Il Campiello ritorna in Calabria 35 anni dopo – Le tante forse troppe cose in comune tra i romanzi di Saverio Strati e Carmine Abate

di Domenico Talia

I premi letterari li vincono i libri, se e quando i premi sono virtuosi. Dopo i libri ovviamente i premi li vincono anche gli autori e gli editori. Si dirà che non sempre è così, anche questo è vero, ma ci sono casi in cui i premi mantengono le promesse fatte.

Dopo trentacinque anni la civiltà letteraria calabrese finisce nuovamente sulla strada del Premio Campiello. Lo fa mettendo insieme due autori che hanno tante, forse troppe, cose in comune – anche a voler tralasciare la loro calabresità. Nel 1977 Il selvaggio di Santa Venere ha portato Saverio Strati alla vittoria del Campiello. Il romanzo pubblicato da Mondadori racconta la formazione civile di un giovane contadino calabrese che conosce a sue spese il mondo arcaico e violento della ‘ndrangheta e fa di tutto per allontanarsene. Quel romanzo, che di fatto è anche uno strumento di interpretazione storica della realtà meridionale, è stato tra i primi a narrare la vita dei malandrini, il loro linguaggio, le loro ritualità, l’equivoco senso dell’onore.

Nel 2012, La collina del vento, un altro libro che narra un secolo di vita di una famiglia con i piedi ben piantati in quella terra di fronte allo Ionio, ha riportato un narratore calabro come Carmine Abate a vincere il Campiello. L’editore dei due libri è lo stesso e in qualche modo questa doppia edizione a distanza di oltre trent’anni è anche una maniera di raccontare il contesto della terra calabrese e della sua società in due momenti distanti tra loro nel tempo e nei costumi di vita della sua gente.

Il mondo narrato da Strati è arcaico ma inizia ad essere contaminato dalle esperienze di chi ha lasciato la Calabria per necessità e ha visto un mondo in cui la coscienza dei diritti e il benessere economico avevano avviato grandi trasformazioni sociali. In un’intervista di tanti anni fa, Strati racconta il punto di vista del protagonista di quel romanzo, che avverte la necessità di vivere in un mondo più ampio, in spazi di esistenza più aperti: «Per Dominic restare nella Calabria di quel tempo avrebbe significato rinunciare alla possibilità di instaurare rapporti soddisfacenti da un punto di vista culturale. In lui si agitano bisogni diversi, quello di sfuggire alla personalità soffocante del padre, quello di ritagliarsi uno spazio di libertà e, inoltre, da non sottovalutare, la voglia di non regalare i frutti del proprio sudore alla mafia; c’è quindi anche il desiderio di scampare alle trame della criminalità nel “Selvaggio di Santa Venere” …».

In un periodo in cui sembra quasi che scrivere di ‘ndrangheta sia di moda, rileggendo il libro di Strati si trova una narrazione in cui la presenza della criminalità è evidente e condizionante, ma mai strumentale. La ‘ndrangheta è narrata come un elemento negativo e opprimente, ma non come unico stereotipato male. Qualcosa di simile c’è ne La collina del vento. Abate racconta gli Arcuri, una famiglia che difende la propria terra, la bella collina del Rossarco, dalle brame dei potenti locali, che si susseguono dagli inizi del secolo scorso fino a oggi. La loro difesa è strenua. Per loro la terra è elemento primario di una vita civile dignitosa. Le diverse generazioni, fino all’ultimo degli Arcuri, resistono al fascismo, ai prepotenti, ai signori del vento e ai truffatori del turismo vorace che ama cementificare. Questi ultimi incarnano forme moderne di corruttori delle coscienze e di profittatori dei beni pubblici alimentati anche da collusioni politiche opache che, in forma non molto diversa, anche Dominic nel “Selvaggio” di Strati aveva avvertito e rifiutato in quanto nemici della sua terra e del suo progresso.

Le vite e le scelte del nonno, del padre e di Dominic ne Il selvaggio di Santa Venere come quelle dei nonni, dei padri e dei figli della famiglia Arcuri che abita la collina del vento narrano le generazioni che si susseguono e che segnano continuità e trasformazioni del mondo del Sud. Nel romanzo di Abate il mondo esterno è rappresentato da personaggi importanti per la vita culturale della Calabria del Novecento come Paolo Orsi e Umberto Zanotti Bianco. Queste figure di meridionalisti e uomini di cultura incrociano la vita dei contadini calabresi e insieme a loro lottano per conservare la civiltà e il valore di quella terra.

I due romanzi sono nati in periodi storicamente differenti. Il mondo del nuovo millennio non è più quello del Novecento e anche la Calabria non è più la stessa. Anche in quella terra sono cambiate le condizioni e i bisogni. Nel romanzo di Strati la terra è quasi una maledizione che lega i contadini ad un mondo duro e violento. Lavorare la terra sembra l’unica possibilità di sopravvivere in un mondo antico e arretrato che l’autore del “Selvaggio” contrappone alla modernità e alla vita civile sperimentata da chi ha viaggiato. La stessa terra in Abate diventa un valore primario, un elemento di libertà e di progresso, come a mostrare che all’inizio del nuovo millennio, la vita dei contadini meridionali può ripartire dalla terra, dalla vita costruita sul lavoro dei campi, sulla realtà di una campagna meridionale che nei decenni scorsi era motivo di sottosviluppo e che adesso appare come una grande risorsa.

