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Un’autobiografia impersonale. Note su “Girls” di Lena Dunham

di Enrico Camporesi

Who cares if there’s a plot or not

when they’ve got a lot of dames?

What do you go for? Go see a show for?

Let’s tell the truth: you go to see those beautiful dames!

Da Dames (R. Enright & B. Berkeley, 1934)

Quasi fosse un esercizio sofistico, a più riprese ho tentato di dare corpo, oralmente, alla mia passione per Girls. La verbalizzazione si faceva difficile, quanto più semplice e irresistibile era il piacere tratto da questa prima serie prodotta da HBO e trasmessa l’anno scorso, giunta con qualche mese di ritardo in Italia, e che ora si appresta a trovare un prolungamento in una seconda (a partire dal 13 gennaio). Giova forse ricordare un frammento di conversazione che aveva aiutato a portare l’attenzione sull’oggetto. Un’amica: «hai visto Girls? È il Sex and the City dei tempi della crisi». Mi sono detto, dopo aver letteralmente divorato l’integrale di quest’ultima, che certo una visione si imponesse. Premessa doverosa: la serie televisiva non è qualcosa che attrae tendenzialmente la mia attenzione, benché negli ultimi tempi mi sia ritrovato a guardarne (per i più diversi motivi) una certa quantità. A differenza di altre immagini mobili, per così dire, la serie è stato sempre un oggetto difficile da affrontare, vuoi per una maggior inclinazione verso l’immagine cinematografica, vuoi per un’insofferenza pacata (e preciso: per nulla snobistica) verso la narrazione a puntate. Ora, ho visto Girls per la prima volta in una settimana di vacanza quando, come spesso mi succede in questi brevi periodi di pausa, avevo deciso di accantonare temporaneamente il film come oggetto d’elezione e dedicarmi ad altro. Se ripercorro brevemente il contesto nel quale si è svolto il primo incontro con Girls è al solo fine di chiarire come le condizioni di visione fossero così peculiari e non lasciassero certo presagire quanto segue. In compagnia di un amico vedo dunque il primo episodio, recuperato come l’intera serie sulla rete e visto su un altro piccolo schermo, il notebook.

C’è nell’inquadratura una ragazza rotondetta e non particolarmente carina, a cena coi suoi genitori. La famiglia si è riunita a New York, dove la figlia ventiquattrenne sta svolgendo uno stage non ben identificato ed è alle prese con le sue ambizioni letterarie. Attraverso qualche riga di dialogo si indovina il clima che iscriverà la serie appunto sotto il segno della “crisi”, nella doppia declinazione economica e personale. I genitori, vedendo i progressi di Hannah, decidono di tagliarle i fondi: da ora in avanti dovrà cavarsela da sola. Malcelata sotto le spoglie di un incoraggiamento energico, la decisione deriva in realtà dalla volontà della madre di godersi il frutto del suo lavoro, senza dover pensare alla sopravvivenza della pargola. Come ogni decisione in vista di un godimento personale, la madre si concede un’oncia di sadismo: proibire il dessert alla figlia, una volta consumato il pasto. Tanto è bastato, sul principio a catturare la mia attenzione. In effetti, il momento di apertura del pilota è già programmatico, benché non esaustivo. Ma vi è tutto l’occorrente per decifrare la serie, a ben vedere: la messa in scena asciutta, i dialoghi affilati e precisi, un conflitto inaugurale e, beninteso, la “crisi” che ha contribuito a fornire l’orizzonte interpretativo dominante dell’opera – elemento certo pertinente ma perlomeno in parte fuorviante.

Eppure proprio dalla “crisi”, e da ciò che vi sta attorno, si potrebbe partire per una lettura di Girls. Non solo e non tanto perché la componente economica fa il suo ingresso immediatamente sulla scena ma per ragioni più profonde, che riguardano anche la prospettiva dello spettatore. Se la crisi infatti coincide, come l’etimo vuole, con un momento di separazione, è chiaro che la declinazione del termine consente di intravvedere un ostacolo problematico, vale a dire la componente generazionale. Perché mi sento immediatamente coinvolto da Girls? Forse solo perché riguarda la mia stessa generazione? Riporto l’osservazione pertinente di un’altra amica, che dopo aver visto i primi minuti del pilota ha dichiarato: «it’s a little bit too close to home». Mi riguarda troppo da vicino. C’è qualcosa in Girls che mi tocca o, meglio, mi addita come soggetto privilegiato. Sulle prime ho pensato che fosse precisamente questa interpellazione diretta e anagrafica ad attrarmi, ma basta aspettare qualche minuto perché all’interno dell’episodio la stessa Lena Dunham (attrice, sceneggiatrice e in gran parte regista – in buona sostanza autrice della serie) confuti irrimediabilmente questa intuizione imprecisa. Hannah si reca dai genitori per cercare di convincerli a finanziare il suo futuro e pronuncia, sotto l’effetto di una bevanda all’oppio, alcune parole: «credo di essere la voce di questa generazione, o almeno una voce di una generazione». La consapevolezza, filtrata da un allucinogeno, è pregnante, e svela l’attrazione generazionale come un miraggio. «Una voce di una generazione»: non vi è dichiarazione meno presuntuosa, chiunque potrebbe fare suo questo proclama.

