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Nel mattatoio

mattatoiodi Angelika Riganatou

Chiamatemi pusillanime, chiamatemi smidollata, non basterà ad attenuare, neppure per amor di dignità, la profonda repulsione che provo all’ingresso di qualsiasi mattatoio, e quel senso di tragedia reiterata ma invisibile.

Non sono una pivella, badate: sono quasi 25 anni che lavoro come veterinaria. Ma concedetemi: come immaginavo la mia vita professionale, quando, fanciulla imberbe, studiavo i tomi che mi avrebbero traghettato verso l’orizzonte? Ecco, io vedevo me stessa su una jeep carica di attrezzature varie, per lo più binocoli e macchine fotografiche. Mi immaginavo in giubba mimetica, appostata in selvaggia solitudine, a osservare nidi di rapaci da me personalmente protetti. Mi vedevo operare per ore, al fine di ridare ali ad aquile e grifoni che conoscevo per nome e che mi davano del tu, e poi mi materializzavo a guardarli volteggiare su in alto, pura aria, una volta che li avevo riabilitati e liberati. Nel loro volo, io stessa mi libravo, la mia vita e le mie fatiche acquistavano un senso: sarei stata un veterinario mistico, che camminava sulle acque e ascendeva, come attività collaterale a qualche sutura.

Questo sognavo e, ovviamente, non è mai stato.

Non è stata una sorpresa neppure per me.

Tuttavia, quello che mediamente la gente pensa del veterinario, lo credevo anche io: il Dottore degli Animali, in camice bianco sia in ambulatorio che in stalla, intento a rassicurare botoli, puledri o unicorni con espressione celeste. La verità è che la vita da veterinario per me si è configurata in modo drasticamente diverso, per non parlare dell’espressione – men che mai celeste. Sono decisamente un veterinario multitasking: ho lavorato dappertutto, e l’espressione è glissata da stupore a panico a sofferenza, finché mi si è perfezionata a «maschera impenetrabile », che, nella fattispecie, è quella che indosso anche ora, al mattatoio.

A mia parziale difesa, devo dire che, quando ero studentessa, barcollavo fuori da quegli antri piangendo; oggi mi figuro che nessuno sospetti il dramma interiore. Si può supporre che, mentre infilo la mano nella carcassa calda di un agnello e ne estraggo il fegato per ispezionarlo, io abbia una coscienza, che starnazza instancabile dentro la parure da pubblico ufficiale che indosso? Spero proprio di no.

Ammirate piuttosto l’abbigliamento tecnico: camice, cuffia e stivali bianchi, parannanza di plastica che mi arriva ai piedi, cinturone con fodera per il coltello, che mi fa sentire come un pistolero e per questo lo estraggo anche più del necessario. A che mi serve il coltello, dite? A tagliare organi e a ispezionarne l’interno. In cosa mi distinguo dai macellatori, insinuate? Che faccio infinitamente meno fatica, guadagnando di più, innanzitutto, ma anche che sono la responsabile di ogni cosa: supervisiono le operazioni di scarico degli animali e di macellazione, verifico la salubrità delle carni (e credetemi, non riempie neppure un attimo intero, il tempo che si impiega per passare dallo status di animale a quello di carne), decido se queste possano essere destinate al libero consumo e mi impegno in vari altri corollari, come il «benessere» (sic) degli animali, la tracciabilità, e il rispetto di tutta un’altra serie di norme troppo noiose per parlarne ancora, ma con un carico di angosce che turba i miei sonni.

Oggi i mattatoi italiani rispondono per lo più ai dettami della normativa europea; sono un curioso mix di ospedale e fabbrica, se si guardano le tute bianche, le guidovie, le piastrellature fino al soffitto, e, naturalmente, se si escludono dalla vista i laghi di sangue. Ospedali curiosi, ne convengo, se si suppone che l’obiettivo sia la morte del paziente e la sua riduzione a spezzatino; ma, se invece si considera per un momento che il «paziente» non è l’animale che qui entra, ma il consumatore che se ne satolla in seguito, si può capire che l’attenzione all’aspetto igienico-sanitario non esuli del tutto dalle funzioni di un ospedale. In un certo senso; nell’altro, per la mia sempiternamente starnazzante coscienza, è la porta sull’orrore, né più né meno di tante squisitezze umane.

