Camera straniera

camera-straniera di Fabrizio Scrivano

Marco Belpoliti, Camera straniera. Alberto Giacometti e lo spazio, Milano, Johan&Levi, 2012.

C’è chi sostiene che un incontro non sia mai casuale. Per conto mio ritengo che il caso sia ricco di ottime ragioni possibili, basta non stare troppo a sottilizzare tra causa ed effetto, passato e futuro. Questo però è un caso meno generale e con qualche valore di restituzione.

Tra il 1997 e il 1999, lavorando a una ricerca sull’attualità della scultura, o delle arti tridimensionali, avevo frequentato opere di e su Alberto Giacometti. C’era un motivo specifico per questo interesse: era incontestabile che fosse il più aptico – cioè otticamente tattile, secondo la definizione di Alois Riegl e di Gustav Schmarsow – degli scultori del Novecento. Gli occhi si aggrappano ai suoi oggetti, con tutta quella superficie abrasiva, che inoltre non sembrano mai stare fermi, forse perché indefiniti rispetto a un qualche contesto, quello che sia.

Non avevo in mente nulla di questa questione quando sono entrato, subito dopo il colloquio con uno dei professori di mio figlio al Liceo Virgilio di Roma, nella libreria d’arte & caffetteria Let’sArt in via del Pellegrino 132. Il luogo è piccolo e i libri molti, il caffè buono e qualcosa s’impara sempre. Con appena un po’ di sconto sul prezzo di copertina, su un piano, c’era questo librino azzurrino di Belpoliti su Giacometti, che sembrava un richiamo dal passato appena menzionato: irresistibile. La cosa che ho notato quasi subito è che il testo era stampato per la terza volta, a partire dal 1991, poi nel 1996, e io non l’avevo mai incrociato: ecco un’occasione riparatrice.

Non conoscere l’esistenza di questo testo mi aveva preclusa, o più semplicemente trovarlo mi ha permesso di guadagnare la consapevolezza che scrivere di Giacometti è un genere letterario, che appartiene al discorso della critica d’arte solo in parte, o addirittura non gli appartiene. Non mi riferisco tanto al fatto che le parole dei poeti e degli scrittori e dei filosofi dedicate agli artisti, meglio se morti, abbiano potuto in tanti casi dare degli accessi imprevisti alla percezione delle opere: queste operazioni, che pure su Giacometti non mancano, hanno a che fare con l’encomiastica. La narrazione giacomettistica ha un’altra qualità e un’altra funzione: appartiene a quel genere di narrazione che permette di riuscire a raccontare l’esperienza di un altro attraverso il racconto della propria esperienza. Che la giacomettistica abbia fatto genere nel genere si deve all’eccellenza del suo precursore, Jean Genet, che nel 1958 ha impostato alcune caratteristiche: brevità, forte richiamo all’esperienza diretta, concentrazione su un tema o figura da sviluppare, ripresa dei tratti cruciali degli atteggiamenti artistici e personali; l’utilizzazione del materiale d’archivio, soprattutto testi di o su Giacometti, si è aggiunto successivamente.

giacomettipometCamera straniera risponde ottimamente a questa prassi. Il suo tema privilegiato è la morte, luogo/tempo invisibile per eccellenza, destinazione di altri miti (narrati e figurati) che i soggetti di Giacometti incarnano (dire ingessano farebbe tutt’altro effetto). Belpoliti ne attraversa alcuni, facendo riferimento a opere precise davanti alle quali sosta e fa sostare il lettore: non “in assorta meditazione” bensì con grande intensità espressiva. Ho detto sujets ma intendevo figure, perché Giacometti non rappresenta oggetti e spazi che rispondano a qualche criterio di verificabilità empirica; quanto piuttosto produce immagini appena allusive al mondo che siamo in grado di rappresentare. Nelle sue figure scorgiamo cose ben riconoscibili: la mela, la testa, la donna, l’uomo, il cane, la casa; ma lo spazio in cui stanno è straniante, forse appunto straniero come lo dice Belpoliti; in altre parole lo spazio delle figure di Giacometti è irriconoscibile. I corpi filiformi e altissimi, o allungati orizzontalmente se di quadrupedi, i loro gesti infiniti – camminare, sostare, posare, urlare – sembrano alludere a uno spazio immateriale, letteralmente non incontrabile (se non nelle opere di Giacometti). Il passaggio di queste forme dentro il mare del Surrealismo è ancora e sempre molto evidente, ma di passaggio appunto si tratta e ora quelle immagini in lotta con la banalità del reale – supponiamo di non sapere ancora sia apparenza o cosa – si sono asciugate, seccate, divenute infine profondamente simili a se stesse. Se il demone di Giacometti fu lo spazio, come sostiene giustamente Belpoliti, la ricerca di assoluto, di spazio assoluto, sta forse nell’abolire otticamente il rapporto tra figura e sfondo, una relazione necessaria, in genere, alla produzione di contesto. Le figure non sono in rapporto a qualcosa che si vede (e che condividerebbe il medesimo spazio) ma a qualcosa che da esse è espulso, cancellato, abolito, neutralizzato. Come in altri scultori, per esempio Constantin Brâncuși, la statua tende ad mostrarsi come un oggetto irrelato (da lì a qualche anno Donald Judd avrebbe parlato di specific object) e non come un corredo ambientale.

Questo sfinimento dello spazio degli oggetti, nella poetica di Giacometti, come mostrano tutti i suoi scritti sempre puntualmente richiamati, è bisogno di realtà, mai trovata nell’apparenza ma sempre palesata in quel che resta dopo la manipolazione, portata sempre al limite della scomparsa. Cogliendo con nitidezza questo spostarsi dell’occhio-mano verso l’annullamento della figura, Belpoliti lo attribuisce a una continua tensione verso la morte: è il motivo per cui queste pagine si costruiscono completamente sull’intreccio tra lo spazio e la non esperienza che è la morte.

