“Tutto il contrario”: Calvino e le interviste

 

di Luca Lenzini

Tutti sanno, e lo ribadisce Mario Barenghi nell’Introduzione a Sono nato in America…, che Calvino è «un grande classico della narrativa del secondo Novecento in Italia[1]». Tutti lo sanno, nondimeno non era affatto scontato che Mondadori accogliesse nelle sue edizioni un volume di quasi settecento pagine che contiene centouna delle oltre duecento interviste che lo scrittore ha concesso durante la sua esistenza. Chi ha una qualche idea dei meccanismi che presiedono alle scelte editoriali, infatti, poteva con fondati motivi dubitare che una simile impresa andasse in porto. Invece, fortunatamente ora Sono nato in America… si affianca all’opera di Calvino e d’ora in poi accompagnerà il lavoro di chiunque ad essa si voglia avvicinare; ed il merito dell’impresa è del curatore, Luca Baranelli, che oltre a proporlo ha composto il libro con un lavoro durato molti anni.
Da qui, per avvicinarsi al libro, è bene cominciare: dal lavoro (intendo il termine anche, e anzi in primo luogo nell’accezione propriamente materiale) che ha fatto sì che un insieme di testi – e di un genere molto particolare, non facile da trattare (tornerò più avanti su questo punto) – abbia potuto diventare un libro; fatto evidente, essenziale, ma anch’esso per nulla scontato. Un libro: cioé un organismo plurimo e coerente, articolato e compatto, fluido e resistente, capace di durare nel tempo e di essere usato non solo dagli “specialisti”; non un regesto di dichiarazioni e testimonianze ma un libro, oso persino pensare, che Italo Calvino, pur così alieno da indulgenze e narcisismi, non avrebbe rifiutato di mettere accanto a Una pietra sopra (il libro di saggi del 1980[2]), perché il modo in cui Sono nato in America… è stato realizzato, cioé con intelligenza dell’opera complessiva e piena padronanza dello sfondo biografico e del contesto (per non dire della bibliografia[3]), ma anche con una forma di rispetto, di discrezione e di sobrietà, è in chiave con lo stile dello scrittore e dell’uomo. È un punto, questo del rispetto e della sintonia, da non trascurare, perché è il frutto di una condivisione di valori: valori etici, ma anche professionali. Non si trattava soltanto di fare un lavoro comme il faut, il che oggi è già di per sé un ben raro evento, ma di tenersi alla giusta distanza: proprio perché c’è in Calvino una riluttanza ostinata a farsi “personaggio”, così come una innata e dichiarata tendenza alla laconicità, i margini entro cui muoversi erano stretti, ogni eccedenza sarebbe apparsa stonata, incoerente con lo spirito e con la misura che anima i testi. E d’altra parte, è una delle contraddizioni del libro, quella tra la l’invadente e spesso vacua vocazione dell’intervista alla ciarla epocale, e la reticenza, la parsimonia (ligure o meno) dello scrittore: ma è una contraddizione vitale, che andava conservata e non sommersa o smorzata nell’operazione editoriale. Non era facile, ma con poche parole e molti fatti, il risultato è qui davanti a noi: un libro di Calvino, non fatto da Calvino ma nel suo segno, con la sua impronta. Less is more: potrebbe essere questa l’insegna che accomuna i due, Calvino e Baranelli; e sarà il caso di rammentare che una sintonia di questo tipo, sul versante del curatore (e per questo ho parlato prima di valori professionali), configura una forma di fedeltà non soltanto allo scrittore, ma ad uno che ai «libri degli altri[4]» ha dedicato una parte cospicua della sua attività in seno all’Einaudi, la “casa” in cui lo stesso Baranelli ha a lungo lavorato. Ricordo come egli, in un bellissimo intervento su Leone Ginzburg editore, abbia sottolineato qualche anno fa come per quel fondatore vigesse nel lavoro editoriale «una norma superiore di responsabilità e moralità nella professione[5]»; ed è questa, infatti, l’alta tradizione intellettuale a cui Baranelli continua ad attenersi.