Quando facevo tirocinio, non erano così garbati i mattatoi in cui venivo spedita. Un’unica sala, gli animali sgozzati insieme alle carcasse, sangue e materiale ruminale ovunque, passanti curiosi, miliardi di mosche, operatori vestiti con abiti da lavoro di colori non identificabili, induriti da strati di sangue. Potete immaginare quale trauma abbiano rappresentato per me quelle visioni, che solo pochi anni prima avevo inteso la «carne» essere il «muscolo» di un animale.

Non io sola ero tanto inconsapevole. Ricordo bene una lezione di anatomia in cui ci fu una confusa e imbarazzante sommossa quando questa identità fu finalmente chiara; così come, qualche anno dopo, allo studiare finalmente l’afta epizootica, leggendaria malattia che era stata combattuta con una politica di abbattimenti, vaccinazioni e varie, si scoprì che tale eroica guerra non era per «salvare» gli animali, che di per sé non soffrivano poi tanto per le conseguenze del morbo, ma per salvare le «produzioni». A quell’epoca io già cominciavo a percepire la portata dell’inganno, e fui meno stupita; ci fu però chi si levò indignato, e polemizzò con il professore, peraltro più annoiato che turbato.

Eravamo gente di città, questo va detto, e non eravamo preparati come i colleghi di provenienza rurale. La carne si comprava dal macellaio, le mucche pascolavano nei prati della Svizzera, come avremmo potuto supporne il collegamento? Ci sono voluti anni di università per perfezionare il contatto col mondo reale. Infine, abbiamo imparato tutti che esistono due categorie: gli animali da reddito e quelli da compagnia. Entrambe le classificazioni sono surrettizie, l’animale cui chiunque è più affezionato e fedele è il reddito, ovunque – laddove per reddito si intendono anche nuance psicologiche che affronteremo in seguito.

Eccomi dunque, oggi: avanzo con cautela, una mano appoggiata sulla fondina mentre l’altra indossa il guanto di ferro a proteggerla. Il rumore della plastica che mi ricopre assomiglia, ne converrete, ai suoni metallici delle armature di eroi fantasy, cui mi ispirerei per la falcata, non fosse il sangue, che rende il pavimento scivoloso. Osservatemi, mentre mi dirigo alla mia postazione. Saluto cordiale chi mi circonda, avendo da tempo abbandonato la velleità di recitare la parte dell’arcigno tutore della legge – ma posso farlo solo se lo sguardo si incrocia con quello di un altro: non si sente niente, a meno di urlare.

Vi porto infatti in un mattatoio per suini: la vasca di acqua bollente, dove le carcasse vengono tenute per qualche minuto, è dotata della spelatrice, una macchina per togliere il grosso delle setole. Produce un rumore continuo, tanto forte che è impossibile sentirsi, a questo si aggiunge il rumore della fiamma per bruciare gli avanzi, e la sega circolare per tagliare la colonna. Tutto il tempo della macellazione, questi rumori ci sovrastano, ma il peggio è riservato agli operatori che stanno di là, accanto alla vasca; la maggior parte di loro accusa cali dell’udito.

Qui dove sono io, la sala accanto, ci sono le guidovie dove scorrono le carcasse, perché gli operatori le aprano, gli estraggano i visceri, e infine le spacchino in due, rendendole mezzene. Solo in fase finale la sottoscritta, dopo aver esaminato le carcasse, prende un campione di diaframma per l’esame trichinoscopico, e nei momenti di pausa passa alla rastrelliera dei fegati, dove un operaio li uncina ordinatamente.