Il romanzo di Abate racconta della consapevolezza del valore dell’ambiente e della necessità di appropriarsi del patrimonio dell’antica civiltà della Magna Grecia che emerge in Calabria ogni volta che, per una strada o per una costruzione, si scava in quella regione che una volta era al centro di quel mondo da cui è nata l’Europa. La collina del vento è letteratura che narra anche i problemi nuovi di comunità e territori che rischiano nuove predazioni e sono frequentate da moderni trafficanti che speculano sul bisogno di lavoro e di progresso e, talvolta aiutati da nuovi briganti locali, fanno scempio di una terra che avrebbe bisogno di cura e senso civico per riaversi dal sottosviluppo.

I romanzi di Strati e Abate hanno come architrave narrativa le generazioni di una stessa famiglia che di fatto rappresentano un popolo e le sue trasformazioni. Sono le azioni dei suoi membri nel tempo che dura molti decenni a guidare la narrazione. La struttura temporale dei racconti presenta elementi ciclici ma è soprattutto strutturata su un tempo stratificato con andate e ritorni nella narrazione tra le generazioni. Sovrapposizione di epoche, fatti, consapevolezze e paralleli tra padri e figli nei racconti di Strati e Abate si susseguono con andate e ritorni che costringono chi legge a fare i confronti tra le diverse generazioni, tra i loro modi di pensare, tra genitori e figli che nel romanzo di Strati sono in un perenne contrasto, mentre gli Arcuri raccontati da Abate si sostengono tra loro e si muovono sempre nella stessa direzione spinti da un sentimento comune. Sostenuti da radici millenarie ma proiettati sempre verso il nuovo. In questo i due scrittori sembrano mostrare una visione differente del dispiegarsi degli eventi: per contraddizioni dialettiche in Strati e per progressioni di trasformazioni evolutive in Abate. Anche il linguaggio usato nei due romanzi sembra riflettere queste visioni: a volte duro e crudo quello usato da Strati, più vicino al realismo magico di Alvaro quello di Abate. L’uso dei termini dialettali serve a Strati per descrivere in maniera più efficace e profonda la realtà che narra, in particolare quando racconta il sapere contadino o i rituali della ‘ndrangheta. Anche Abate introduce il dialetto quando serve ad aumentare l’effetto simbolico della narrazione e ogni volta che serve a rendere più “vera” la descrizione della vita sulla “collina del vento”.

Abate come Strati è uomo di emigrazione, meridionale che ha vissuto in Germania insieme ad altri emigrati, alle loro difficoltà e tribolazioni. Uomini che hanno lasciato il Sud spinti dal bisogno, uomini che pur consapevoli della necessità di cercare in nuovi territori quello che la loro terra non riesce a dare loro, sentono lo sradicamento e vivono con la ragione nei mondi che li hanno ospitati ma con il cuore rimangono legati al luogo originario. Un concetto che Strati ha ricordato con chiarezza: «È vero, i miei personaggi sono stati paragonati agli ebrei del ghetto, incapaci di acclimatarsi e di mettere radici; ma, vede, l’ambiente dell’anima è là, dove si nasce e il “mondo” è quello dove si è giocato con altri bambini».

È singolare notare come la copertina – di trentacinque anni fa – de Il selvaggio di Santa Venere, dietro il volto di un giovane contadino, mostri i resti di un tempio greco e il recente romanzo di Abate sia centrato sulla ricerca dei resti di Krimisa, la città magno-greca fondata in Calabria dall’eroe greco Filottete, reduce dalla guerra di Troia. Filottete, dopo Krimisa, fece anche costruire un tempio ad Apollo Aleo, dove avrebbe deposto l’arco e le frecce ricevute in dono da Eracle e che lui usò per sconfiggere Troia. Un tempio greco, e tutto quello che ad esso può essere ricondotto, è dunque un chiaro simbolo che lega i due romanzi, che unisce le loro motivazioni profonde e le radici culturali che hanno spinto i due scrittori a narrare le storie della loro terra. Tutte coincidenze che hanno trovato una coincidenza ulteriore e felice nella vittoria al Campiello dei due romanzi. Sono queste consonanze che ci ricordano che, tra le tante nequizie di cui soffre la terra di Campanella e di Alvaro, va comunque segnalata la fortuna di avere storie di valore universale che meritano di essere narrate e, allo stesso tempo, narratori che le sanno raccontare.

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1 commento

  1. Da catanzarese, sono molto felice che un calabrese abbia vinto di nuovo un premio così prestigioso.
    La nostra terra deve essere conosciuta anche per le cose positive che esprime.
    Inoltre, il commento, molto ben confezionato, mi ha fatto ritornare alla memoria la bellezza del romanzo “Tibi e Tascia”, letto negli anni delle scuole medie, scritto tra l’altro dall’autore Saverio Strati.
    Sarebbe davvero bello, magari mediante un incontro pubblico a Catanzaro con Stati ed Abate da trasemttere via web, diffondere la cultura dei calabresi illustri a partire dalla nostra comunità.
    Ed allora, W la Calabria sana della cultura, del lavoro e della difesa dell’ambiente!

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giuseppe zucco
Alcuni suoi racconti sono apparsi su Nazione Indiana, Nuovi Argomenti, Rassegna Sindacale, Colla. Nel 2010 ha partecipato alle Prove d’Autore di Esor-dire, a Cuneo. Sempre nel 2010, nel numero 52, la rivista «Nuovi Argomenti» ha inserito un suo racconto nella sezione monografica Mai sentito, segnalando l’esordio di cinque nuovi scrittori.
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