Ora, per meglio definire il lavoro del curatore, vorrei usare, in prima approssimazione, una metafora magari banale ma forse non inutile: un lavoro “di taglio e cucito”. Non ho detto, preciso, di “taglia e incolla”: espressione che per le sue risonanze meccaniche, troppo legate ai nostri tempi industrial-informatici, meglio si addice ad altri libri (anche di interviste) che capita di leggere, assai lontani per fattura e concezione dall’ambito in cui si muove Luca Baranelli: che sempre nel saggio su Ginzburg accennava, di passata, alla «“professionalità” acefala di chi pensa che basti saper usare il computer e il telefono[6]». No, qui il riferimento alla sartoria, al taglia-e-cuci,  implica un attento processo di selezione, l’assunzione di una necessaria parzialità che però mantiene un rapporto con la totalità, sempre presente a chi assembla il libro; e d’altra parte, il cucire rinvia al tessuto di nessi visibili e invisibili che scorrono a pié di pagina in Sono nato in America…, e che stabiliscono un orizzonte ausiliario ma determinante per la costruzione del libro. Il lettore infatti trova nelle note del libro non solo rinvii tra le interviste pubblicate, con sottolineatura dei motivi ricorrenti, ma anche con altre assenti, e poi con le lettere di Calvino, pubblicate da Baranelli nel 2000[7], oltre che con le altre opere dello scrittore, e poi – si noti ancora – con testi talora di difficile accesso (e non firmati), ma importanti, come per esempio quelli apparsi sul «Notiziario Einaudi». E quando occorre, il curatore ricorre a carte inedite, documenti originali scovati presso archivi privati e non: anche questo fa parte del lavoro, una caccia che esige tempo, pazienza, tenacia, conoscenza dei luoghi in cui si depositano le tracce di una biografia, familiarità con le biblioteche e con i loro abitanti, con periodici improbabili e pubblicazioni effimere e a volte di consistenza spettrale.
Taglia-e-cuci, dunque; e anni che passano, mentre il progetto assume la sua forma. Solo così varianti e invarianti, presenze e assenze, ripetizioni e omissioni han potuto diventare significanti, cioè partecipare di un tutto riuscendo a parlarci a distanza, al di là del singolo episodio, in una trama che non si consegna all’inerzia del materiale ma ricolloca il rumore atonale e confuso dell’attualità in un concerto di più vasto e ordinato respiro. Del resto va detto, a questo punto, che un tratto proprio, specifico del libro è dato dal carattere scritto dei testi: c’è in essi, molto più che in altri casi del genere, una forte impronta d’autore, per la diffidenza (o si dica pure allergia) di Calvino verso il discorso non organizzato; una specie di autodifesa nei confronti della parola fluttuante, imprecisa, che non sia il frutto del lavorìo sperimentale del narratore. Ne deriva che  l’elemento occasionale – e l’occasione è molto spesso data dalla pubblicazione di un libro, ovviamente – non è interpretabile (o non del tutto) in chiave estemporanea, non apre a suggestioni che non siano in qualche modo preordinate all’interno dei percorsi e delle strategie dello scrittore. Lo spazio dell’improvvisazione non è negato ma ridotto, circoscritto: il dialogo può così muoversi entro una cornice imposta e predefinita – una situazione, questa del lavoro “su commissione”, per nulla sgradita a Calvino – e in qualche modo addomesticata.
Motivo di più, si potrebbe dire, per accostare Sono nato in America… ai libri saggistici; la cui densità, tuttavia, si colloca in altro registro, in altro universo stilistico. L’intervista è pettegola, spesso sconta l’arrivismo degli intervistatori, la loro smania di sfoggiare credenziali, la tendenza un po’ velleitaria alla saturazione culturale di ogni parola e aspetto del mondo: meglio allora, per uno come Calvino, un pubblico composto dagli studenti di una scuola (Scrivo perché non ero dotato per il commercio, pp. 527-550); e più stimolante, forse, il punto di vista di uno straniero, con lo sguardo meno condizionato dai clichés di casa nostra (e della sua stagnante società letteraria, con le sue scuderie consorterie e intrallazzi, a cui egli è restato estraneo): sguardo esterno che nel libro, non a caso, è molto ben rappresentato. D’altra parte, l’intervista è per natura esigente: esige (qui e ora) nomi, opere, riferimenti rapidamente assimilabili, battute spendibili, costellazioni culturali citabili nella piazza mediatica. Di qui, nell’arco che dal ’51 giunge all’85, un inevitabile e mobile scontorno, un margine variabile, un rapporto di continuità e discontinuità che va valutato e interpretato con cautela.