L’operaio di oggi è un ragazzo giovane, neppure vent’anni. Doveva andare all’università, ma ha rinunciato per non aver le idee troppo chiare, e neppure troppa voglia di studiare; il padre, furbamente, lo ha mandato qui. Lo hanno messo a fare uno dei lavori più infami: mentre il pacco intestinale viene automaticamente buttato via una volta estratto dalle carcasse, l’albero respiratorio, con fegato e cuore, gli cade praticamente tra le mani. Lui deve togliere fegato e cuore ed eliminare i polmoni. Sembra facile, sembra possibile… e invece posso assicurare che si tratta di organi sanguinolenti, viscidi, che arrivano palpitanti, e che, nel perfido tentativo di mantenere esistenza, emanano odori e vapori che non sono piacevoli per nessuno, meno che mai per chi vi è destinato così da vicino, come il ragazzo.

I primi tempi era costantemente verdastro:

«Me ne vado, me ne vado, non è possibile…» mi urlava nell’orecchio, insanguinato fino ai gomiti, la parannanza rossa, i piedi immersi nei coaguli.

Come non capirlo? Proprio io, che mi sono fatta dare un tavolino per mettere file ordinate di vaschette dove sistemare i campioni, mentre il collega prima di me non disdegnava sacchetti sguazzanti nelle milze e polmoni, nel punto più asfittico della catena. Io, che lavo ossessivamente il punto di pavimento in cui mi trovo, la mia parannanza, i miei stivali, i miei guanti, perché non voglio abituarmi a essere sporca di sangue, né voglio abituarmi a considerare normale questo mondo, cui è tanto facile diventare indifferenti – perché ho presente Primo Levi, e il suo compagno che lo esortava a pulirsi e a sistemarsi gli abiti fin che poteva, per non diventare una bestia, ma ricordarsi uomo.

Ma tant’è, questo ragazzo, poco più di un bambino, ha dimostrato una tempra considerevole: sono ormai sei mesi che tiene duro. Ora lava spesso la sua postazione, quasi come me, e, udite udite, parla di andare all’università il prossimo anno: «Ancora due mesi – mi annuncia –, ancora un mese e me ne vado… Perché gli altri hanno la passione per questo lavoro, a me non viene…», quasi si giustifica.

Hanno la passione?

Li considero, e scopro che, per certi, ha ragione, per quanto mi sia difficile crederlo. Mi chiedo spesso cosa porti un uomo ad adeguarsi a un lavoro come questo; non tanto a causa della sua insita bruttura, cui si può essere poco sensibili, e, pur essendolo, ci si abitua a qualsiasi cosa… ma svegliarsi alle cinque per andare a lavorare dodici ore, avere in pratica la giornata intera divorata da un lavoro, è una cosa che per me è intollerabile – mi domando come potrebbe esserlo meno, per un ragazzo giovane che ha voglia di vivere. Ma mi domando ancora di più come può esserlo, per chi ha passato trent’anni della sua vita in questo modo.

Sono una figlia della borghesia, dunque? tutta mollezze, mentre loro sono garantiti dall’assenza di aspettative diverse, se non quella di guadagnare abbastanza per costruirsi casa? Perché vengono da un mondo che ha sempre fatto la fame? un mondo essenzialmente contadino, in cui la gente per generazioni viveva «sotto lu padro’» che faceva il bello e il cattivo tempo, e aveva capito che l’unico modo di garantirsi una giustizia sociale era quello di lavorare il più possibile, accumulando beni, per rendersi autonomi? E l’unico strumento era il «pezzo di terra», «la casa», «le bestie» – di tua esclusiva proprietà – e tutto ciò lo ottenevi con lavoro duro, costante, senza domande.

È questa, la passione?

Certo basta a rendermi comprensibile l’immolazione, e mi fa provare anche una sorta di riverente soggezione nei confronti della vita di cui spesso ascolto i racconti.

