Raccontare l’Italia postcoloniale: note sparse su identità e cultura nei documentari Aulò e La quarta via

di Daniele Comberiati

Nel documentario La quarta via. Mogadiscio Italia di Simone Brioni, Ermanno Guida e Graziano Chiscuzzu, contenuto nel libretto Somalitalia. Quattro vie per Mogadiscio a cura dello stesso Brioni e distribuito da Kimerafilm, viene intervistata la scrittrice Kaha Mohamed Aden, già autrice per Nottetempo del bel libro di racconti Fra-intendimenti. La narrazione qui ha inizio attraverso un paradosso: “È molto difficile per me raccontare Mogadiscio”, attacca Kaha, ed è da questa difficoltà, dalle parole che non vogliono rendere concreto il ricordo, che la capitale somala inizia a prendere forma. Curioso che anche nel documentario Kaha si serva di carta e penna per disegnare la città, per tracciarne linee e confini, così come aveva immaginato qualche anno fa Igiaba Scego in un suo racconto, Il disegno, nel quale una Mogadiscio dimenticata, ricordata e infine ripensata e ricostruita veniva disegnata ad un bambino che non l’aveva mai vista. “Esiste ancora questa città, mamma?” chiedeva il bimbo nel racconto della Scego; la scrittura dunque come luogo della ricostruzione, della negoziazione delle identità e della riformulazione dei ricordi. In La quarta via, se possibile, il segno è ancora più rarefatto; non sono figure ad apparire sul foglio che i registi inquadrano costantemente, come a scandire i tempi della narrazione, ma linee orizzontali ondulate, “vie”, che nella loro giustapposizione (una sopra l’altra, quasi a voler mostrare i segni archeologici della storia, ma anche la complessità delle loro relazioni) rendono il senso di un passato spezzato. La quinta via, di fatto, ancora non c’è, poiché la nostra narrazione si ferma alla quarta, il cui colore grigio (un colore “metallico, senza vita”, dice Kaha) indica la cancellazione dei segni precedenti. La stessa dinamica appariva nel racconto della Scego: anche lì era la matita a dover soccorrere la memoria, quasi che nell’atto fisico, quale ricordo automatico, fossero presenti elementi che il pensiero razionale si rifiutava di mettere a fuoco, per nostalgia, tristezza o paura.


Fra le vie segnate, all’interno del film, c’è molto altro, come ad esempio gli spezzoni di un documentario del 1960, che descrive la fine dell’Amministrazione Fiduciaria Italiana in Somalia. Ad ascoltare oggi quelle parole, si comprende con facilità quanto siano radicati, nella cultura italiana, il retaggio coloniale e gli stereotipi ad esso legati. D’altronde è lo storico Antonio Maria Morone, in uno dei saggi introduttivi del libro, a mettere in guardia dalle banalizzazioni e dai luoghi comuni sul colonialismo italiano: che è stato feroce, violento, inscindibilmente legato alla costruzione dell’identità nazionale quanto quello di altri stati. E non si può certo pensare di addurre ad un progetto politico di “colonizzazione dal volto umano” eventuali carenze organizzative o tecniche che hanno impedito che il programma di violenza e segregazione prendesse ancora più piede.
Vi è inoltre nel film una tensione continua, quasi ossessiva, fra l’immobilità e il movimento; Kaha è intervistata quasi sempre in stato di immobilità, ma in una quiete nervosa: muove gli occhi e le mani sul divano, prende libri, impugna la penna e inizia a tracciare le vie; guarda la macchina all’esterno mentre il Ticino dietro di lei scorre e la riporta col pensiero a Mogadiscio; persino nelle scene girate all’università di Pavia lo spettatore è distratto dai movimenti in campo delle altre persone, perfettamente a fuoco, che interrompono brevemente la stasi del corpo in primo piano. Alcune note finali, a questo proposito, creano un legame fra radicamento e distanza, appartenenza e migrazione, situando il documentario, che va visto “insieme” ai libri che lo accompagnano, all’interno di una riflessione che, da una storia coloniale che potrebbe anche apparire lontana, riporta quasi con veemenza all’attualità e alla riformulazione, oggi, dell’identità italiana.
Nel libro allegato un intervento di un’altra scrittrice somala, Shirin Ramzanali Fazel, che con Nuvole sull’equatore (Nerosubianco, 2010) ha ben descritto i dieci anni di Amministrazione Fiduciaria Italiana, si sofferma sull’Arco di Trionfo, uno dei pochi monumenti rimasti in piedi e risparmiato dalla guerra civile. A partire da questo monumento si intrecciano le storie dell’Italia e della Somalia, che dal periodo coloniale giungono fino ai nostri giorni. Un procedimento, quello di sovrapporre passato e presente, evidente anche nell’altro documentario della duologia distribuita da Kimerafilm, Aulò. Roma postcoloniale (prodotto dalla Redigital di Roma), dove ad essere in scena, questa volta, è la scrittrice di origine eritrea Ribka Sibhatu.

