Da Trilogia dello zero (parte seconda) – Poesie inedite di Antonio Bux *

2.

 

 

“C’è nell’aria una specie di contorno 
mai pronto a superare il paesaggio
piuttosto passaggio stretto dove si filtra 
un dolore dentro, che fatica a respirare.
In questo, perdono le cose la trasparenza
il loro tacere l’ombra nell’abbandono
al dono del colore sbiadendo per inerzia
quando l’oggetto si assomiglia troppo al luogo
e dove tutto ha un peso per eccessiva mancanza
se lo si bilancia cadendo, nel rovescio della materia”

 

 

 

 

Di cosa possiedi l’anima se manca 
fiato in mezzo al tempo o parola a metà
tra respiro e spegnimento, ordine di smettere
di cosa dunque temi il sovvertire, se già è girato
un vento contro il mondo, se già ti carica la gola 
di rimpianto e di spavento al tocco la memoria
e sola senza canto una morte si propaga su nell’aria
e tu ricadi nel profondo senza stacco ma con mite transitoria 
stanchezza d’animo spegni sul fondo, ti tiri via da ogni mutamento?

 

 

 

 

6.

 

 

“Nella rarità del fuoco si arrampica
una specie di luce che non brucia
la variante del calore disanimando
la pietra di mezzo messa a dividere
la vegetazione dello sguardo caduto
indietro la terra per farla incastrare
come una pellicola interna, una colla
a tenere accesa la retina al contorno
quando brucia la visione solo per unire
l’aderenza dell’occhio all’aria del mondo”

 

 

 

 

Ho scoperto di avere
una lucciola nel ricordo.
La riesco a vedere 
solo di notte, quando
tutto è senza memoria.
E invece la lucciola cresce
tra le tenebre a intermittenza
mi mostra una parte di me 
quella meno densa. Ma poi 
la lucciola muore presto 
si fa pensiero, prima dell’alba
quando è futura la certezza
e di ogni cosa si osserva la fine
dell’ombra, la metà ricoperta. 

 

 

 

 

14.

 

 

“Un inventario di parole
crea lo strato di fondo
il magazzino della pagina
-uno spazio di casi e cose-
letto d’immagini, bivio di luoghi
bianca nomenclatura del pensiero”
 

 

 

 

Lo spavento misero, insaziabile della parola
vuoto che non sa dell’aria il misticismo lento
ché il detto cova in sé per sua natura il male
come un’ombra che taglia l’aria di un’innaturale 
mancanza: e che son resti le spoglie del comune
disapprendere il perdono, la clemenza della vista
che protrae a derivare quel che non si può tenere;
di più di questo dentro il cielo come un dire niente
ancora a misurare scherno o voto o nera assenza
terra che non squarcia, ma che cresce in superficie
da ogni lato la sventura tutta amata, tutta in fuori
di silenzio aperto in bocca, mantiene tutto a galla
e poi calma rientra dentro, si sottrae agli avvoltoi
fino all’osso della forma, si tradisce, si fa gabbia.

 

 

 

 

15.

 

 
“I miracoli avvengono
se non li vedi”

 

 

 

 

Si vive divisi in due
– prima e dopo la vita
sempre è un altro che vive –
quando invece a morire
è un doppio che precede
come se morisse due volte
prima la vita e poi la morte
con l’essere nel mezzo
un doppio che si dimezza
come mai nato, a metà 
come se fosse il doppio
solo la sua morte.

 

 

 

 

20.

 

 

“Per solo sguardo non vede
la sua forma bensì la svista
l’immagine dove muta l’occhio
ogni paesaggio in una voragine”
 

 

 

 

Dell’occhio come un fungo.
Si sparge l’orizzonte quasi a muffa
– un nucleo di batteri nella vista-
dove è macchia la pupilla quando
più si osserva e più si accorcia
il gambo, la parte incarnata della retina.
Di più fa il guardato: si nasconde nella selva
– cresce a spora dilatando – parte dal veleno 
un’umida infestazione; si riempie d’escrescenze
fino a scomparire: nidifica nell’oggetto-tossina
l’indigestione dell’immagine, la metà incontaminata
– come un disturbo oculare – spurga nella visione.

 

 

 

 

38.

 

 

“Dopodiché sarà anche essere, utilità nominale
processo di cosa, che chi è luogo nel marginale
poi da solo tende a scomparire, e rimane chiusa
quell’applicazione diventare (praticamente a iosa
l’orizzonte tende trappole future, ci gioca a morte);
insomma d’immagine si dirotta, si fa rottame nero
come a intermittenza sbotta: si dilata per accumulare
spazio su spazio, lontano da dove, altrove dal vero”

 

 

 

 

Maledizione, proprio quella che muove
sotto la camicia a quadri. Non pizzica tutti
ed è un’esclusiva per pochi, avercela dentro.
Se la lavi, non ti riesce di sbiancarla, rimane nera.
Pronta ad una prossima centrifuga, anzi, si tiene tesa
cammina pari alle ossa, s’imprigiona al passo della cute.
Maledizione è dunque non saperla misurare appena
ma portarla comunque stretta, tra le cosce in disordine. 
Di fronte come una falsa riga, si mostra a intermittenza.
Ancora e per sempre, più di una volta, per retrocedere.
E allora si resta nel turbine, vestiti di sola freschezza, 
ci si ammala del grigio, una percezione troppo sottile
per far impallidire il futuro. Perciò maledizione è comprare 
un abito vecchio, e progredire nella polvere, fare l’acaro
rosicchiando la morte, ché per nascere bisogna rinchiudersi
stiparsi presto tra le cose, e fiorire d’inverno, tra neve di niente
sbucando tra le stoffe più pregiate, come un capo dimenticato.