Ferdinando, il macellatore alle spalle del ragazzo, per esempio, impegnato a spaccare a metà la colonna vertebrale di una carcassa, lavora come tale da quasi quarant’anni. È un uomo massiccio, con i capelli bianchi e un largo, simpatico sorriso – le sue ampie mani hanno le dita contorte, come tronchi d’ulivo. Chissà com’erano, quando, a quindici anni, ha cominciato a lavorare da macellatore? A quei tempi, gli animali non venivano spinti nelle catture – una sorta di gabbione di ferro in cui hanno scarsa possibilità di movimento, che garantisce velocità e protezione dell’operatore – e per stordirli si entrava nel recinto, li si spingeva in un angolo, in una sorta di rodeo de noantri, facendo stramazzare il prescelto, col colpo del bastone di ferro in mezzo alla fronte.

Solo chi è entrato in un recinto con dei bovini spaventati sa quanto possa essere rischioso: quando si parla di vitelli, si intendono anche masse oltre i duecento chili, e quando siamo nel campo dei vitelloni si arriva mediamente ai quattrocento chili, spesso di più. Ora, la faccenda del recinto era probabilmente limitata ai vitelli – io stessa ho visto che le vacche e i tori venivano spinti e isolati dagli altri, prima dell’avvento delle nuove strutture – ma per quanto piccoli, duecento chili sono inquietanti, ve lo garantisco. I bovini non saranno agili, ma sanno essere veloci e, se lotta per la propria vita, qualunque essere vivente trova forze insospettabili. Non so immaginare come potesse un ragazzino affrontare tutte le mattine una situazione simile, come se fosse già parte della vita. Che poi comprendeva la giornata intera a estrarre enormi rumini pieni, tagliare tarsi, arrotolare pelli ancora calde ecc.; e non solo: la sera si caricava il camion, e si attraversava la Val Nerina dormiente per arrivare all’alba a Roma, a consegnare la carne – come succede continuamente, in flusso invisibile, ogni notte, anche adesso, per trasportare ciò che i negozianti vendono ai romani la mattina.

Giorno dopo giorno, anno dopo anno, questo singolo uomo ha continuato fino a oggi. In un solo anno ha spaccato 15.000 colonne, mi ha raccontato una volta – e in tutta la sua vita…?

I suoi figli studiano, uno sta facendo il master in Bioarchitettura all’estero, e l’altro sta prendendo la laurea in scienze bancarie: le loro rette sono state pagate un tanto a capo. Lui gli ha garantito il riscatto.

Chi fa il macellatore si sposta di macello in macello; spesso, come oggi, Ferdinando si alza alla tre per arrivare al mattatoio in tempo, e poi va avanti tutto il giorno. Questo da venti, trenta, quarant’anni. Il suo fisico è provato, dolorante, ma indomabile – per adesso. E i suoi figli faranno ben altro.

A volte porto i cornetti, che loro mangiano insanguinando i tovagliolini, e poi c’è chi si china a bere dalla canna, tirandola su da una pozza di sangue, mentre io guardo altrove, orripilata donnicciola del Duemila. Sono gente diversa da me, e anche da questo ragazzino, che è a un passo dalla libertà. È gente che non ha mai concepito di dare spazio alle esitazioni e ai dubbi amletici, perché, mentre sei intento a dubitare, sprechi tempo prezioso.

Questo non toglie che possano essere infelici, o insoddisfatti. Alcuni sono inclini al bere (e c’è anche chi, a periodi, non può lavorare perché imbottito di psicofarmaci), hanno forti dolori alle spalle, ai gomiti e alla schiena, usurati da tanto lavoro ripetitivo, al punto che devono aiutarsi l’un l’altro a sfilarsi la tuta dopo il turno; se ne lamentano, ne soffrono, ma contemporaneamente li accettano, come parte delle cose classificate sotto la voce «la vita».

È curioso come sia semplice per loro, come per molti altri, capire cosaì sia, questa vita.

