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Poesie edite da “L’alcova del sé”

di Antonio Maggio
 
Incipit
 
Non soltanto parole che, perdute,
ritrovano nel tempo un’altra forma
raccolgo tra le foglie qui cadute
 
già prima che l’idea si faccia norma
e scavi nella mente come luce
soffusa che il demiurgo plasma e informa.
 
Ma immagini racconto a chi m’induce
a cercare nell’anima del mondo
una traccia d’argento che riluce
 
nascosta dentro al cuore, nel profondo.
 
1.
 
Forse a poche inquietudini avvicino
le labbra circonfuse di bugie
da mani che si avvolgono in manie
con te che appoggi il capo sul cuscino.
 
Mi sento più spaesato se mi ostino
a cercare un passato per le mie
delusioni, al selciato delle vie
cosparse d’una resina di pino.
 
Se solo il desiderio si ritrova
a fermarsi per deboli sussurri
in uno stuolo armato di silenzio
 
si scioglie col caffè l’amaro assenzio
nelle follie dipinte in cieli azzurri
sull’ultima realtà tornata nuova.
 
2.
 
E me ne vado con il cuore in gola,
questo pensiero sempre più distante
dalla lenta invadenza della mola
sul seme secco, con ritmo incessante.
 
Restano a me vuote strade e la sola
faccia distratta di città e d’amante
ruba-lusinghe con l’amaro in gola,
la veste logora all’Evo fluttuante.
 
Scivola il vento nell’afa e non trova
luce d’idea che attenda o la rinata
ossessione infelice, intima prova
 
sul letto di rattoppi ospite ingrata
a bearsi dell’ombra che rinnova
la sostanza fugace e inusitata.
 
3.
 
Nell’alcova del sé che si sfilaccia
si raggrinza una donna nel giaciglio
strappando il suo rimpianto al bianco giglio
-immemore il destino qui s’allaccia-
 
sul filamento di luce e minaccia
di consegnare tutto allo scompiglio
come lei, fredda e altera nel cipiglio
informe della sera che si affaccia.
 
Ma non giudicherò la nuova gora
l’emozione rappresa e il cuore solo
puntando il dito nell’aria sbiadita
 
nel sogno di sorprendere la vita
inginocchiato tra le pietre al suolo
prima che l’orologio batta l’ora.
 
4.
 
Il sentimento di me era sfiorito
nell’autunno stagliato sulla cima
del monte. Lì, solo, quando dapprima
dentro di me si consumava un rito.
 
Ho ripercorso il suono d’un vagito
lungo di note e la parola prima
sottratta al vortice di quella lima
affanno del mio cuore già contrito.
 
Fui pronto a riscoprirmi nella foglia
inerte che prolifica al cammino
e scricchiola delusa al calpestio
 
dell’uomo in eco morta, non restio
a svendere il dovere col destino,
immobile, come ansia, sulla soglia.
 
Dialoghi del corpo e dello spirito
 
Corpo I
 
Per quello che laggiù hai perso prima
non ti chiederò il conto tra le righe
mietute in mezzo ai campi come spighe.
Col perdermi comunque l’autostima
 
io finirò, se ascolto chi qui mima
la parte incerta dell’attaccabrighe
come onda che si infranga sulle dighe
dell’esistenza, nuda in una rima.
 
Perciò voglio parlarti con le mani
tese a percuotere il seme e la terra
per far sì che la vita non si svenda
 
ad un barlume vuoto, negli arcani
misteri che la mente non afferra.
E sarai tu soltanto a fare ammenda.
 
 
 
Spirito I
 
 
L’errore che conosci ti trattiene,
amico, dal concludere un confronto
ti muti, ti risolvi e attendi il conto
ma poi rimani nelle tue catene
 
imprigionato. Vuote cantilene
risuonano infelici nel tramonto
ti perdi tra parole e non mi adonto
col cuore destinato all’Uno-Bene.
 
Ascoltami, perché brucia nel seme
qualcosa che la fiamma non consuma
e che tramuta nell’ostinazione
 
del tempo speso giudicando insieme:
l’involucro apparente presto sfuma
e ci consegna a un’altra dimensione.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
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daniele ventre
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Daniele Ventre (Napoli, 19 maggio 1974) insegna lingue classiche nei licei ed è autore di una traduzione isometra dell'Iliade, pubblicata nel 2010 per i tipi della casa editrice Mesogea (Messina).
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