Prima ho parlato di “contraddizione”: parola usurata e generica, che merita un approfondimento. Intanto, si ha l’impressione che un istinto contraddittorio, una tentazione più o meno tenuta a bada al paradosso e alla confutazione percorra in più parti Sono nato in America… In primo luogo perché cogliendo lucidamente le implicazioni del discorso dell’intervista, impregnato di convenzioni ideologiche e di luoghi comuni, la posizione di Calvino tende a deludere le risposte già incorporate nelle domande. È sottinteso che bisogna stare al gioco, ma nemmeno farsi giocare dagli altri: il lettore pertanto deve entrare in una dimensione ironica, stare attento sia alle iperboli sia alle forme di understatement di varia gradazione che scivolano nel discorso. «L’uomo alienato? È il grande tema del nostro tempo – dice un intervistatore; e lui: – “Le confesso che nei miei romanzi fantastici il significato qualche volta mi sfugge.”» (p. 50). Un’altra volta a Ferdinando Camon che gli ripropone temi già trattati nella prefazione del  ’64 al Sentiero dei nidi di ragno:

Senta, Camon, prima vorrei che stabilissimo insieme qualche regola del gioco. Questo tipo di domande che cominciano: … lei nell’anno tale ha scritto questo… a cosa servono? Se una cosa l’ho già detta una volta non ho nessuna voglia di ripetermi. Le persone che parlano sempre delle stesse cose: che barba. Il mio primo impulso sarebbe di risponderle dicendo tutto il contrario, ma dovrei ricordarmi bene quello che avevo detto e in che occasione, e io questo genere di scritti non vado mai a rileggerli – parlo di interventi, articoli, prefazioni, dichiarazioni, nati sempre in una situazione precisa come battute di un dialogo -, passato quel momento non ci penso più. Per rimetterli a fuoco dovrei tornare a immedesimarmi in un contesto, in un umore… (p. 183)

