Questa è follia, è guerra contro le persone

di Helena Janeczek

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Egemen Bagis, il ministro turco per gli affari con la UE, ha annunciato ieri sera che chiunque si avvicinerà a piazza Taksim sarà «trattato dalla polizia come un terrorista». La dichiarazione sembra un avallo ex post dello stato della repressione già in atto. Le testimonianze, i video e le foto da Istanbul parlano di ustioni e piaghe causate da sostanze chimiche mischiate all’acqua degli idranti, di attacchi alle strutture di pronto soccorso, di due pesantissime irruzioni con lacrimogeni nel lussuoso Hotel Divan, rifugio per feriti e manifestanti del vicino parco Gezi. Bambini sanguinanti, un uomo travolto da una camionetta della polizia antisommossa. Impedimenti per giornalisti (anche stranieri) e personale medico di accorrere alle zone degli scontri. Traghetti e ponti sul Bosforo bloccati per chiudere l’afflusso dei manifestanti dalla parte asiatica della città.
Legge marziale, in pratica. La leader del verdi tedeschi Claudia Roth, intrappolata nell’Hotel Divan dopo lo sgombero di Gezi, ustionata in volto dai lacrimogeni (o da altro), ha parlato di follia, di guerra contro i cittadini.
La Turchia è nota per le sue violazioni dei diritti umani però non è l’Egitto di Mubarak o l’Iran dove ieri, al primo turno, è stato eletto presidente Hassan Rohani, il più moderato degli ayatollah ammessi alla competizione.
È una democrazia – con molte tare ma non un’innegabile “democratura”: tant’è che le manifestazioni più che pacifiche contro il progetto di costruzione di un centro commerciale sul luogo del parco Gezi mostravano, al principio, una grande consonanza con le proteste diffuse nelle cosiddette democrazie avanzate: da Stoccarda alla Val di Susa. E mostrano pure inquietanti analogie nell’impiego sproporzionato della repressione poliziesca; per quanto ciò che sta accadendo in Turchia – cinque morti accertati, quasi un centinaio di avvocati arrestati ecc.- sia sinora il peggio.
Ma prima, dopo e durante Occupy Gezi, nelle ultime due settimane è avvenuto questo:
Il 1° giugno a Blockupy Francoforte, la protesta contro le politiche BCE, la testa del corteo autorizzato è stata accerchiata e tenuta per ore sotto scacco. L’uso massiccio di spray urticanti e di manganelli ha causato ca 300 feriti, alcuni piuttosto gravi. Anche in quel caso diversi volontari sanitari parlano di impedimenti a prestare soccorso.
In Italia la sentenza assolutoria per la polizia sulla morte di Stefano Cucchi è arrivata in contemporanea con le teste lacerate degli operai e del sindaco di Terni in corteo contro la chiusura dell’acciaieria. Mentre in Turchia partiva lo sgombero di piazza Taksim e parco Gezi, la Cassazione ha confermato, riducendo i risarcimenti alle parti lesi, della sentenza su Bolzaneto e le violenze alla scuola Diaz.
A ridosso di tutto questo, si è scoperto il gigantesco programma di spionaggio “Prism” voluto da Obama, il governo greco ha deliberato la chiusura della tv e radio di Stato ERT, arrivando a chiudere il segnale nel giro di poche ore e mandando la polizia antisommossa a difendere la propria decisione. A Saõ Paolo del Brasile, paese economicamente emergente al pari della Turchia, la protesta per l’aumento dei prezzi del trasporto pubblico ha causato una repressione poliziesca molto dura, con 250 arresti e 50 feriti.
L’eccesso di impiego della forza di polizia è una ormai una costante planetaria – in tutta Europa come a New York e negli Usa – e questo sia nel caso che vi sia stata violenza da parte dei manifestanti sia quando le pratiche di resistenza passiva sono state portate avanti senza alcun cedimento. Ma rappresenta soprattutto una costante che tutte queste proteste nascono dalla volontà popolare di difendere dei beni comuni (lo sono sia gli alberi dei parchi e le valli subalpine che i biglietti degli autobus) o di arginare il potere di poteri sottratti al controllo democratico, come le istituzioni bancarie e monetarie. Non c’è nessuna volontà di sovvertimento rivoluzionario- eppure i governi democratici di vario stampo e colore politico difendono a forza di lacrimogeni, manganelli o proiettili di gomma i “flussi” (ossia gli interessi mobili e flessibili) contro i “territori” (e la gente che ci abita), come Marco Revelli cerca di circoscrivere questa nuova forma del conflitto ai tempi della globalizzazione e della sua crisi.
Oggi a Istanbul le proteste cercheranno di dirigersi nuovamente verso i luoghi tabù sgomberati e, visto che è stata indetta pure una manifestazione pro-Erdogan e in molti quartieri nella notte si sono erette barricate, la giornata potrebbe evolversi in modo assai peggiore di ieri. Finora non sono arrivate critiche decise né dall’Unione Europea, né da Barack Obama, entrambi vincitori di un Premio Nobel per la Pace che appare sempre più tragicomico.
Barbara Spinelli, riferendosi principalmente a “Prism”, ha parlato di ostilità dei governanti e di “paura del popolo”. Il popolo, ovunque esso si trovi, sta incontrando sempre più motivi per ricambiare.