Io, che ho costantemente gli occhi perduti tra questo e altri mondi possibili, soprattutto facendo fettine dei diaframmi che dieci minuti prima erano essere vivente; io, che costantemente interrogo gli animali in fila per essere uccisi – e i loro occhi –, e poi le carcasse – e i loro occhi –, e poi coloro che li uccidono, coloro che si occupano della carne, io, insomma, che tartasso ogni cosa con i miei pigolii parafilosofici, so per certo solo questo: che non solo per me la morte è insondabile, ma lo è anche la vita stessa, e forse anche più spietatamente.

Perciò vaneggio inconcludente, nella mia armatura di plastica, al cospetto delle articolazioni sfinite di questi uomini che hanno sempre lavorato duramente, come io non ho dovuto mai, e si sono comprati una casa, come io non ho fatto mai, e hanno dentro di sé il senso della vita, che non richiede senso, come io non ho accettato mai.

(Questo testo è tratto da Mondo Animale, Ediesse 2013. Nel libro Angelika Riganatou, scrittrice e, per mestiere, veterinaria on the road, racconta il suo viaggio quotidiano nel mondo – … animale? -, a metà tra memoir e reportage.)

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20 Commenti

  1. “Se i macelli avessero pareti di vetro, tutti saremmo vegeteriani” diceva Paul McCartney.E proprio questi giorni ho letto da qualche parte che del maiale non si butta via niente,tranne le grida del giorno della macellazione(proprio come del porno,se si eviscerano le implicazioni underground che spesso ci piace attribuire a quest’ultimo)

    • è vero: le grida della macellazione si buttano via subito. Ti cadono dentro e spariscono in un istante….

  2. noi tutti siamo carne da macello e non è metafora! Il fatto che non si veda scorrere il sangue ciò non elimina il fatto che di fatto sia così.Gli ospedali sono case di mattanza, dove tutto gira non intorno alla salute ma all’affare. E nel lavoro è uguale altrimenti non si spiegherebbe quella legge giovane giovane che prevede che tutti siano adattabili a qualsiasi genere di lavoro, mentre per ogni lavoro c’è rischio, che s’impara con il tempo e l’esperienza. Così invece si crepa in cantiere in fabbrica, giù dall’impalcatura, la testa sotto una pressa, o ci si disintegra nei miasmi di una soluzione chimica…E sempre la colpa è dell’inesperto che non ha rispettato le regole così la tua morte non vale nemmeno il costo della tumulazione. Davvero un mondo di cannibali, anzi no, i cannibali hanno una legge da ripsettare noi non ripsettiamo che il soldo, la cacca peggiore che si spanda perché non è assolutamente fertile.
    E noi, tutti noi, siamo terra in cui la bestia e il vegetale mangia sempre e solo se stesso.Inutile mettersi la benda sugli occhi, di cadaveri è fatta tutta la terra.
    f.f.

    • l’analogia è reale, visibile prima ancora che noi la si pronunci o descriva. L’essere umano che dispone dell’essere vivente in batteria penitenziaria, concentrazionaria (“Elisabeth Costello” docet), è lo stesso essere, lo stesso cervello che organizza il mondo e la produzione fornita da altri esseri umani spesso in batterie penitenziarie, concentrazionarie, o con regole persino ridotte rispetto a quelle del mattatoio raccontato dall’autrice. A proposito: chissà cosa ne pensa l’autrice?

      • Sono completamente d’accordo: “lo stesso cervello che organizza il mondo” …Sono felice che abbiate colto il sotterraneo malessere delle mie osservazioni al mattatoio: ci si sente meno isolati.

        In fondo, l’uomo è qualcosa che dev’essere sorpassato, diceva il buon vecchio Friedrich; lui sperava nel superuomo, ma poi… è finito abbracciato ad un cavallo…sfortuna o chiarezza? ;-)

