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“Gli italiani sono bianchi?”

balotelli

di Tatiana Petrovich Njegosh

Soltanto ci si confonde con chi ci assomiglia, da ciò la necessità di mantenere netta separazione fra le due razze bianca e nera.(Alessandro Lessona a Rodolfo Graziani, 5 agosto 1936)

Il razzismo fascista segna una svolta cruciale, sia per l’affermazione di un razzismo di stato, sia per la costruzione della ‘bianchezza’ e ‘arianità’ dell’uomo “nuovo” italiano, prima con il divieto della mescolanza razziale nelle colonie (il Regio decreto del 1937) e poi, dal 1938, con le leggi antisemite in Italia. Gli studi dedicati all’antisemitismo, all’antiebraismo e alle leggi razziali antisemite in Italia sono stati numerosi, e ai fenomeni di antisemitismo ancora ampiamente diffusi corrispondono, in una certa misura, rituali pubblici (come la Giornata della memoria, il 27 gennaio), nonché una opinione pubblica discretamente informata e reattiva. Nonostante i molti recenti studi sul colonialismo italiano, invece, poco è stato fatto per capire i rapporti tra antisemitismo e razzismo coloniale, nonché, più in generale, per illuminare i nessi tra la categoria di razza e quella di identità nazionale dall’Unità a oggi.

[…] il Regio decreto del 1937 è un esempio italiano di razzismo istituzionalizzato, la cui pressoché totale rimozione, nonché il mancato collegamento con le norme sul meticciato del colonialismo liberale e soprattutto con le successive leggi razziali del 1938-39 ne oscurano l’importanza e il significato. Nonostante la ‘brevità’ della sua storia coloniale e la ristrettezza del suo impero, l’Italia detiene il “triste primato” di “numerosi” “crimini di guerra”, e rappresenta inoltre un vero e proprio “caso” perché con le leggi del 1937 “la colonia anticipa la madrepatria” rispetto alla legislazione antisemita successiva, creando “sostegno di massa ad un progetto razzista, reazionario e totalitario” (Labanca 422, 420). La società coloniale italiana era di fatto una società segregata, ma la legislazione razzista introdotta nelle colonie nel 1937 segna un cambiamento, un’incongruenza. Come ribadito da Nicoletta Poidimani, le politiche razziali e sessuali del regime sono state sperimentate nelle colonie e poi attuate nell’Italia fascista a sostegno del progetto di costruzione di una nuova identità imperiale italiana. Quello che quindi sembra un’incongruenza, un impiego di risorse normative del diritto privato a ‘tutela’ di un esiguo numero di cittadini italiani in Africa, forma in realtà, come ha sostenuto e dimostrato Barbara Sòrgoni, il “cuore” del dibattito del colonialismo europeo, della schiavitù e della segregazione statunitensi. Il “cuore” del problema, con il carico di “desiderio e repressione”, è quello della “sessualità interrazziale”.

Il tema scottante della sessualità interrazziale è un problema cruciale, non certo di mero ordine pubblico o morale, ma identitario, ideologico e politico, come si ricava dalle direttive, precedenti al Regio Decreto, del ministro dell’Africa Italiana Lessona al viceré Graziani citate in epigrafe. A colpire non è la certezza della differenza, ma la paura della somiglianza e della confusione tra ‘bianchi’ italiani e ‘neri’ africani. La linea che separa le identità dei due gruppi e definisce i confini dell’identità italiana  è documentata, o meglio percepita, come frontiera permeabile e incerta. A partire dall’Unificazione, poi nei primi esperimenti coloniali, rappresentati come occasione per riscattare l’immagine negativa dell’identità italiana e provarne la bontà razziale, nella svolta impressa dal Fascismo (che smentirà con forza l’ipotesi di un’origine camitica, africana, degli italiani, Cassata 228), nel dopoguerra, e ancora oggi, l’identità italiana si forma e si definisce anche attraverso la categoria di razza. Se, per esempio, nell’opinione di alcuni osservatori contemporanei la sconfitta di Adua (1896) rivela la debolezza razziale italiana, la guerra di Libia (1911-12) offre viceversa un’occasione per mostrare la bontà e la ‘bianchezza’ degli italiani.