Ecco, qui c’è un avvertenza che vale anche per le interviste (quasi delle “istruzioni per l’uso”): battute di un dialogo. Questo del “dialogismo” mi pare un punto importante, con quel tanto di relazionale e posizionale (e in tal senso relativistico) che introduce nei testi. Non un un’avvertenza ma un’intimazione, poi, quella che Calvino rivolge bruscamente nell’81 a un altro intervistatore: «Tutto quello che verrà registrato non vale. Non lo riconosco e non lo firmo» (p. 506). Qui riaffiora la ripugnanza per «questa roba [la parola] che esce dalla bocca, informe, molle molle…» (p. 184), la parola che non fa parte di una precisa “lingua”, ed in quanto tale estranea all’universo autoriale; ma mi chiedo se non ci sia anche di più, come se il disconoscimento del sé pubblico fosse sempre latente e un istinto alla fuga in qualche modo prendesse il sopravvento quando lo scrittore è strappato al suo mondo, senza che prima siano fissate le regole con cui poter stare al gioco. Ma si veda come Calvino risponde a Nascimbeni che gli ricorda di aver dichiarato, in Collezione di sabbia, una spiccata avversione all’esplorazione dell’interiorità, réfrain che emerge con una certa frequenza: «È una cosa che dico spesso, forse col segreto desiderio di sentirmi replicare: ma no, anche tu sei penetrantissimo psicologicamente. Però questo non avviene mai, cioè nessuno mi risponde così.» (p. 594). Manco a dirlo, verrebbe voglia di prendere sul serio quella sua repressa aspirazione, e dimostrare che aveva ragione lui, e non la vulgata; ma qualcuno, chissà, avrà già scritto un illuminante saggio sull’argomento. C’è comunque sempre la possibilità che l’autore contraddica radicalmente l’interlocutore, dove questo inclina al luogo comune o incoraggia l’aborrita «pigrizia mentale» (p. 652) propria di tanti colleghi scrittori: si direbbe che l’arrière pensée tanto più tende a prendere delle distanze, quanto più si estende il potere della “doxa”; una tattica a cui presiede, più o meno inconsciamente, il desiderio di rivendicare e mantenere un margine di indipendenza. E questo meccanismo, questa forma di riserva che rende la pariglia all’Impero della Tautologia (promosso non solo dai media, ma dalla critica) risponde, per Calvino, a un principio non solo individuale e privato, se quando Arruga gli riporta le critiche “da sinistra” a Luciano Berio, sospettato di «qualunquismo» per la «disponibilità onnivora» verso ogni forma di espressione musicale, egli osserva: «È pericoloso parlare di queste cose, perché magari allora lui [Berio] cerca di dimostrare il contrario» (p. 505).
Per restare ai testi, ci sono dunque forme di resistenza, così come ci sono fughe in cui riconosciamo, in nuce, la deriva del narratore fantastico. Ma sottolineare tutto questo non vuol dire negare l’importanza delle interviste, o delle affermazioni che vi si leggono: al contrario vi sono nel libro molti passaggi su cui riflettere a lungo, non solo (com’è ovvio) sulla letteratura e sui colleghi scrittori, ma in particolare sulla recente storia italiana, passaggi che Barenghi bene evidenzia nell’Introduzione. Di che fare diversi saggi e qualche libro. L’importante, però, è tener conto, in via preliminare, che ogni posizione o “battuta” va messa in situazione, e che può essere collegata con altre e sì, anche contraddetta o limitata o precisata da altre ancora (e talora vanno letti pure i silenzi, le omissioni); conta il ritratto che esce, di pagina in pagina, dal libro. Del resto, per questa strada si potrebbe facilmente estendere il discorso a considerazioni di ordine generale, perché relativo è anche il valore che spetta alle cosiddette “poetiche” degli scrittori: chi crede che la letteratura sia una forma di conoscenza, e Calvino è esplicitamente uno di questi (vedi in proposito Mi piace sperimentare forme nuove, 1985, p. 607), sa anche che le verità offerte dalle opere non sono riportabili pianamente e integralmente ai programmi e alle intenzioni dell’autore, al suo orizzonte culturale, per quanto raffinato esteticamente o ideologicamente armato. Forse, insomma, lo spiritello contraddittorio che si fa vivo in Sono nato in America… ha a che fare, al di là degli umori, con questa nozione, con la consapevolezza di questa peculiarità propria dell’arte.