Vale allora la pena soffermarsi su chi effettivamente si celi dietro questa voce. La questione è più complessa di quanto potrebbe sembrare a prima vista, e tale complessità è articolata a partire da uno stratagemma dalla semplicità disarmante: la sovrapposizione fra il personaggio finzionale e l’autrice. Lena Dunham aveva già realizzato un lungometraggio, intitolato Tiny Furniture (2010), nel quale la coincidenza era quasi totale. Dunham interpretava infatti una ragazza, che ritornava a vivere a Manhattan dopo gli studi all’Oberlin College in Ohio. Fin qui il percorso ricalca la biografia della stessa Dunham, ma vi è di più. Siri, la mamma artista dalla quale Aura (questo il nome della protagonista) ritorna non è altro che Laurie Simmons, madre biologica della regista e rinomata figura della scena artistica newyorkese. In questo gioco di rimandi che pare infinito fra mondo fittizio e vissuto personale (moltiplicato a livelli esponenziali dato che Aura presenta nel corso del film un “suo” lavoro video – The Fountain – realizzato però da Lena Dunham nel 2007) si articola l’universo di Tiny Furniture. C’è chi, come Phillip Lopate, in un saggio pubblicato in occasione dell’uscita DVD (Criterion) del film, ha cercato di sbrogliare la questione. Il termine di paragone atto a servire da chiave interpretativa è per Lopate, evidentemente, Woody Allen:

She has adopted his strategy of being the performer of one’s own self-mocking material; she uses the streets of New York City in a similarly emptied-out way; and the loft scenes, with their wide angles bisected by wall verticals, seem to quote Gordon Willis’s interior cinematography in Manhattan (1979).

L’osservazione non è certo infondata, anzi essa parrebbe addirittura inconfutabile vista la stretta corrispondenza fra performance attoriale, localizzazione geografica e appurato persino l’eco di uno stile affine. Più avanti Lopate corregge il tiro affermando che però, a differenza di Woody Allen, Dunham non si riserva le repliche verbali più argute, ma amplia il ventaglio dei caratteri, affidando a ciascuno dei suoi personaggi una consistenza drammaturgica specifica. In realtà c’è qualcosa che sfugge, se ci si attiene solo a queste osservazioni. Ed è proprio a partire dall’esempio apportato da Lopate che si può precisare qualcosa di più cruciale. Il tessuto verbale di Woody Allen non è una mera emanazione dell’espressione di un individuo. Se così fosse, si potrebbe risolutamente accantonare il tutto parafrasando l’affermazione della sorellina di Aura (interpretata da Grace Dunham, manco a dirlo, la vera sorella di Lena) riguardo alla poesia compresa in Tiny Furniture: «Poetry’s a very stupid thing to be good at. I mean, poems are basically like dreams, something that everybody likes to tell other people but nobody actually cares about when it’s not their own». È proprio perché la parola si spersonalizza (si sgancia cioè dalla biografia del parlante) che essa ci riguarda. In questo senso Lena Dunham opera in continuità con Allen. Per quest’ultimo cioè l’oggetto principale, la stoffa del suo cinema (dal punto di vista della scrittura) è non tanto come l’ebreo newyorkese Woody Allen parla, ma come è parlato. Nel lavoro di Lena Dunham ciò che attrae vertiginosamente e che sfiora, almeno per il sottoscritto, l’ipnosi sonora, è la capacità (come in Woody Allen) di additare i sintomi, gli errori, le sincopi di un linguaggio quotidiano dato per scontato. Il vero oggetto di Girls (e, sebbene in maniera più tenue, di Tiny Furniture) è questo “si” impersonale, non la parola alla prima persona singolare.

Tutto in Girls è parola. Il sesso, il cibo, l’amore, l’arte, la famiglia, il lavoro si ritrovano incessantemente verbalizzati. Hannah e il suo “fidanzato” Adam (Adam Driver) in una situazione di intimità non smettono di parlare, e il dialogo è ai limiti del surreale, sulla disposizione del corpo e l’uso di un certo lubrificante. O ancora, la preminenza della parola è flagrante nei due episodi che girano attorno alle malattie sessualmente trasmissibili (il secondo e il terzo – Vagina Panic e All Adventurous Women Do) al tempo stesso estremamente drammatici e irresistibilmente comici. Qui a essere epidemica è allora non tanto la malattia ma la parola stessa. Il male di cui si tratta senza sosta si propaga attraverso i luoghi comuni, le dicerie, i proverbi, le leggende metropolitane costruite attorno ad esso. Così quando sul finire di Vagina Panic Hannah se ne sta stesa sul lettino della ginecologa durante la visita e, in un flusso di coscienza suscitato dalla paura, afferma che si sentirebbe sollevata se le dicessero di aver contratto l’HIV, uno scontro di saperi si scatena necessariamente. Adirata, la ginecologa confuta, sulla base di dati solidi, le “idiozie” che Hannah sta blaterando per poi asserire: «you could not pay me enough to be 24 again». Hannah, lucidissima: «they’re not paying me at all». Si tratta di un conflitto generazionale, certo, ma esso è radicato nel linguaggio e nel sapere che sta alla base.