Il colonialismo – e ciò che sostengo credo serva ad aggiungere un motivo alle cause della sua rimozione dalla memoria pubblica – fornisce, in altre parole, uno spazio simbolico e un luogo concreto per provare la ‘bianchezza’ degli italiani, ma allo stesso tempo rappresenta una zona liminale e rischiosa, un terreno incerto dove lo status razziale indefinito degli italiani può rivelarsi ‘nero’ (con le sconfitte militari, nonché con i rapporti sessuali tra italiani e africani), o comunque non ‘bianco’. La questione dei rapporti sessuali tra italiani e africani porta infatti con sé quello che il ministro delle Colonia Emilio De Bono definisce, nel 1933, il problema “gravissimo” dei meticci (cit. in De Napoli 4), il possibile inquinamento di una razza incerta su cui grava l’ombra dell’origine africana. La teoria dell’origine camitica degli italiani, già diffusa prima che Sergi la riproponesse nel 1895, assurge a grande fama perché ripresa e ‘tradotta’ negli Stati Uniti agli inizi del Novecento. L’africanizzazione degli immigrati provenienti dal Sud Italia, e poi di tutti gli italiani, avviene sulla base dell’ipotesi sergiana della presenza di sangue africano in alcune comunità insulari italiane. Quell’ipotesi – che in Italia ebbe poca fortuna, fu duramente contestata e non sfociò nell’istituzione di uno stato razziale – incrementa il suo ‘valore’ e muta i suoi significati negli Stati Uniti, dove viene interpretata secondo la one drop rule nata durante la schiavitù. Il sangue africano dei discendenti dei camiti (per Sergi gli italiani e tutti gli europei) viene ‘tradotto’ nella goccia di sangue nero che dopo la sentenza della Corte Suprema del 1896 istituisce una rigida separazione tra ‘bianchi’ e ‘neri’.

Molto si è parlato, negli ultimi decenni, di convergenze atlantiche (di solito in contesto politico-diplomatico o letterario), e certo il 1896 e il 1911 sono date che tracciano nuove linee nei contatti circumatlantici tra Italia, Africa e Stati Uniti. Il 1896, l’anno della sconfitta di Adua, è l’anno di Plesssy vs Ferguson, la sentenza con cui la Corte suprema americana elimina la classificazione razziale precedente, altrettanto razzista ma più sfumata (mulatto; quadroon, quarto di sangue nero; octoroon, ottavo di sangue nero). Il 1911 è l’anno in cui inizia la ‘conquista’ della Libia e l’anno in cui viene pubblicato il Dictionary of Races or People a cura della US Immigration Commission istituita nel 1907 da Theodore Roosevelt, dove gli italiani, via Sergi e Niceforo, e grazia alla propaganda razzista diffusa a livello internazionale a partire da quel documento, esordiscono nella categoria delle ‘razze scure’ (cfr. D’Agostino).

[…]

In occasione della partita di calcio Juventus-Inter giocata allo stadio Olimpico di Torino il 18 aprile 2009, una parte della tifoseria juventina ha rivolto all’indirizzo dell’allora giocatore dell’Inter Mario Balotelli lo slogan “Non esistono negri italiani”. Lo slogan, poi destinato a sparire nel calderone del problema squisitamente settoriale del “razzismo nel calcio”, o peggio, ad essere archiviato con la sostanziale motivazione che è Balotelli, con il suo comportamento ‘eterodosso’ in campo e fuori, a calamitare le reazioni dei tifosi, ha segnato uno scarto e un ritorno che pochi hanno colto. L’impatto di quello slogan risultava potenziato, per me come per altri colleghi americanisti, da una doppia eco. Quelle parole da un lato ricordavano le parole di Du Bois sull’impossibilità, negli Stati Uniti moderni e democratici, di essere americani e neri. Dall’altro lato, quelle parole violente, che parafrasando Faso, “escludono”, riportavano nel presente la “difesa” dell’instabile “razza italiana”, confermando l’intreccio tra la costruzione dell’identità nazionale e le dinamiche di razzializzazione, tra africanizzazione dell’altro e sbiancamento di sé.

