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Tra gnomi e troll

di Francesca Matteoni

 

nani delle caverne

A metà degli anni Ottanta io ero una bambina fervidamente innamorata della lettura e dei mondi che in lei si dischiudevano. Per la festa della Prima Comunione, in mezzo a noiosa paccottiglia d’oro, apparvero due libri, uno sulla storia delle civiltà antiche, l’altro di fiabe della buonanotte. Inutile dire che sono gli unici doni sopravvissuti e amati, oltre alla medaglietta proveniente da mia nonna. Li lessi quella primavera. Il libro di fiabe aveva illustrazioni piacevoli e ordinarie, di bambini, giocattoli, luoghi, folletti. Una in particolar modo, tuttavia, mi rimase impressa, per la malignità della creatura che vi era ritratta: un nano dal mento aguzzo, che richiudeva guardingo il passaggio di roccia nella montagna. All’interno della montagna i nani accumulavano tesori, per lo più rubati agli esseri umani, almeno così diceva la storia. L’unica luce che riverberava dentro le caverne era quella delle pietre preziose e delle monete. Nella quasi totale oscurità i nani si muovevano benissimo e potevano intrappolare per sempre il malcapitato visitatore umano che fosse giunto lì, spinto dal caso o dalla curiosità. Non erano creature raccomandabili e avevano tutt’altra indole rispetto agli unici nani magici che conoscevo, i sette dell’adattamento disneyano della fiaba di Biancaneve. Questo nano malevolo era un lontano parente degli esseri ctonii della mitologia germanica, abitatori di caverne, fabbri e custodi di tesori, e anche dei nani nella Terra di Mezzo tolkieniana, che forgiano metalli nelle profondità delle montagne, ma privo del loro orgoglio e dei tratti eroici. Molto più della storia, mi interessava l’inquietudine, seppure leggera, che derivava da quella figura grifagna, qualcosa che avrei ricercato anche in seguito, leggendo di abitanti delle foreste e delle rocce, cercandoli nelle illustrazioni.

nel labirinto

Quegli anni furono anche gli anni di alcuni film fantasy in cui la lotta tra il bene e il male si svolgeva proprio nello scontro tra diverse forze della natura: c’erano gnomi, ragazzi fauneschi e fate, contro folletti, streghe cannibali degli acquitrini e diavoli che dimorano nel buio, nel Legend di Ridley Scott; o le vicende di Willow di Howard, dove il ”salice” del titolo è il nome del protagonista, il Nelwyn (nano) coraggioso che proteggerà, a costo della sua stessa vita, la bambina destinata a sconfiggere il potere malefico della strega che tiene sotto di sé tutta la landa. A fargli da scudieri due folletti della foresta, non più alti di un palmo di mano. Ma certo il più indimenticabile per genio e creature è Labyrinth, il film di Jim Henson con David Bowie nella parte di Jareth, re dei Goblin, ovvero dei folletti maligni. La storia si richiama alla tradizione dei changeling, folletti mutaforma, che le fate sostituiscono ai bambini nella culla: il popolo fatato necessita infatti di bambini umani che sono più forti e resistenti e quindi capaci di portare nuovo sangue e nuovo vigore a questa stirpe crepuscolare.

labyrinth froud

 

 

 

 

 

 