Si ripeta allora, Girls è un’epidemia della parola. Precisando questa idea, si può dire di osservare una parola esplosa, rifratta in più declinazioni, che comprende necessariamente anche i social network e la rete (nonché il telefonino, al centro di almeno un paio di architetture narrative – l’esilarante festa a Bushwick; la foto osé che causa la rimessa in questione della relazione di Hannah con Adam). Per una volta la ricorrenza di questi oggetti non ha nulla di goffo né maldestro. C’è una naturalezza quasi classica che pare infatti contraddistinguere Girls e che consente di includere con disinvoltura al suo interno tutto l’armamentario tecnologico contemporaneo. Vale a dire, è proprio perché la messa in scena e la regia sono estremamente controllate (evitando, per maturità o restrizioni produttive, gli svolazzi più marcatamente arty – e non sempre riusciti – del suo lungometraggio) che l’intero mondo di Girls può apparire coerentemente articolato. Così pare che, più che guardare a Woody Allen o al cinema indipendente americano dei suoi coetanei (che conosce a menadito, se ci si attiene alle osservazioni rilasciate in numerose interviste), Dunham concepisca la relazione fra dialogo e immagine in maniera quasi hawksiana, andando all’essenziale, puntando sulla relazione attoriale.

Del resto, e il titolo della serie è emblematico in questo senso, è proprio sui personaggi che la serie pare investire tutto. L’organizzazione tetrarchica riprende e prolunga evidentemente Sex and the City (e la transizione è annunciata apertamente da una presenza scenografica – il poster – nel pilota di Girls) ma ne complica la struttura, non solo attraverso l’introduzione di personaggi maschili più complessi e tutto sommato più influenti (basti pensare al Ray interpretato da Alex Karpovsky), ma osservando oltre la psicologia dei personaggi la loro stessa superficie verbale. Per Lena Dunham le sue Girls possono sì essere un vettore di empatia, ma mediate da un repertorio di luoghi comuni sapientemente dosato. Lo spettatore è dunque invitato a considerare unitamente al “tipo” psicologico di ciascuno di questi pannelli femminili (che si completano a vicenda) il suo darsi come fatto di linguaggio. C’è dietro a Hannah, Marnie (Allison Williams), Jessa (Jemima Kirke) e Shoshanna (Zosia Mamet), un sapere, uno stare al mondo che si esprime tanto nella componente sensuale della parola quanto nell’organizzazione sintattica, nel vocabolario quotidiano. Chi si è scagliato contro la serie sputando la parola “hipster” non ha forse, nell’ottusità della critica, sottovalutato uno dei suoi luoghi cruciali. Che cos’è infatti un hipster? Nel suo esordio letterario (Junky, 1953) William Burroughs aveva aggiunto in appendice un sintetico glossario dei termini utilizzati. Qui si può leggere alla voce “hip”: «the expression is not subject to definition because, if you don’t “dig” what it means, no one can ever tell you». Ecco, per Lena Dunham la questione in gioco pare essere la stessa. Più che essere hipster, Girls è un repertorio, quasi un dizionario o piuttosto una collezione di tutto ciò che circonda la parola. La sua funzione critica (ed ecco ritornare un’emanazione della “crisi” che ritrovavamo sopra) risiede nel presentare questo linguaggio e dargli un’avventura narrativa come pretesto. Per questo Girls è a mio avviso al tempo stesso un piacere e un esercizio critico: la serie addita precisamente quello che nessuno, seguendo la definizione di Burroughs, ci può spiegare. Qualcuno ci può però fare un romanzo, o una serie televisiva.

Ripenso, infine, al titolo della serie, semplicissimo e affascinante. Al cinema ci sono state le Dames (1934) di Busby Berkeley, le donne di Cukor (The Women,1939) e certo anche, sempre sue, Les Girls (1957) – ma questa è forse un’altra storia. Mi accorgo inoltre di aver scritto essenzialmente sul dialogo, sulla scrittura, insomma, e di aver trascurato le immagini. Certo più di una frattura si è prodotta, mi dico, da quando Busby Berkeley trovava nel puro godimento scopico il fulcro del film e poteva far cantare a Dick Powell «What do you go for? Go see a show for? Let’s tell the truth: you go to see those beautiful dames!»(c’è chi tuttavia al cinema ha cercato recentemente di dissimulare, con esiti interessanti, questo iato, come Whit Stillman in Damsels in Distress, 2011). Ora, non vado a vedere Girls certo per gli stessi motivi. Dopo una breve pausa di riflessione, sorrido tra me e me e mi accorgo che anche questa è una semplificazione. In fondo, per chi ricerca tale tipo di godimento qualcosa si trova anche qui. Per quanto mi riguarda almeno – e mi sembra lecito chiudere così, in modo apertamente personale come questo esperimento di scrittura – una ragione di questo tipo c’è. Il suo nome è Jemima Kirke: semplicemente splendida.

La seconda serie di Girls è trasmessa su HBO a partire dal 13 gennaio.

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