Uno dei limiti più forti degli studi sul razzismo oggi consiste nella premessa generale che il razzismo sia un’eccezione, che si manifesti e sia visibile solo nella sua fenomenologia violenta, e infine che dipenda dall’ignoranza. Se l’ignoranza e la rimozione sono certo ingredienti decisivi del problema, non bisogna dimenticare le fiere e ‘dotte’ rivendicazioni – vedi le centinaia di pagine in rete, in italiano, dedicate a topic sulla purezza razziale, sull’ ‘obbrobrio’ della mescolanza razziale, sui rischi di ‘estinzione’, sul fenotipo e il genotipo, o anche le pubbliche celebrazioni, su testate non certo secondarie della stampa nazionale, della legittimità e correttezza del termine ‘negro’.

[…] Lo slogan segna uno scarto rispetto agli slogan razzisti rivolti a giocatori stranieri dalla pelle scura, o africani dalla pelle scura, proprio perché mette in relazione l’identità italiana con la negazione della ‘blackness’ e con una indiretta affermazione di ‘bianchezza’. È uno slogan tutt’altro che ‘idiota’, confuso o generico, anzitutto perché quelle parole spostano l’attenzione dal livello fenomenologico a quello linguistico, rappresentativo e identitario. E poi perché segnano un ritorno, una ‘traduzione’, danno veste simbolica odierna alle dinamiche complesse, relazionali e razzializzanti che costruiscono, nel passato come nel presente, l’identità italiana. L’insulto a Balotelli non costituisce insomma un unicum, ma è una versione contemporanea di una narrazione più antica che non riconosciamo nella sua storicità grazie al mito dell’innocenza razziale degli italiani e per il vizio di relegare nel presente, nel nuovo, nella società globale e multiculturale, lo strano fenomeno dei neri italiani. […]

 

*

 

Estratti da Tatiana Petrovich Njegosh, “Gli italiani sono bianchi? Per una storia culturale della linea del colore in Italia”, in Parlare di razza. La lingua del colore tra Italia e Stati Uniti. A cura di T. P. Njegosh e A. Scacchi, Ombrecorte, Verona, 2012, pp. 20-22, 36-38.

 

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6 Commenti

  1. Grazie per aver condiviso questo testo. Mi ha interessato molto e ho imparato punti della storia italiana che non conoscevo!

  2. E’ sicuramente uno dei saggi recenti più chiari, lucidi e rilevanti dentro e auspicabilmente anche fuori dall’accademia. Grazie per averne rilanciato brani molto significativi.

    • se un miliardario italiano, casualmente fratello di un ex premier in rampante campagna elettorale, dice, riferendosi al calciatore Balotelli, “ci siamo comprati il negretto di famiglia”, temo che il problema vada posto proprio in questi termini

  3. .. anche dopo il Medio Evo una persona di rango poteva spogliarsi di fronte ad altri con una certa noncuranza, e con altrettanta noncuranza, esercitare in pubblico le funzioni corporali …

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Renata Morresi scrive poesia e saggistica, e traduce. In poesia ha pubblicato le raccolte Terzo paesaggio (Aragno, 2019), Bagnanti (Perrone 2013), La signora W. (Camera verde 2013), Cuore comune (peQuod 2010); altri testi sono apparsi su antologie e riviste, anche in traduzione inglese, francese e spagnola. Nel 2014 ha vinto il premio Marazza per la prima traduzione italiana di Rachel Blau DuPlessis (Dieci bozze, Vydia 2012) e nel 2015 il premio del Ministero dei Beni Culturali per la traduzione di poeti americani moderni e post-moderni. Cura la collana di poesia “Lacustrine” per Arcipelago Itaca Edizioni. E' ricercatrice di letteratura anglo-americana all'università di Padova.
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