Nel film il bambino, Toby, non viene scambiato, bensì rapito dai folletti di Jareth, quando Sarah, la sorella maggiore, dice le parole giuste perché essi vengano e si portino via il fratellino piagnucolone. Subito pentitasi la ragazza, (un’adolescente, poiché quella è un’età di passaggio in cui è più facile vedere le fate), si mette in viaggio per attraversare tutto il labirinto che la separa dal castello di Jareth, prima che lui faccia del bambino un perfetto goblin. Che cosa c’è di notevole oltre la storia? Per fare questo film Henson non solo scelse Bowie, l’alieno della musica internazionale, la cui stessa fisionomia ricorda l’alterità e il fascino di un elfo di cui diffidare, ma collaborò con tutta la famiglia Froud: Brian, Wendy e Toby. Brian ai disegni di fate, gnomi, folletti e altre creature strampalate, Wendy alla realizzazione dei molti pupazzi usati come goblin e Toby… nella parte di Toby. L’amicizia e la sintonia c’erano già. Qualche anno prima, insieme, avevano lavorato a una piccola perla, The Dark Crystal, fantasy con pupazzi animatronici e bambole-burattino, storia malinconica dove due creature simili a elfi, i Gelfling, devono riuscire a ricomporre il cristallo della verità, il cui danneggiamento ha provocato anche un’orribile frattura nei saggi suoi guardiani, dando vita a due specie diverse, una interamente malvagia che tiranneggia il mondo e l’altra perfettamente buona. Che il bene tuttavia non possa mai disgiungersi, ma solo riconoscersi come diverso dal male, lo dimostra il fatto che le due specie sono unite nella loro essenza vitale: se uno degli anziani Mistici soccombe, anche lo spregevole Skekis corrispondente deve morire.

dark crystal

 

 

 

 

 

 

Questa tensione drammatica viene meno in Labyrinth, nessuno penserebbe a Jareth come malvagio – solo capriccioso, volubile, tentatore e abituato ad avere ciò che vuole. Ma i suoi folletti e goblin grotteschi, il loro affollarsi nelle inquadrature, piccoli cialtroni sciocchi, molto meno svegli della ragazza umana che li affronta, sono memorabili: comici e inquietanti insieme. Così, del resto, sono anche alcuni dei personaggi del popolo fatato nei libri di Brian Froud. Folletti e nani della terra dai nasi lunghi o a forma di patata; ingrugniti leprecauni irlandesi che ruotano sulla punta del loro tricorno e se ne vanno in giro, finemente vestiti, fibbie d’argento alle scarpe e giacca con la coda, e soprattutto unici a poter vantare di svolgere un mestiere, (ciabattini che aggiustano una scarpa soltanto alla volta), in mezzo al Brownie scozzese, folletto domestico diligente quanto trasandato e al folletto senza bocca del mulino; o ai tanti folletti in frotte, Pixie della Cornovaglia che se indossano uno straccio di berretto è già tanto. E i troll del grande nord che si pietrificano sotto il sole, scarruffati, pelosi, con volti bruciati color delle cortecce; o gli assurdi Trow delle isole Shetland e Orcadi, tra la Scozia e la Norvegia, notturni troll in miniatura dalla camminata sghemba, che Froud rappresenta come esseri con tutti gli arti dislocati. E il suo Puck, bocca larghissima e occhi strizzati nel pensiero del prossimo dispetto; zampe caprine e piccole corna di diavolo, seduto su un tronco spezzato.

froud-puck

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Le creature di Froud ibridano elementi animali e naturali, si staccano dal bosco, dai sassi, dalle macchie muschiose tra i funghi, come l’anima visibile del paesaggio. La loro presenza è tanto significativa quanto la loro elusività. È come un monito ad accettare l’estraneità della natura di cui siamo parte: il suo pericolo, la sua arbitrarietà, la sua bruttezza come la sua bellezza, per poter dire infine che sì, è magica, piena di cose magiche da ammirare e da cui … tenersi alla larga, perchè insomma non si sa mai e nessuno vorrebbe che la sua testa finisse tra le gambe di qualche spirito caprino che ci giochi a calcio o nelle fauci di certi mostri lacustri e velocissimi nell’inseguimento, ma fortunatamente incapaci di attraversare rivoli liberi d’acqua, nei boschi. Tutto questo non esiste, già la sento, la voce della realtà dei fatti, o per essere più precisi, la voce delle cronache scambiate per realtà, dello spazio sociale che per un’amnesia tralascia ciò che brulica e si annida nel marginale. Ma invece all’immaginazione, che di realtà si nutre per vivere, i margini piacciono molto. Le piacciono quei rami tristi che si fanno braccia; le piacciono i motori inceppati per il capriccio di un demonio; le piace un cuore di volpe o di lepre selvatica, salvato dal dolore della tagliola, perché gli spiriti del mondo, dentro il mondo, a volte provvedono e appaiono come vecchi decrepiti oppure fanciulli con bretelle e stivali, e muovono orecchie di coniglio o zampe maculate di ranocchio. Voi lo sapete, sì, cos’è l’umano. Sussurra, schernendoci, l’immaginazione. E cadiamo nell’occhio che grazie a lei vede sempre qualcosa d’altro, cambia le fisionomie in momenti epifanici, disegna, dipinge.

