora latrine”. Ma riconosce di avere incontrato almeno una fortuna nella “capacità di imprimere parole sui fogli”, che le ha “placato il rancore”. Affida i suoi venti quaderni alla cuoca Ines, senza troppe illusioni: “Nessuno li pubblicherà ma non importa, sono serena. Non ho mai scritto per vedermi pubblicata. Quando scrivo, io sono. Nell’avere scritto, io sono stata. Ho esercitato il mio diritto di esistere, incidendo una tacca di me nel libro del mondo”.

L’arrivo dei militari interrompe la chiosa. Si veda il manoscritto originale della Ballata riprodotto nelle Opere complete: lo sigilla un graffio d’inchiostro verticale, come se la penna avesse deciso di ammutinarsi e scappare verso sud dove termina il foglio. Un fossile fu una creatura vivente e il suo ultimo istante è intrappolato in una pietra. Così la fine di Matilde è incastrata in uno sgorbio. Il frastuono delle armi, le urla dei compagni, la penna scivola via e Famularo – non resta altro da aggiungere – è morta.

(Già pubblicato su Nuovi Argomenti, 48, 2009)

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Il 17 aprile l’Università degli Studi Roma Tre ha conferito a Estela Carlotto la Laurea honoris causa in Lingue e letterature per la didattica e la traduzione, “alla luce di un impegno civile, umano e culturale unanimemente riconosciuto". Riproduciamo il testo integrale della Lectio magistralis

Difficile come guardare dentro i sassi

di Giacomo Verri
Pubblichiamo un estratto da Storie di coscienti imperfetti, la nuova raccolta di racconti di Giacomo Verri, pubblicata da Wojtek, 2024

Tre teste

di Max Mauro
Lui non ha mai tagliato una testa, ne sono sicuro. Come potrei essere seduto al tavolo con un tagliatore di teste? Così voglio credere, ma chi può assicurarmi del contrario?

Discorso di Capo Orso Scalciante

a cura di Silvano Panella
La terra sta invecchiando. La renderò nuova per voi, per voi e per i fantasmi dei vostri padri, delle vostre madri, dei vostri fratelli, dei vostri cugini, delle vostre mogli. Lo farò per tutti quelli che accoglieranno le mie parole

«La fortuna del Greco», storia di un italiano

di Antonella Falco
Antonio il Greco è un sopravvissuto, impastato di tenacia, fatalismo e dignità. Deve il suo soprannome alla somiglianza con uno dei due Bronzi di Riace, «quello con un occhio solo, il vecchio guerriero»

Il maiale Kras

di Giorgio Kralkowski
Le urla si sono quasi dissolte sopra le tegole del casale e al fumo dei camini, si sono infilate tra l’erba alta e hanno forse raggiunto gli uomini nei campi più lontani, appena prima delle acque del fiume, che inghiottono le voci di chi vi parla appena accanto. Adesso al loro posto i fruscii del lavoro, i rumori umidi delle mani e della carne, il tremare del metallo dei coltelli
davide orecchio
davide orecchio
Vivo e lavoro a Roma. Libri: Lettere a una fanciulla che non risponde (romanzo, Bompiani, 2024), Qualcosa sulla terra (racconto, Industria&Letteratura, 2022), Storia aperta (romanzo, Bompiani, 2021), L'isola di Kalief (con Mara Cerri, Orecchio Acerbo 2021), Il regno dei fossili (romanzo, il Saggiatore 2019), Mio padre la rivoluzione (racconti, minimum fax 2017. Premio Campiello-Selezione giuria dei Letterati 2018), Stati di grazia (romanzo, il Saggiatore 2014), Città distrutte. Sei biografie infedeli (racconti, Gaffi 2012. Nuova edizione: il Saggiatore 2018. Premio SuperMondello e Mondello Opera Italiana 2012). Provo a leggere i testi inviati, e se mi piacciono li pubblico, ma non sono in grado di rispondere a tutti. Perciò, mi raccomando, non offendetevi. Del resto il mio giudizio, positivo o negativo che sia, è strettamente personale e assolutamente non professionale. d.orecchio.nazioneindiana@gmail.com Questo è il mio sito.
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