I giorni con la doccia e i giorni senza la doccia

di Pino Tripodi

Le ultime parole di Babele
Le ultime parole di Babele

Ci sono i giorni con la doccia e i giorni senza la doccia.
I giorni con la doccia mi alzo tentoni ignudo occhi semichiusi, barcollo ricurvo incespicando finché con fatica e molto soffrire mi faccio largo verso il bagno. Mi sento affiorare tutti i dolori della depressione fisica che incombe non potendomi colpire la depressione mentale, quella no che non mi può colpire altrimenti come farei ad andare a lavorare ecco spiegato scientificamente perché i poveri che lavorano hanno le depressioni fisiche anziché quelle mentali ma quando non trovano più un lavoro o quando smettono di lavorare o diciamo pure quando pur lavorando dalla mattina alla sera di notte giorni feriali e festivi non hanno mai neanche due monetine con cui farsi rumore nella tasca dei pantaloni vicino alle zone intime naturale che la depressione fisica si trasformi in depressione mentale e allora diventano pazzi di testa.

Sintetizzando, io sono pazzo di corpo, non mi funziona più niente se non questo cavolo di cervello che smettesse di funzionare mi esonererebbe da tante responsabilità dato che gli incapaci d’intendere e di volere come ognuno sa non sono responsabili neanche degli omicidi che fanno figuriamoci se possono essere ritenuti responsabili del pane che non portano più a casa per alimentare prole e moglie che si lamentano per la mancanza di cibo, di collant nuovi e di scarpe senza pretesa d’ultima moda senza capire che la lamentela fa aumentare la fame, la sete, le malelingue e tutte le cose perniciose di questo pianeta.
Io mi dico che i poveri siamo proprio cretini. Però pure ai cretini pare sia dato di avere un barlume appena d’intelligenza.

In quel barlume ho scoperto il segreto dell’acqua. Arrivo maluccio in doccia, apro l’acqua e mi disseto il cervello, la testa, le gambe, le braccia, la schiena, le unghie dei piedi. Mi disseto inoltre nervi, organi e muscoli prima con l’acqua calda calda e poi con quella fredda fredda, due minuti la prima e due minuti la seconda, calda sempre più calda e fredda sempre più fredda. Il mio corpo si beve tutta quell’acqua, tutto quel freddo e, chiaro, tutto quel caldo.

È la mia doccia dei giorni della doccia. Mentre mi faccio la doccia so che sto bene, benissimo, meravigliosamente rinfrancato da quella parte del benessere che non è abbienza.
Mezz’ora d’acqua corrente alternata calda e fredda mi mette a posto ogni malumore e focolaio di depressione fisica, mi ossigena il cervello e mi riscalda il cuore. Finisco la doccia e sono tutto vigore, forma, forza, buonumore, entusiasmo, contentezza, felicità. I giorni con la doccia supero ogni difficoltà, affronto anche la povertà con entusiasmo risolutore, mi porto al supermercato o alla farmacia o alla banca e pago spese e commissioni e bollette e mutui con il minimo dei soldi necessari e quando diventa necessario anche senza soldi e m’ invento i mezzi bastevoli per superare pure le lamentele della sacra familia, mi prodigo a pensare per il bene mio, della mia casa e, va da sé, dell’antroglobo intero.

I giorni della doccia partecipo alla giostra del mondo girando nella sua medesima direzione, divento suo amico e compagno, trasformo le difficoltà insormontabili in facilità a portata di mano, in sciocchezzuole evidenziabili come tali anche al più cretino degli stupidi.
Se mi facessi ogni giorno la doccia potrei divenire immortale. Mi sento sicuro di quest’affermazione che so contrastare con l’esperienza comune e con il social sentire.
Ma ci sono i giorni senza la doccia.

I giorni senza la doccia sono un cadavere che si trascina per ventiquattrore che sembrano avere per ogni ora gli straordinari sicché le ventiquattrore senza la doccia scorrono esattamente in ventiquattrore ma si sentono sul groppone della mia carcassa come se fossero duecentoquaranta ore. I giorni con la doccia scorrono veloci e felici, i giorni senza la doccia se ne vanno lenti e ombrosi.