Tuvstarr

Viaggio indietro, verso anni in cui non c’ero e luoghi che non ho abitato, se non nelle immagini e nelle parole. Nel 1907, in Svezia, nasce la rivista, Bland tomtar och troll, ”tra gnomi e troll”, che ospita fiabe e storie folkloriche con belle illustrazioni, pubblicata da allora in poi ogni Natale. Proprio nei primi otto numeri appare il lavoro di John Bauer, la cui influenza è evidente nei lavori di Froud. In quegli anni il suo nome nella storia dell’illustrazione era in buona compagnia: le fiabe e il fantastico avevano interpreti come Arthur Rackham, Kay Nielsen, Edmund Dulac. Ma se devo scegliere, scelgo lui, l’artista dell’illustrazione suo malgrado, poiché aspirava infatti a essere riconosciuto come un pittore ”serio”, quando una morte prematura colse lui, la moglie e il figlio in un naufragio sul lago Vättern. Nelle sue illustrazioni di folletti nordici, che in tutto assomigliano a bambini e a benevoli vecchi barbuti in miniatura, o di pesanti troll dall’aria confusa, non è quasi mai pieno giorno. Grandi cieli stellati sulle foreste fitte di betulle e conifere ossute, acque lucenti eppure nere, che si percepiscono fredde e a loro volta popolate di incredibili creature. Se andiamo nella natura di John Bauer ci dobbiamo abituare all’oscurità, che pullula di occhi e gorgoglia e borbotta da ogni spaccatura nella roccia. Andiamo, perché il loro bagliore tenue ci attrae. Perché ci sono le ombre della luna e risate di strani bambini alti un pollice e goffi giganti bonari che mescolano zuppe di bacche. Eppure qualcosa ci avverte: fate attenzione! Sono gli alberi? Sono i grandi e piccoli animali che abitano i boschi come i loro corpi?

john bauer troll e nisse

 

 

 

 

 

 

 

 

Una fiaba, la più bella e quella per cui è più famoso, è particolarmente emblematica di questa commistione tra natura e anima dei personaggi, tra desiderio e smarrimento.

È la storia di un alce maschio, Skutt, e la piccola principessa Tuvstarr, scritta da Helge Kjellin e apparsa sulla rivista nel 1913. Nella versione inglese che ho potuto leggere io, Tuvstarr è tradotto con Cottongrass, erba-cotone, ovvero l’erioforo, la pianta di piumini bianchi, che si cresce sui bordi di acque lacustri montani o presso gli acquitrini. Tuvstarr è esile, diafana, con lunghi capelli biondi. Vive nel Castello del Sogno. Qui viene a trovarla l’alce Skutt, forte e leale spirito nobile della foresta, con cui la bambina stringe una singolare amicizia, un amore oltre la specie. Tuvstarr vuole esplorare i boschi, ma i boschi sono pieni di insidie e luccichii traditori nel loro buio. Dal sogno della prima dimora, al desiderio degli spazi inesplorati il passo è breve: uno scalpiccio di zoccoli selvaggi. L’alce raccomanda alla principessa di non lasciare per alcun motivo le sue corna e tutto andrà bene. L’alce non ha un cuore volubile, dove si affollano passioni contrastanti, ci sono solo il suo istinto e l’amore per la creatura che porta sulla groppa – non può prevedere l’effetto delle tentazioni sull’animo di Tuvstarr, la piccola lotta tra i buoni consigli da seguire e la pervicace curiosità umana. Prima arrivano gli elfi che danzano e riempiono di domande la principessa. Gentili e leggeri all’inizio, si fanno poi più spavaldi – le tirano le vesti e i capelli, Skutt comincia a correre. La principessa lascia con una mano la presa, per tenersi la corona d’oro e in un attimo la corona svanisce. Perché non mi hai obbedito?, chiede l’alce. Nella notte arrivano al rifugio di Skutt, Tuvstarr si addormenta nuda sul terreno, mentre il compagno resta vigile, davanti al mistero di questo corpo fragile di bambina e sotto gli astri, lucciole nell’immagine attorno all’animale. Il giorno seguente incontrano un pericolo ancora più insidioso, la fata o ninfa dei boschi dai capelli verdi e le braccia bianche, che si confonde agli alberi, sembra fuoriuscire e rientrare inafferrabile nelle ramaglie. Tuvstarr cavalca nuda, con il suo vestito davanti a sé, tra le corna dell’alce. La fata la interroga e la bambina non può non rispondere. Come ti chiami? Cosa porti con te? Ancora una volta lascia la presa per mostrare l’abito alla donna fatata e questo le viene sottratto, mentre troppo tardi la principessa si pente del suo cedimento.