Ps. Mi sono certo dimenticata qualche voce del triste elenco. Ma non dimentico di segnalare questa lettera bellissima di Gianluca d’Ottavio che vive a Istanbul e si occupa di turismo.

Pps. L’immagine sopra ritrae la polizia mentra da fuoco all’albero del Parco Gezi nel quale gli occupanti avevano iscritto i loro auspici e desideri.

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9 Commenti

  1. Grazie Helena di questa visione globale di un problema gravissimo. L’uso sproporzionato delle forze della polizia è una conseguenza diretta dell’incapacità dei governi di ascoltare la stessa popolazione che, in quasi tutti i casi, li ha messi al potere. Sono gli stessi governi quelli che, agendo così, attentano contro la democrazia.

  2. Erdogan ha stravinto ieri, sia militarmente che politicamente, gestendo l’opposizione con la polizia e chiamando in piazza un milione di persone. Non è un fatto di poco conto. Perciò non ha senso tirare in ballo un parolone come “democrazia”; la quale, ci piaccia o meno, è fatta di regole e … di numeri. I turchi che sostengono Erdogan non contano?

    E poi: in base a quale unità di misura si afferma che l’uso della polizia è stato «sproporzionato»? Esiste un uso della repressione che non sia «sproporzionato»? La polizia agisce non sulla base di regole astratte, bensì in relazione alla forza di chi ha davanti. Il loro obiettivo è il mantenimento del costituito, succeda quel che succeda. Sottintendere un uso “democratico” (sic!) della repressione è puerile.

    Il movimento no global che si diede appuntamento a Genova nel 2001 fu sconfitto anche perché non riuscì a gestire la repressione. L’evento era prevedibile, ampiamente annunciato, eppure quel movimento non fece nulla per limitarne gli effetti.

    Se vogliamo trarre qualche insegnamento dai fatti turchi, osserviamo come il migliaio di persone del primo giorno (nel parco) si è trasformato, col passare del tempo, in un fiume in piena composto da tante parti sociali … E ciò è avvenuto perché non sono indietreggiati di fronte alla repressione, hanno reagito, si sono difesi e hanno messo in pratica una resistenza militante di enorme portata. Le barricate, le molotov, le fionde, insieme alla solidarietà degli albergatori e della gente comune, hanno permesso a quel movimento di diventare importante e di trascendere i motivi di partenza. Una parte della società turca ha portato in piazza le sue istanze laiche e di sinistra, senza tentennamenti.