(E qui come si vede apro parentesi. Si potrebbe da ciò dedurre che la vita felice duri di meno di quella infelice, ma in tal fatta inizierebbero i contrasti sulla soggettività del tempo che vi risparmio prendendo a prestito una piccola digressione del filosofo tressettista che mi onoro di avere come amico e sodale. Il filosofo tressettista quando perde le partite importanti, ma solo quando le perde, s’inalbera con il tempo. Il tempo non è signore come annunciano gli sprovveduti. Il tempo invece è un Dio falso e bugiardo che ha convinto tutti di essere comunista, cioè uguale in tutto e per tutti in ogni luogo per sempre. E invece così non è. Il tempo è sempre diverso, scorre capriccioso e bizzarro tanto nei dì a venire quanto nel dimenticatoio della storia. Ci fa correre uguali come marionette dietro a lui che decide con assoluto divertimento e sfrenato arbitrio quando fermarsi, quando accelerare, se cadere o saltare da qualche parte, se andare avanti o tornare indietro a raccattare la chiave persa o dimenticata in qualche pertugio d’umanità. La verità – ecco la summa di pensiero del filosofo tressettista – va vista al contrario: il tempo è soggettivo, varia assai, mentre noi stronzi che galleggiamo nel suo mare siamo semplici comparse di oggettività, carte a cui vien dato il permesso un giorno di perdere e un dì di vincere per far sollazzo esclusivo a lui che se sollazzo prova solo a vederci perdere allora che siamo poveri perdiamo sempre e così sia.
Si potrebbe ragionare davvero sulle tesi del filosofo tressettista, non fosse che quando vince mantiene le medesime carte ma cambia idee e tesi. Riscopre la signoria del tempo che alla lunga fa vincere sempre i migliori, sutura le ferite e calma le piaghe delle umane cose. Chiudo parentesi).

Nei giorni senza la doccia sono più sporco e questo parrebbe ragionevole visto che quando non ci si lava la lordura alligna subdola e repentina. Ma la sporcizia che mi coglie non la sento sulla pelle, nei capelli, in mezzo all’inguine, nel prepuzio, nelle superfici o nelle pieghe esterne del corpo. No, la sporcizia me la sento nei muscoli, nel sangue, negli organi, nel cervello. Ogni cosa che faccio o che penso diventa buia, triste, faticosa, inutile, dannosa, pericolosa. I giorni senza la doccia dico e faccio solo cose che devo poi distruggere nei giorni con la doccia. Nei giorni senza la doccia non mi si disidrata solo la pelle, diventa arido ogni gesto, qualsiasi pensiero diventa al di sotto delle capacità dello scimmione più retrogrado intrappolato il giorno x nelle maglie dell’evoluzione della specie. Nei giorni senza la doccia mi riduco a depresso fisico, ad annebbiato di mente. Niente più appare pulito, nitido, logico, simpatico, bello, amabile. Ti coglie l’umbratilità, il balbettio del corpo, il tremore della parola, lo sguardo perso in qualche remoto luogo di cui nulla può essere percepito ché il nulla pure lui è assente lì, l’insicurezza anche nel fare d’orina, l’astio da sè prodotto per se stesso.

Nei giorni senza la doccia sono insopportabile e insopportato. Anche lo specchio si gira d’altra parte per non guardarmi e la sedia della mia scrivania si scansa quando tento di posare il mio sedere su di essa. Come farà a capire che io mi voglia sedere proprio su di lei per me rimane ancora fascinoso mistero su cui giuro venire a capo prima durante o poi.
Nei giorni senza la doccia sono la vergogna della mortalità dice il filosofo tressettista che definisce tale vergogna come un’onta alla vita che per essere meravigliosa a un certo punto deve pur terminare, ma se nel prodursi si manifesta come accade in me nei giorni senza la doccia allora non ha nulla di meraviglioso e allora non dovrebbe mai poter morire perché allora non sarebbe mai dovuta nascere.