John-Bauer-Elk-Cotton3

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Eppure Tuvstarr senza corona e veste ha ancora se stessa e l’amicizia dell’alce. L’ultimo luogo è l’acqua scura e ipnotica di un piccolo lago, dove l’alce va al principio dell’autunno. Tuvstarr è la prima umana che lo vedrà. Skutt sa che sotto la superficie acquorea si celano entità ben più imprevedibili degli elfi o della fata dei boschi, ma non può evitare che la principessa ne sia attratta. Tuvstarr si sporge sullo strano specchio nero, colmo di echi e presenze e il cuore d’oro che le ha dato sua madre nel giorno della nascita le si stacca dal collo per scivolare nel gorgo. Ora è perduta. Skutt la incita a venir via, a non cercare una sola cosa inutilmente, così da dimenticare tutto il resto. La saggezza dell’animale non può nulla contro la disperazione del desiderio di Tuvstarr. Abbraccia l’amico che torna a correre nella foresta, come è sua natura e necessità. Vediamo la principessa nell’illustrazione di Bauer, inginocchiata tra i tronchi lisci e scuri degli alberi, le radici che bevono dal lago e l’acqua che riflette e non dice, non rende nessuna identità. Potremmo pensare che sia solo una bambina, che si accinge a pettinarsi la chioma, una ninfa solitaria, nella taiga profonda. Ma noi sappiamo che non siamo gli unici a guardarla. Un alce si sofferma per un lungo tempo ad ammirarla. Non sappiamo nulla dei suoi pensieri. Passano gli anni e Skutt fa ritorno al lago per visitare l’amica che più non lo conosce, seduta e trasformata in una pianta sottile, incoronata di pennacchi di cotone.

Tutte le immagini di Bauer per questa fiaba tendono al desiderio che si fonde e si oppone all’amore. Ci chiedono, se mai le figure possono avanzare domande, di non giudicare questo sogno, non spiegare il segreto.

skogsrået

Skogsrået, la fata dei boschi, è la stessa che da il titolo a un poemetto di Viktor Rydberg, cui si è ispirato Jean Sibelius, nella composizione di un omonimo poema sinfonico, la cui apertura dai toni eroici, scivola prima nel ritmo incalzante della scoperta, dell’avventura e della seduzione per terminare in un languore malinconico, senza espiazione né possibile redenzione. La storia è quella dell’eroe Björn, ”orso”, che ha già nel nome il debito delle culture nordiche all’animale totemico d’Europa, emblema di un mondo selvatico con le sue proprie leggi di crudeltà, necessità e stupore da cui l’umano non si affranca. Nella foresta notturna l’eroe supera i tranelli dei nani in abiti nero-pece, che intessono ragnatele di luce lunare, e vaga dove dormono il lupo e la lince, verso il suo sogno confuso allo spirito profondo e boschivo, che ha sospira e allunga le braccia e ha forme femminili e voluttuose. Björn fa l’amore con la fata e così perde la possibilità di riconoscere e amare sua moglie, a casa, là nella vita degli esseri umani. Chi ha contatto con le fate si smarrisce in un eterno languore. Nulla sarà mai più così pieno e stordente. Cosa desidera, ora, l’eroe? Non sa nominarlo. A chi e dove vuole tornare? Non sa ricordarlo chiaramente né si appassionerebbe a un altro volto, così effimero, scialbo. È dunque condannato a consumarsi solo e infelice.