Tra i tanti, infiniti percorsi possibili al lettore del libro, mi limiterò a segnalare due aspetti collegati alla cornice appena abbozzata, che oltre alla contraddizione palese o soltanto minacciata contempla numerosi esempi di variazione, di oscillazione e correzione a se stesso, di allargamenti di campo e zoomate. C’era da aspettarselo, dalle «battute di un dialogo» disseminate lungo oltre trent’anni; ma tale è la ricchezza del libro, in questo senso, che facilmente e felicemente ci si può perdere – almeno a me, è capitato questo – tra gli innumerevoli spunti che esso dispensa. Faccio il caso degli autori messi in primo piano, di anno in anno, nelle risposte sulle influenze letterarie e culturali che i singoli libri propongono: nomi che si può fare anche a meno di citare, avendoli già fatti tante volte la critica, da Ariosto a Fourier, da Borges a Voltaire, da Pavese a Nabokov, da Stevenson a Ponge, da Lucrezio a Queneau e da Collodi a Galileo, Valéry e Verne e via di seguito. Puntualmente, li ritroviamo tutti insieme in queste pagine, in parata: un universo variegato, plurale e anzi, senz’alcun dubbio, eterogeneo, ma che ogni volta trova una sua necessità in motivi e strategie dell’elaborazione letteraria e intellettuale dello scrittore. È chiaro che qui siamo rinviati al carattere più evidente dell’opera di Calvino, al suo aspetto sperimentale, la costante passione di tentare strade sempre nuove, e insieme all’insofferenza, d’altro canto, a esser bloccato in una categoria, in una maniera o stereotipo. A libro chiuso, però, viene un sospetto: non sarà che quando gli interpreti dell’opera insistono su fasi distinte e sequenziali all’interno della “carriera” dello scrittore – è questa una delle manie della critica –  identificando vari momenti di un’evoluzione lineare che trova via via in questo o quell’autore il suo riferimento, non operino a loro volta, sulla scia delle indicazioni che l’autore ha seminato in prefazioni, interviste e interventi (per cui vale l’avvertenza a Camon), una qualche forzatura? Prima il realismo e Vittorini e Hemingway, poi le favole e Propp e poi gli strutturalisti e la “metaletteratura”; sì, benissimo, certamente – ma che barba. Qualcosa di meccanico, un irrigidimento schematico si ripropone in questi discorsi. Il fatto è che la folla di nomi c’è e qualcosa vuol dire, ma è anche vero che in più punti Calvino ci dice di lavorare su tavoli diversi contemporaneamente, seguendo filoni che poi coagulano in determinate opere ma potrebbero riaprirsi o svilupparsi secondo itinerari che si chiariscono (o ingarbugliano) solo strada facendo. Anche qui, non sarà pericoloso parlare di queste cose a partire da luoghi comuni e dalle mode novecentesche? Non si rischia così, per l’appunto, di indulgere a quella «pigrizia mentale» che il nostro tanto detestava? La mia, ovviamente, è una domanda e non una conclusione, un modo per lasciare aperto un dubbio che almeno non faccia torto all’ironia dell’autore.
Infine c’è la questione dell’autobiografia, davvero troppo ingombrante e complessa perché si possa cavarsela per brevi cenni. Fin dal titolo Sono nato in America… invita il lettore a un percorso biografico, e l’ordine cronologico non può che confermarne – e come, altrimenti? – il presupposto. Come scrive Barenghi, «l’effetto […] è quello di un nuovo, grande cantiere autobiografico» (p. XIII); meglio ancora, «un’autopresentazione simile a un prisma rotante che prende forma davanti ai nostri occhi, senza mai consentire una visione completa e stabilizzata.» La precisazione mi sembra preziosa: l’insieme di questi frammenti allude ad una totalità, ma è una totalità mobile, incompleta e instabile; cioè una totalità che dice e non dice, scopre e copre al tempo stesso. Come scrive Luca Baranelli nella  Nota del curatore, si tratta in realtà, in primo luogo, di una «autobiografia intellettuale» (p. XXVIII, corsivo mio), anche se non vi mancano le notizie di ordine biografico in senso stretto. Ma il tema è complicato e particolarmente suggestivo per una circostanza specifica, a cui lo stesso Baranelli accenna, e cioè che negli ultimi anni in Calvino «invenzione narrativa e verità autobiografica tendono a convergere, se non a coincidere» (ibid.). Ascoltando lo spiritello paradossale di cui sopra, si è tentati di invertire i termini e parlare di “invenzione autobiografica” e “verità narrativa”; ma sarà meglio non insistere con queste divagazioni e sentire ancora lui, Calvino, stavolta dal libro delle Lettere. «Ogni volta che rivedo la mia vita fissata e oggettivata sono preso dall’angoscia, soprattutto quando si tratta di notizie che ho fornito io…»: così Calvino scriveva a Milanini nel luglio del 1985[8]. Angoscia: sia pure detto en passant, non è un accenno su cui sorvolare. È solo lo scrupolo ostinato dell’editor di se stesso, un’enfasi umorale oppure, di nuovo, c’è dell’altro?
Non saprei rispondere, ma propendo per la terza ipotesi: entriamo qui in una zona in buona parte da esplorare, incognita e forse non del tutto rischiarabile. Né sappiamo più di tanto dei progetti avviati e incompiuti di cui parlano certe lettere, di quei Passaggi obbligati nominati a volte tra i lavori del cantiere[9]. Magari lui avrebbe detto che anche di quelli il significato gli sfuggiva; noi di certo sappiamo che a fronte delle poche pagine di La poubelle agrée e La strada di san Giovanni, con la loro cristallina bellezza, interi tomi di acclamate opere novecentesche sembrano d’un tratto avvizzire e sgretolarsi. Per chi crede in queste cose – l’invenzione, la fantasia, la verità – qui si apre un vuoto doloroso, una mancanza di quelle che l’ironia, per una volta, non sa maneggiare. È allora giusto che anche il lettore di Sono nato in America…, dopo tanto nutrimento e divertimento, si fermi in quel punto, su questa nota dolente e sospesa, risonante di echi memoriali e di progetti interrotti, come se fissare la vita, oggettivarla, fosse per sempre qualcosa che la vita, per l’appunto, non gli poteva concedere, e dovesse restare un progetto sfuggente, anzi una inafferrabile allegoria.