A proposito della morte devo qui segnalare che nei giorni senza la doccia mi sento tanto morire che davvero mi piacerebbe vedermi morire ma tale sollievo non mi è dato neanche per un istante visto che seppure con fare ossequioso e compassionevole busso alle porte della morte mi sento sempre respingere dall’indignata signora della notte che non sopporta di vedere le greggi delle sue anime disturbate, irretite, agitate, mortificate dalla mia presenza. I morti devono morire davvero per entrare nel mio regno non far finta di morire nella speranza di vivere ancora, magari meglio e senza le angosce del pane da portare a casa tutti i santi giorni del calendario. L’indignata signora si indigna anche perché la chiamo la signora della notte e mi apostrofa come un cretino che non sa distinguere il punto interrogativo dalla notte, dal buio o da altre oscurità che a suo dire non c’entrano un fico secco con lei che spero ricordiate essere la morte. Lei infatti dice di essere la signora del punto interrogativo, non la signora della notte. Io non capisco punto cosa possa significare signora del punto interrogativo e affronto la sua indignazione con umiltà chiamandola ancora signora della notte ma questo le procura tanta ira da non darmi neanche la gratificazione di qualche istante di morte che a volte mi è stato detto concedere a esseri più intelligenti di me.

Non bastasse la vergogna di non essere neanche per un istante ben accetto alla morte, devo, respinto, in aggiunta sopportare il filosofo tressettista prodigarsi in un sacco di domande. Provate, se vi riesce, ad aggiungere sale5 e aceto e succo di limone e veleno a volontà in una tazzina di caffè e poi comprenderete finalmente un mio giorno senza la doccia in compagnia delle prodighe domande del filosofo tressettista che mi chiede con insolenza non so più da quanti secoli ma nei giorni senza la doccia quando sei conciato così, ti senti da qualche parte riscaldato dallo specchio del bene? Certo che no, gli rispondo sicuro. Allora, o uomo, quando l’infelicità si produce in assenza d’acqua non sei felice? Certo che no, continuo rassegnato. Forse potrebbe che felice non sei, ma non sei come ti appari e dunque la felicità alligna nell’apparenza e non nell’essenza. Certo che no, continuo annoiato.
Forse che un mare d’infelicità nei giorni senza la doccia la sopporti, fors’anche la cerchi perché maggior risalto abbia a rivelarsi la goccia d’estasi nei giorni della doccia. Certo che no, ripeto mezzo addormentato. Magari speri che la tua infelicità produca infelici a cascata e nel fondissimo fondo della tua vuota mente ti riverbera a distanza una unghietta di godimento. Certo che no, ripeto sonnambulando. Mi par di capire, dunque, che la bilancia della ragione ci spinge a ritenere che il tuo astenerti dall’acqua sia costretto da qualche comando superiore che t’impone di soffrire piuttosto che di godere. Certo che no, ronfando esausto.

E allora lui digrigna i denti, punta i piedi, s’infuoca gote, guance e occhi e mi si mette a urlare, a urlare tanto che mi devo turare gli orecchi e il naso e la bocca ma allora cosa ti impedisce di fare sta benedetta doccia nei giorni senza la doccia così staresti bene tutti i giorni dispari eppure i giorni pari e noi filosofi potremmo giocare a tressette invece di preoccuparci delle tue fottute sventure cercate solo da te medesimo per non si capisce quale incomprensibile ragione.

Io non so rispondergli e in cuor mio mi dico. Ma se lo sapessi perché nei giorni senza la doccia non mi faccio la doccia ti pare che lo direi a te così mi vinci un’altra partita a carte per dimostrare che il tempo nonostante le nubi che si assiepano nella nostra mente è pur sempre signore e re del suo creato?

Se lo sapessi mi serrerei ben stretti i motivi così io potrei continuare a non farmi la doccia e lui non si farebbe pavone facendomi credere che a tressette perde solo quando lo decide lui e vince tutte le altre volte.

Io non lo so perché non mi faccio la doccia ma almeno mi sto zitto e non m’invento cose, chiese e cause e invece il filosofo tressettista che mi onoro di conoscere non si cheta mai e urla il suo sacro dovere di rispondere a qualsivoglia domanda, di risolvere qualsivoglia problema e di stanare ogni causa non solo le cause evidenti, ma anche quelle apparenti e pure quelle che giocano a nascondino per farci dispetto e non farsi trovare o perché sono cause senza conseguenza o perché sono galline genitate senza uova, chissà perché nei giorni che non mi faccio la doccia.

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1 commento

  1. Segnalo che Gli ultimi giorni di babele, l’opera del 2013 che accompagna il racconto, è stata dipinta da Ettore Tripodi

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