  3. Bell’articolo, scritto molto bene. Complimenti!
    Capisco come ci si possa sentire a vedere quell’orrore ogni giorno. Mi ritrovo molto nei tuoi racconti di “Cosa vuoi fare da grande”. Anche io, amando gli animali, ed essendo per questo diventato vegetariano a 3 anni, avevo immaginato un futuro da veterinario, a salvare gli animali. Crescendo (neanche poi tanto) ho capito però che la vita del veterinario è legata alla morte. La morte degli animali che non riesci a salvare, di quelli che devi abbattere nei canili, di quelli che devi sopprimere perchè “aggressivi” (anche quando la colpa è della stupidità umana nell’umanizzare gli animali) e di quelli che vengono segregati e poi macellati (o scuoiati). Ho scelto così una strada totalmente diversa, lontana dagli animali e dalla loro vita/morte. Non riesco però ad abituarmi, anche se ci convivo, a vedere “cadaveri” (questo sono) sui piatti di chi mangia con me. Per molti essere vegetariani (e rinunciare così ai “piaceri della tavola”, cosa falsa!), è assurdo. Per me è assurdo l’inverso. E’ incredibile come l’abitudine a fare qualcosa, mangiare carne in questo caso, e la cultura che la nostra società ci impone renda tutto normale e meno tragico.

      • Ciao Angelika,
        il link è rotto. Qui uno funzionante: https://www.youtube.com/watch?v=j6Wn7EEBq-E
        anche io mi sono rivisto molto in questo video… quando dico che avevo 2 anni e mezzo in genere mi chiedono “Ah, ma i tuoi sono vegetariani?”, quando spiego loro che sono l’unico vegetariano in famiglia e che mio padre preoccupatissimo mi sculacciò e iniziò una (breve) guerra (che poi ho vinto) non mi credono “E come fai a ricordartelo che avevi 2 anni e mezzo? Com’è possibile scegliere così piccoli?”… grazie a quel video oggi posso provare che non c’è nulla di inverosimile in questa scelta precoce, può essere “normale” per un bambino curioso fare delle domande e scegliere di non uccidere animali, la naturalezza (e l’innocenza) di quel bambino lo dimostrano. E’ strano al contrario “omologarsi” e non farsi delle domande e fare delle scelte “consapevoli” (cioè documentarsi, scoprire che non esiste “è quello della Lola!”, che le fattorie disegnate sulle confezioni sono solo disegni per illudere noi “bambini” che preferiamo la “pillola rossa” (cit. The Matrix e The Meatrix https://www.youtube.com/watch?v=o_cCDdr1Zik)

        • grazie per il link, l’ho subito postato sulla mia pagina fb; la pillola rossa del resto, ha come effetto collaterale di volerla somministrare anche ad altri… ma non so sia un
          a gentilezza…

  4. Su segnalazione di “Pagina 3”, mi sono avventurata con grande paura in questo testo che condivido in pieno e che sapevo già prima di leggerlo di condividere in pieno. E in realtà è stato un sollievo leggerlo, perchè il pensare umano dell’autrice dà una dimensione accettabile al disumano. Lo umanizza con il suo distacco e con la muta protesta. Ma è questo quello che l’autrice vuole? Sono una di quelle (vegetariana) che non riesce a vederli i video di denuncia sui “maltrattamenti” degli animali, dei bambini, dei vecchi. Non ce la faccio. E neanche i testi che non ti risparmiano proprio nulla sui lager nazisti e non (sono una studiosa dell’ebraismo) perchè privi di uno sguardo umano. Insomma, anche se è un bellissimo testo, non so se può smuovere montagne o la coscenza incallita degli uomini. Finisce che lo leggo io e qualche altro già convinto. Che fare invece per incidere veramente sulle cose?

    • Cara Marisa Ines, cosa vuole questa autrice? Guardare- con la “pillola rossa” che suggerisce Andrea più sopra,- e forse riconoscere che “tutti noi, siamo terra in cui la bestia e il vegetale mangia sempre e solo se stesso” come dice Fernanda un po’ più su. Smuovere le coscienze? Incidere sulle cose? Mah; ma guardare, insieme ad altri, per una volta- io che guardo sempre in solitudine…- è un regalo che mi state facendo. Grazie.