Luca Lenzini

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[1] M. Barenghi, Introduzione a Italo Calvino, Sono nato in America… Interviste 1951-1985, a cura di Luca Baranelli, Milano, Mondadori, 2012, p. XI. D’ora in poi i riferimenti a questo libro saranno dati direttamente nel testo, tra parentesi.

[2] I. Calvino, Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società, Torino, Einaudi, 1980 (poi in I. Calvino, Saggi 1945-1985, a cura di M. Barenghi, II, Milano, Mondadori, 1995.

[3] Luca Baranelli è anche autore della Bibliografia di Italo Calvino, Pisa, Edizione della Normale, 2007, nonché, insieme a Ernesto Ferrero, dell’Album Calvino, Milano, Mondadori, 1995.

[4] Vedi I. Calvino, I libri degli altri: lettere 1945 – 1981, a cura di G. Tesio, Torino, Einaudi, 1991.

[5] L. Baranelli, Leone Ginzburg editore, «L’ospite ingrato», VII, 2002, p. 303.

[6] Ivi, p. 299.

[7] I. Calvino, Lettere 1940 – 1985, a cura di L. Baranelli, Intoduzione di C.Milanini, Milano, Mondadori, 2000.

[8] I. Calvino, Lettere cit., p. 1538; vedi L. Baranelli, Nota del curatore in I.C., Sono nato in America… cit., p. XXIX.

[9] In proposito vedi  la sezione Pagine autobiografiche nell’apparato (a cura di M. Barenghi) di I. Calvino, Saggi …, II, cit., pp. 3026-3032; e L. Baranelli, Nota del curatore, in I.Calvino, Sono nato in America… cit., pp. XXVIII-XXX.

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1 commento

  1. Da qui, per avvicinarsi al libro, è bene cominciare: dal lavoro (intendo il termine anche, e anzi in primo luogo nell’accezione propriamente materiale) che ha fatto sì che un insieme di testi – e di un genere molto particolare, non facile da trattare (tornerò più avanti su questo punto) – abbia potuto diventare un libro; fatto evidente, essenziale, ma anch’esso per nulla scontato.

    Paratassi non adatta al web. Ho smesso di leggere da questo punto in poi.

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