    O saremo capaci di superare ogni ritrosia e mettere in campo quel tipo di radicalità, o saremo destinati a guardare lo spettacolo … La polizia reprime; è il suo compito. A noi quello di resistere. Gli «eccessi» sono parte integrante di questo scontro (da entrambi le parti, per altro). Lamentarsi non serve; organizzarsi, invece …

    PS: Non è propriamente vero che questa è la lotta di un “territorio” contro i “flussi”; o meglio, questa lettura è parziale, molto parziale. Qui sono due mondi che si scontrano, due modi di intendere la laicità, la vita, etc.. Il “territorio” – il parco, nel caso specifico – è solo il pretesto, l’occasione; altrimenti non si spiega il consenso e la vastità del movimento. Insomma, mi chiedo come si dia ancora credito a uno come Revelli, che negli ultimi 30 anni non ne ha mai azzeccata una, compreso il suo vergognoso invito a sostenere il Governo Monti …

  3. La guerra contro i cittadini si fa in varii modi. A volte con i lacrimogeni, a volte con i titoli bancarii tossici.

  4. S.L. scrivi “O saremo capaci di superare ogni ritrosia e mettere in campo quel tipo di radicalità, o saremo destinati a guardare lo spettacolo … La polizia reprime; è il suo compito. A noi quello di resistere. Gli «eccessi» sono parte integrante di questo scontro (da entrambi le parti, per altro). Lamentarsi non serve; organizzarsi, invece … ”

    Il problema, in questo caso, io lo vedo nel “noi” che chiami in causa.
    “Noi” chi?
    In Turchia stiamo vedendo un “noi” di sindacati in sciopero generale,persino delle tifoserie del Beşiktaş, Fenerbahçe e Galatasaray, e di altre fasce di popolazione ampie e disomogenee (nemmeno tutte laiche e/o di sinistra).
    Qui da noi i “noi” delle singole ragioni di protesta stentano a essere percepiti (o riconosciuti) da un “noi” più vasto come qualcosa che assume un significato politico aggregante.
    Prima ancora della volontà di resistenza e di organizzazione, per me si tratterebbe di ricostrurire il tessuto sociale – sul “come” si stanno scervellando da un bel po’ le migliori teste pensanti.
    Non serve nessuna radicalità se non nasce da una spinta forte di (contro)aggregazione.
    A proposito: le definizioni di Revelli le ho riprese per comodità di riassunto – non sono strettamente farina del suo sacco. Detto questo, ne ho stima pur non sposando spesso le sue conclusioni. Pe me la cosa più importante oggi è porsi le domande giuste e cercare delle risposte con serietà, perché anche quelle che non convincono portano a ripensare meglio alle questioni.
    Infine: l’idea delle forze dell’ordine che trattano le proteste con i guanti, sarà anche irrealistica ma si basa su un ideale normativo delle democrazie (tutela del diritto di manifestazione, controllo dell’esercizio monopolio della forza ecc.) che può essere rivendicato.
    Non è questione di anime belle che non vogliono sapere che i conflitti di solito non sono un pranzo di gala già molto prima di diventare rivolte o rivoluzioni, né di avere una visione mitizzata e aproblematica di “democrazia”.

  5. Ultimissa cosa: una delle ragioni per cui la disobbedienza civile e la resistenza passiva sono quasi sempre forme di lotta più efficaci nelle democrazie è proprio il fatto che sono in grado di togliere giustificazioni alla repressione e quindi poter diventare più pericolosamente aggreganti.

  6. Detto semplicemente, il «noi» coincide – non può che coincidere – con quanti subiscono la crisi e la situazione attuale; detto anticamente, il «noi» coincide con la categoria dei «senza proprietà», o «proletari» che dir si voglia (la cui composizione non è quella dei tempi antichi, ovvio) …

    In Turchia – ma anche qui – conta non tanto che siano ultras o sindacalisti, bensì che siano frange sociali messe ai margini da un sistema economico che ha nell’esclusione una delle sue essenze …

    Il «noi» che si è espresso in Turchia non si è aggregato seguendo formule di «ricostruzione del tessuto sociale»; è divenuto un «noi» proprio in piazza, reagendo alla forza repressiva. Ed è stata proprio la radicalità della reazione alla polizia ad avere dato l’avvio all’aggregazione di quel «noi». Basta ripercorrere la storia di quel movimento per verificarlo.

    Capisco che possa non piacere, ma la «lotta» aggrega attorno a un «noi» molto di più che qualsiasi discorso sul «come» ricostruire il tessuto sociale.