Giacometti skulptur. Gia_091007 012. Foto: Finn Brøndum/LouisianaUn secondo elemento di fedeltà a quel genere che si diceva, sta nel fatto che l’analisi delle opere di Giacometti restituiscono vivamente l’esperienza dell’osservatore e del ricercatore, concentrata sulle opere come sul “brusio” vastissimo che le circonda; e rispettando l’assunto tematico del suo racconto si spinge e ci porta effettivamente in visita lì dove ci sono le soglie materiali di quello spazio in bilico tra la vita e la morte, che è la tomba di Giacometti nel cimitero di Stampa. In questo modo, va notato, Belpoliti inserisce una variante significativa nel genere, che è più legato alla visita al laboratorio dell’artista.

Tra i vari libri di giacomettistica, per esempio, va ricordato quello assai raffinato di Tahar Ben Jelloun, La via di uno soltanto, anch’esso del 1991, e che nella bella edizione italiana (Milano, Libri Scheiwiller, 2009) si arricchiva di un testo del 2006, Visita fantasma all’atelier di Giacometti, postumo tentativo di conquistare un’impossibile fisicità e prossimità. Il racconto di Ben Jelloun si concentrava invece sul tema della solitudine. Iniziava incrociando due immagini, cioè le immagini di due diverse persone: quella della statua Uomo che cammina con una propria immagine di gioventù, la via stretta di Fez (ma così stretta da non concedere che il passaggio di una persona per volta, purché magra). Il riconoscimento di un’immagine interiore in un’immagine esteriore, gli permetteva non solo di giustificare l’incontro e la sintonia tra due anime, forniva anche un’altra figura su cui continuare la narrazione. Giocando sulla relazione dentro/fuori, ora non più spazi antitetici bensì luoghi di continuità, faceva emergere l’immagine del deserto, che caratterizzato come uno spazio indefinito nei margini ed equivoco rispetto alla direzione da prendere per attraversarlo, si offriva molto bene a illustrare questa marcia infinita dell’Uomo di Giacometti, che era in grado di attraversare integro ogni pellicola, ogni involucro, ogni pelle, ogni corazza del suo corpo (del corpo dell’artista), tuttavia mostrandone la desertica, tragica solitudine.

Il bello di queste narrazioni, che insieme utilizzano e offrono argomenti non estranei alla critica d’arte, sta nel saper proporre un approccio caldo all’esperienza artistica. E se il rischio è quello di sovrapporsi all’opera e ancor più agli artisti, è un rischio che vale la pena di correre.

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1 commento

  1. A proposito di occorrenze autobiografiche minime – ma senza vezzi però -, e di aderenze o glosse da lettore e ascoltatore – che accompagnano quelle virtualmente ‘tattili’ in cui ogni spettatore delle sculture, ma anche dei disegni e delle tele, di giacometti è suo malgrado impegnato, mi fa piacere aggiungere una piccola nota a margine all’esercizio di stile (critico) dell’amico fabrizio scrivano. quest’estate, il 15 luglio, c’era un appuntamento che poi, après-coup è il caso di dire, sarebbe diventato un quasi-anniversario, giusto giusto un pò in ritardo e dimesso rispetto a quello, ben più vistoso e festeggiato, della presa della Bastille. invitato e accompagnato dall’amico jean-françois courtois – poeta e critico, di letteratura e di teatro, ed esperto del secolo dei lumi come si diceva una volta -, ho la fortuna di andare alla libreria Tschann, sede di ritrovo e minera dei frequentqtori dell’EHESS, un pò più in là. si presentava il numero 998-999, fresco fresco di stampa, di EUROPE, celebre rivista letteraria trimestrale, consacrato a uno che nella ‘giacomettiana’ c’entra con una medaglia d’onore: jacques dupin.
    l’amicizia del poeta e critico, dipartito a fine ottobre, con giacometti – e mirò -, è durata tutta una vita, dai tempi delle gallerie parigine maeght e lelong, dell’avventura di una rivista d’eccezione come L’Éphémère – dove scrittura critica e letteraria s’intrecciano come edera grazie alle penne di gaétan picon, louis-rené des forêts, yves bonnefoy e andré du bouchet -, fino, giusto per segnarne qualcuno dei tanti interventi, alle pagine con michel leiris negli Ecrits di gacometti, e alla pubblicazione di una una raccolta di scritti per l’editore marsigliese andré dimanche, sotto il titolo eloquente Eclats d’un portrait, nel 2007. il numero di EUROPE è curato da jean-claudde mathieu, ed è ricco di studi e testimonianze, non solo francesi (tra cui una lettura di jean bollack, ellenista, filologo-filosofo recentemente scomparso, cui si devono anche pagine inaggirabili su paul celan); ci sono infatti bigongiari e auster, e alcune pagine sono davvero partecipate e spericolate, felici insomma – christian cavaillé apre una partita doppia colonna tra dupin e wittgenstein… -, e divagano, severe e precise però, tra poeti, pensatori, artisti, tra cui, appunto, giacometti. ma non è questo quello che volevo dire, non è l’occasione di una recensione in pillole – è un un ricordo, che è riapparso dopo la nota di lettura di fabrizio sul volumetto di belpoliti. ancora sento l’emozione che provai nel ascoltare la voce di dupin, roca, quasi feroce, mentre leggeva versi su giacometti e la ‘realité impossible’, la ‘nudité [qui] nous blesse’ delle sue figure che resistono nello spazio.

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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