Il lettore attento ravviserà la somiglianza con la ballata che John Keats scrisse nel 1819, La Belle Dame Sans Merci, destinata poi a diventare d’ispirazione per tanta arte dei pittori preraffaeliti. La incontrai la prima volta in quinta superiore, in un’ora di letteratura inglese che mi sembra ancora non finire mai, per la mia gioia.

Oh what can ail thee, knight-at-arms,
Alone and palely loitering?

O cosa ti affligge cavaliere armato,
Che vaghi pallido e solo?

Mi andai ripetendo tutto il giorno, incantata, cercando di visualizzare quella terra di confine, dove il cavaliere era approdato e poi rimasto prigioniero, come uno spettro senza requie. Quella sì, era una figlia delle fate dagli occhi fieri: bella, sospirante, falsa, languida, fedele come solo la morte può esserlo, ma anche in contatto con il lago, il prato, le pareti silicee dove è scavata la grotta elfica in cui dimora.

I met a lady in the meads,
Full beautiful – a faery’s child,
Her hair was long, her foot was light,
And her eyes were wild.

Ho incontrato una dama nei prati,
Bellissima – la figlia di una fata,
I suoi capelli erano lunghi, il passo leggero,
E i suoi occhi selvaggi.

 

Una Leanan Sídhe, se ci trovassimo nel folklore irlandese, musa fatata che consuma la vita dei suoi amanti mortali, donando però loro intensità e talento artistico. E certo, pensando alla parabola del genio di Keats, morto di tisi a 25 anni in Italia, povero, lontano da casa e più volte disprezzato dalla critica, il demone fatato allunga le dita sottili sul nome del poeta “scritto nell’acqua”.

La Belle Dame Sans Merci è dunque un’altra delle manifestazioni di questo sogno mortale che ha la sua massima bellezza in luoghi di rapimento e perdita, dove ci incontra un’entità silvestre, ipnotica, primitiva – una sirena, come nella canzone celebre di Tim Buckley, che attende oltre oceani senza forma, canta – salpa verso di me, lascia che io ti abbracci.

Dicksee La-Belle-Dame-Sans-Merci

 

 

 

 

 

 

Lasciamo le dame fatate, torniamo ora ai vivaci spiriti folletti di Bauer, con i capelli color della stoppia o lunghi e grigi e attorcigliati, perché perfino i più giovani hanno già cento anni; alla buffa lentezza dei troll con stivali da montanari e malconci cappelli di feltro; alle loro voci sotto le stelle che quasi si toccano nei cieli settentrionali o tra pareti di tronchi e di neve per cui la luce è la più grande sorpresa. Ai funghi rossi e bianchi, belli e immangiabili; ai pendagli di pietre colorate con cui si adornano i nani delle foreste, ai bracciali sulle membra delle streghe, che conoscono ogni erba incantata o velenosa. Lasciamo che ci chiamino e ci spaventino, che ci facciano tremare d’attesa e ci annodino i riccioli in tralci d’arbusto e ragnatele facendoci indispettire, e ci rubino dalla bocca l’oro del miele, ridano forte fino a ruzzolarci nelle teste – ancora un poco.

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2 Commenti

  1. Grazie per avere ripopolato il mondo immaginario della foreste.

    Il poeta Keats viveva in una campagna ancora misteriosa.

    Ormai le fate si rintanano nella parte più lontana della foreste o del cielo. Ormai non si muore più di malinconia o di languore. Ormai i sogni hanno una velocità folgorante e già persa.

  2. Grazie, Francesca. Specialmente per il ricordo de La Belle Dame Sans Merci che ha riportato anche me agli anni del liceo, al libro di inglese, a quell’incontro potente, quelle stesse parole.

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