 

 

 

 

 

(ipotesi finale)

 

 

 

“Per tutto questo -che non ripara- per ogni freno
che poi respinge ancor più dentro: ecco dove il niente
si proclama, ecco dove il sangue attraversa l’altra vena
in bilico tra le ossa frantumando ogni uscita (ché se si guarda
da dentro il corpo è spazio inalterabile, fino a un certo punto
degrada solo il tempo -poi agita le pinne interne, comincia il
suo collasso, conta indietro il movimento) perciò fa retromarcia:
quando la spinta non piega l’apparenza, ma anzi rafforza la forma
la curva a proseguire, parabola d’immagine (che se l’immagine è
la proiezione in divenire, allora cosa muove prima della sequenza
lo scatto imprevedibile, del materiale l’invisibile, l’oscura previsione?)
chissà la morale dell’ombra sia solo un alibi della luce che rimuove
spazio all’essere, spegnendo prima l’oggetto e poi la sospensione
dello sguardo l’eterno segmento, quando si guarda non per vedere
ma per disordinare, quando il paesaggio cresce solo per ostacolare
e non torna al suo immaginato, ma solo si fa scudo, disegno rivoltato”

 

______________

*
La prima parte di “Trilogia dello Zero” è edita da Marco Saya Edizioni, Milano, 2012

La trilogia dello zero è un’opera completa, uno zibaldone semantico sovraccarico di testi, richiami, echi, ma ben organizzato e strutturato, nel quale i termini di provvisorietà della traccia testuale e di consapevolezza dell’opera sono significativi. Concepita e definita direttamente dallo stesso autore come un’auto-antologia poetica, la “Trilogia dello zero” è abitata al suo interno da una densità e da un ritmo rari e contiene molti “mondi e modi possibili” della poesia, richiamando gli antecedenti delle antologie ormai storiche del Novecento che hanno fatto conoscere lo sviluppo della poesia e della critica e che sono state predilette dagli autori delle avanguardie storiche.Un’opera che omaggia molte scritture del novecento, reinventandosi cifre e formule e scommettendo sulle riscritture come traduzioni degli stili fin ora espressi e attualmente sperimentati dagli autori più giovani. Ma con una decisa originalità e una decantazione straniante della percezione del reale che rimette in discussione molte presunte conquiste della/e scrittura/e di ricerca. (dalla postfazione di Lidia Riviello)

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4 Commenti

  1. Grazie, Daniele
    per l’ospitalità.

    Queste poesie sono tutte tratte dalla prima silloge di questa seconda Trilogia,
    dal titolo “Scotomi”.

    Un caro saluto

    Antonio Bux

  2. Di nulla, Antonio.

    Adesso certi commentatori “coraggiosi” dei miei post li attendo qui.

  3. caro Antonio,grazie per avermi fatto conoscere i tuoi lavori! sono cose belle, rigorose e dure da pensare e scrivere, immagino. mi fa oltretutto piacere venire a scoprire che dietro un italia cialtrona e superficiale condannata a dimenticarsi e sparire e che, per questo adesso, fa tanto rumore e chiasso, c’è anche un mondo di poeti, scrittori che continua a lavorare perchè ha caro il mondo e il linguaggio e ne sente il peso e la responsabilità. bravo, un caro saluto, Giacomo.

  4. Caro Giacomo,

    ti ringrazio per le tue parole e per il commento, sai la stima reciproca e dunque mi fa molto piacere leggerti.
    Rigorose forse è il termine che più si abbina meglio al mio ultimo periodo di scritture.

    Io ne sento il peso sì, ho deciso di fare solo questo nella mia vita, a discapito della stessa, ma tra lavorare in un call center o in un supermercat otutta la vita e svegliarmi tra 10 anni depresso e pentito, preferisco continuare a leggere e a scrivere e a vivere alla giornata, con tutte le difficoltà che questa scelta comporta, ma spero di trovare una maniera di unire l’utile al dilettevole, ma a 30 anni si è a un bivio e io ho scelto questa strada, non posso permettermi inutili dispersioni di energie, non si possono fare troppe cose differenti alla volta, almeno, per me vale così. Certo, Luigi Di Ruscio potrebbe rappresentare il contrario di queste affermazioni, ma ognuno ha la propria vita. Come dicevo, ci provo, la mia passione è anche leggere e scoprire poeti nuovi, non parlavo solo della mia scrittura, quella è l’ultima cosa.

    Ti ringrazio ancora per le tue parole di incoraggiamento e stima, un caro abbraccio

    Antonio

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daniele ventre
daniele ventre
Daniele Ventre (Napoli, 19 maggio 1974) insegna lingue classiche nei licei ed è autore di una traduzione isometra dell'Iliade, pubblicata nel 2010 per i tipi della casa editrice Mesogea (Messina).
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