    Liberissima di credere che le forze di polizia possano trattare le proteste con i guanti. Non mi risulta che questo sia mai accaduto, se non in periodi di bassa intensità conflittuale, dove però la protesta era ai limiti dell’irrisorio.

    In Italia, fin dagli anni 60, esiste un grande dibattito sul controllo “democratico” dell’uso della forza. A cosa ha portato? Non è riuscito neppure a fare mettere un numero identificativo sui caschi della polizia … E regolarmente, ad ogni significativo emergere di una protesta, assistiamo a repressioni violente, torture, incarceramenti indiscriminati … La polizia, piaccia o meno, è un organo di conservazione. E lo è costitutivamente.

    La tutela del diritto di manifestare esiste. A patto che il manifestare non esca troppo dai binari della “decenza” …

    Per ultimo tu affermi che « la disobbedienza civile e la resistenza passiva sono quasi sempre forme di lotta più efficaci nelle democrazie» … Sulla base di quali dati di fatto? A me risulta che le più grandi conquiste e i più importanti diritti di cui oggi noi godiamo siano il frutto di lotte furibonde, con tanto di cadaveri lasciati per strada … Dalle otto ore lavorative, al diritto di sciopero e di assemblea, per non scordare aborto e la stessa Costituzione (nata dalla resistenza, la quale resistenza mi risulta fosse esperita non proprio civilmente e/o passivamente) … Ma esiste una letteratura sterminata su questa diatriba … Come ho già detto altre volte, una volta Cristo porge l’altra guancia, un’altra impugna la verga e scaccia i mercanti dal tempio … Non ha senso parteggiare per una forma di lotta a scapito di altre …

    E infatti … In Turchia hanno usato tutto l’armamentario tipico degli scontri di piazza … Eppure hanno aggregato, riconnesso tessuti sociali diversi attorno a obiettivi concreti, rimesso in circolo un’idea di società diversa … Devo storcere il naso nei loro confronti perché, di fronte alla repressione, invece che farsi trascinare di peso hanno lanciato bottiglie di birra piene di benzina?

  7. “Liberissima di credere che le forze di polizia possano trattare le proteste con i guanti. ” Ecco, non ho mica detto questo. La prendo come spia concreta della percezione avuta sin dal tuo primo commento che tu mi abbia messa nel frame dell’anima bella democratica.
    Per il resto dici cose che condivido o con le quali altrimenti vorrei entrare in dialettica.
    Ma con la netta sensazione di un fraintendimento basilare, temo non se ne ricavi molto dal puntalizzare e contropuntualizzare.
    ps. Certo che il “noi” si identifica con quelli che dici tu. Ma secondo me dev’essere latente prima che un qualche moto di rivolta lo “svegli dal sonno” e poi lo incrementi.

  8. L’aggregazione è necessaria, perché altrimenti nessuna frangia rivoluzionaria benché violenta e organizzata può avere la meglio su un esercito nazionale, ad esempio, almeno che sorretta da un volere internazionale. Ma L’Italia da questa eventualità è esclusa. La rivoluzione dal basso necessità di un motivo comune di aggregazione, di un pensiero comune, di una tensione comune al futuro.

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Helena Janeczek è nata na Monaco di Baviera in una famiglia ebreo-polacca, vive in Italia da trentacinque anni. Dopo aver esordito con un libro di poesie edito da Suhrkamp, ha scelto l’italiano come lingua letteraria per opere di narrativa che spesso indagano il rapporto con la memoria storica del secolo passato. È autrice di Lezioni di tenebra (Mondadori, 1997, Guanda, 2011), Cibo (Mondadori, 2002), Le rondini di Montecassino (Guanda, 2010), che hanno vinto numerosi premi come il Premio Bagutta Opera Prima e il Premio Napoli. Co-organizza il festival letterario “SI-Scrittrici Insieme” a Somma Lombardo (VA). Il suo ultimo romanzo, La ragazza con la Leica (2017, Guanda) è stato finalista al Premio Campiello e ha vinto il Premio Bagutta e il Premio Strega 2018. Sin dalla nascita del blog, fa parte di Nazione Indiana.
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