  5. angelika, so che condividere il sotterraneo malessere, già può rendere meno pesante un ruolo. ma, stupita, non trovo la compassione (cum passione). e perchè non può essere contemplata da chi ogni giorno attraversa questi tunnel di disperazione.non sarebbe possibile nè esercitare nè vivere in pace.ovvio.tunnel di disperazione, non certo dell’umano, come si diceva, che ,fa un lavoro stressante. e vabbè, sia, non è bello l’odore di sangue o manipolare interiora;e la fatica di “squartare” ti logora. ma non posso non stare dalla parte di chi subisce la morte, in un macabro gioco di assoluta normalità.bisogna sempre mettersi nella “pelle” di chi, fra un istante, senza averlo chiesto, sarà brutalmente ucciso. di chi , senza averlo voluto, subirà un martirio a tutti gli effetti. il fatto che sia un animale, che non può parlare, ci rende ‘ schiavi di un “umanocentrismo” così arrogante, che arriva a pensare che sia giusto che sia così. invece, una fra i matti,sono convinta che il momento che stiamo vivendo chiede, urla che l’umanità esca dai propri recinti di autoincentratura, e che si cominci a confrontare come parte uguale di ogni anima del cosmo. ed usare questa capacità tecnica, che non è una bravura, ma un dono. e i doni vanno coltivati ed amati e messi a disposizione degli altri…anche se le grida del macello spariscono in un’istante… vorrei proporre questa riflessione, per me è un confronto di scambio , e lo scambio ,è un elemento di crescita per tutti. col cuore in mano. manù

    • Manù cara, già giorni prima di andare al mattatoio, vivo oppressa dall’appuntamento con qualcosa che percepisco come puro orrore. Sarebbe bellissimo se “uscissimo dai recinti dell’autocentratura”: sarebbe un balzo evolutivo come non ne abbiamo mai fatti, ma ci credo molto poco. In fondo, nel sistema naturale, mi sembra che sia il più spietato a vincere, non il più giusto(qualunque cosa voglia dire la parola giusto). Nel mattatoio l’orrore che spazza via gli animali è violento, non mediato; ma finisco sempre per avvertire anche quel sottile, crudelissimo orrore che avvolge pure noi, ancora più crudele perché noi non lo avvertiamo come tale, così come- a volte mi illudo- forse neppure gli animali in stalla di sosta avvertono, fino al momento di non ritorno.

  6. Io sono vegetariana da molti anni. forse non lo sarei diventata se la carne non fosse stata spacciata in grandi quantità attraverso allevamenti orribili, dove agli animali nati e destinati all’uomo vivo delle vite infernali. come spesso accade agli addetti agli allevamenti e ai mattatoi. e tu, Angelika, questo lo descrivi molto molto bene. Il mattatoio come metafora, dove la vittima e il carnefice sono due facce della stessa medaglia e si vede. Un mondo in cui chi scappa dalla carneficina vissuta in prima persona come vittima nel proprio paese, diventa suo malgrado carnefice. Ho vissuto per qualche tempo vicino ad un macellaio. un semplice macellaio che macellava le carni delle bestie che trattava e guardano lui, la sua vita e la sua famiglia, molte cose ho compreso, della vita in generale. della forza del sangue, che ancora svolge l’attività principale in questo nostro mondo umano, che è l’emotività. qualcosa che prima o poi l’uomo deve essere in grado di superare e abbandonare. I moti del sangue, quando il sangue racchiude dolore, non portano bene…
    Grazie per quel che hai scritto

  7. Ho fatto il tuo stesso lavoro per 5 anni, posso solo dirti che sono rimasta molto colpita anche dalla capacità di descrivere le sensazioni interiori, bellissimo! Ho lavorato anche nel macello suino…ho smesso quando sono dovuta passare al bovino semi-industriale, le vacche a terra (e qui ci sarebbe da valutare il discorso del latte, ) la “bassa macelleria”…non ce la facevo più (ma forse ho fatto male, era un lavoro sicuro…)

    • ah, cara collega, tu sai!!! grazie, grazie, grazie! :-)
      …e si, è un lavoro sicuro……………….

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