In questo caso gli autori hanno optato per una contronarrazione italiana, la voce e il corpo di Ermanno Guida che fa da controcanto alle parole e alle poesie di Ribka. Documentario prezioso, questo (scritto da Sibhatu e Brioni, per la regia di Brioni, Guida e Chiscuzzu), perché porta almeno a due riflessioni importanti. La prima riguarda l’impiego del mezzo cinematografico nel recupero e nella trasmissione della cultura orale, come già si poteva intuire in La quarta via. La seconda riguarda le relazioni fra Roma e le capitali delle antiche colonie e più in generale le dinamiche fra centro e periferia: nel film Roma è percorsa attraverso le tracce coloniali che vi rimangono e secondo i luoghi che la nuova postcolonialità ha riformulato. Asmara poteva apparire provincia durante il ventennio, eppure già vi si sperimentavano conflitti che rendevano il nostro centro molto più marginale di quanto si poteva pensare.
“Una città è di chi la vive”, conclude Ermanno Guida. E non poteva essere altrimenti, visti i complessi percorsi migratori (coloniali, postcoloniali, ma anche riferiti alla cosiddetta “nuova mobilità”) che i due testi mettono in gioco. E bisognerebbe anche chiedersi, seriamente, quanto stia cambiando la cultura italiana grazie ai processi di immigrazione, ma anche grazie alle nuove emigrazioni, poiché sono sempre di più le persone che si trovano a lavorare sulla cultura e sulla letteratura italiane all’estero (in maniera precaria o strutturata), cercando di ricontestualizzarne le dinamiche di potere e di rimetterne in discussione il canone.

I film trattati nell’articolo sono a disposizione sul sito di Kimerafilm

Simone Brioni, a cura di. Somalitalia: Quattro Vie per Mogadiscio. Somalitalia: Four Roads to Mogadishu. Con allegato il documentario La quarta via: Mogadiscio, Pavia. Roma: Kimerafilm, 2012. Pp. 37. € 15.00. ISBN 978-88-907714-0-8

Ribka Sibhatu. Aulò!Aulò!Aulò! Poesie di nostalgia, d’esilio e d’amore. Aulò!Aulò!Aulò! Poems of Nostalgia, Exile and Love. Con allegato il documentario Aulò: Roma postcoloniale. A cura di. Simone Brioni. Roma: Kimerafilm, 2012. Pp. 41. € 15.00. ISBN 978-88-907714-1-5

 

Daniele Comberiati è chargé de recherches Frs-Fnrs presso l’Université Libre de Bruxelles. Ha pubblicato la raccolta di interviste La quarta sponda. Scrittrici in viaggio dall’Africa coloniale all’Italia di oggi (Roma, Pigreco, 2007; seconda edizione Roma, Caravan, 2010), i saggi Scrivere nella lingua dell’altro. La letteratura degli immigrati in Italia (1989-2007) (Bruxelles, Peter Lang, 2010) e Tra prosa e poesia. Modernità di Sandro Penna (Roma, Edilet, 2010), autore per il quale ha curato la traduzione in francese di Peccato di gola (De la gourmandise, Paris, Ypsilon, 2009). Nel 2010 ha curato per le edizioni Nerosubianco di Cuneo la raccolta di racconti postcoloniali Roma d’Abissinia. Asmara, Mogadiscio, Addis Abeba: cronache dai resti dell’impero. Nel 2012, sempre per Nerosubianco, ha pubblicato Di eredi non vedo traccia. Storie di tani, mericani e tripolini, raccolta di racconti che affrontano momenti legati all’emigrazione italiana. Nel 2013 vedranno la luce il saggio «Affrica». Il mito coloniale italiano attraverso i libri di viaggio di esploratori missionari dall’unità alla sconfitta di Adua (1861-1896), presso l’editore Cesati, e la curatela, insieme ad Emma Bond, della miscellanea Il confine liquido. Scambi letterari e interculturali fra Italia e Albania, presso l’editore Besa.

 

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Maria Luisa Venuta
Maria Luisa Venuta Sono dottore di ricerca in Politica Economica (cosiddetto SECS-P02) Dal 1997 svolgo in modo continuativo e sistematico attività di ricerca applicata, formazione e consulenza per enti pubblici e privati sui temi della sostenibilità sociale, ambientale e economica e come coordinatrice di progetti culturali. Collaboro con Fondazione Museo dell'Industria e del Lavoro di Brescia e Fondazione Archivio Luigi Micheletti. Sono autrice di paper, articoli e pubblicazioni sui temi della sostenibilità integrata in lingua italiana e inglese.
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