Egitto o morte – Il desiderio e la strategia

di Marco Alloni

I.

Adesso bisogna decidere da che parte stare. La politologia – penso all’ultimo encomiabile numero di Limes dedicato all’Egitto, ma anche ai vari saggi proposti sull’argomento – spiega il passato.
Ma il futuro lo decide la forza.
E il presente è guerra.

Bisogna decidere da che parte stare. In tutti i sensi. Se stare con una colpa o con l’altra. Se stare con un crimine o con l’altro. Se stare con questi o stare con quelli. Entrambi cattivi.
Perché i buoni non hanno più voce in capitolo. E forse si sono solo illusi, in questi primi due anni e mezzo di rovente primavera, di averla avuta.

Chi sono i buoni? Nella tragica e meravigliosa favola intitolata Rivoluzione egiziana i buoni sono il popolo egiziano. Non importa di quale schieramento, di quale ideologia, di quale partito. Non importa nemmeno di quale fede o orientamento politico. Sono il paradosso di una Storia coniugata grazie a essi e votati all’absentia dalla cronaca.
Ci sono, e c’erano, i buoni islamisti. Ci sono, e c’erano, i buoni laici. E che ci piaccia o no ci sono, e c’erano, i buoni fulul. E persino i buoni militari. E persino i buoni poliziotti.
In questa favola – Rivoluzione egiziana, atto primo secondo e terzo – che si proponeva di cambiare la Storia, esistono infatti due trame e forse addirittura due narratori diversi: da una parte la trama del Desiderio, dall’altra la trama della Strategia.

La prima trama aveva personaggi fiabeschi la cui azione era orientata dalla luce. Alcuni con la barba, altri senza, alcuni con la zebiba e altri senza. Alcuni persuasi che l’Islam fosse la soluzione (Al-Islam huwa al-hal) o l’Islam politico conciliabile con la democrazia, e altri persuasi che la democrazia possa coniugarsi soltanto, perché la verità non esiste, con la laicità.
Stavano e stanno su due fronti opposti. Ma appartengono al popolo. Sono lo stesso popolo.

La seconda trama aveva personaggi meno cristallini. Meno ingenui, meno chimerici, forse più reali. Certamente più propensi alla Realpolitik che al sogno. Certamente più inclini alla Storia che al Mito. La loro azione avveniva nell’ombra, il loro fine non era dichiarato, il loro strumento era la Forza.

Entrambe le trame prevedevano o pretendevano un’agnizione finale. La prima – quella del Desiderio – pretendeva il lieto fine onirico dell’interesse generale. La seconda – quella della Strategia – pretendeva il lieto fine, pragmatico, dell’interesse particolare.
La favola intitolata Rivoluzione egiziana era stata ideata dai primi. Un narratore sconosciuto nella Storia araba, vissuto nelle retrovie di un silenzio rancoroso, aveva inaugurato un nuovo filone letterario: la letteratura dello Stato di diritto. Il suo modello di riferimento era idealmente il Saggio sulla libertà di John Stuart Mill. Il suo orizzonte morale la rappresentatività, l’equipollenza dei poteri e la giustizia sociale. Era il narratore che riportava alla ribalta internazionale, dopo secoli di sudditanza, la dignità egiziana.
A fronte di sessant’anni di letteratura di regime tale nuovo filone si era posto l’ingrato compito di proporre una letteratura del popolo, di dare voce a tutte le correnti letterarie tacitate per decenni, di essere espressione di una collettività negletta e trascurata.
Nel suo soprassalto creativo aveva portato alla luce un intero firmamento di poetiche e stili: il nasserismo, il salafismo, il liberalismo, il comunismo, il fratellismo. Sorgevano, dalle viscere del Paese, ben più radicate di quelle che la sociologia chiama lo Stato profondo, scuole e orientamenti fra i più disparati: il gruppo 6 Aprile, la Rivoluzione continua, il movimento Kefeya, il movimento Tamarrud, la costellazione dei partiti salafiti, le diverse diramazioni della Fratellanza musulmana, i gruppi dissidenti, il neo-Wafd, il partito Al-Ghad e decine di altri gruppi.
Sembrava una nuova epoca. Persino i manifesti avevano risonanze insolite. “Muslim masihy id wahda” (Musulmani e Cristiani una cosa sola). “El-gheish wal-shaab id wahda” (L’esercito e il popolo una cosa sola). L’unica voce bandita dai nuovi vocabolari era quella che aveva cadenzato le opere della sudditanza: “Diktaturyya”.

Poi la Storia è andata come è andata. La trama del Desiderio è diventata un sottotesto e la trama della Strategia ha preso il sopravvento. I critici più navigati, e gli analisti più spregiudicati, hanno potuto pontificare, con rassicurante spirito di Sisifo: “Il popolo era solo un’illusione. A manovrare la Storia sono i giochi di potere”. Lo sappiamo. Ma non è detto che la partita sia alla sua ultima mano.

Un anno e mezzo di interregno militare, con il maresciallo Mohammad Hussein Tantawy a reggere le fila di una replica spuria del faraonismo mubarakiano, ha affossato le aspirazioni popolari. E un anno di governo Morsi tradito le istanze della rivoluzione. La favola Rivoluzione egiziana sembra tornata sugli scaffali della letteratura infantile, i personaggi del sogno rientrati nel sogno e i signori della Realpolitik riapparsi a reggere le redini del racconto.
Finché quel libro magico che aveva incantato tutti – anche le diplomazie occidentali, anche il musulmano Barack Obama, anche la baronessa Ashton – si è improvvisamente spezzato in due parti. E tutti i personaggi che avevano animato la favola del Desiderio hanno dovuto decidere… da che parte stare.

Perché in mezzo non rimaneva più spazio, se non per la codardia e la sterilità del pacifismo. Piacesse o non piacesse ai media internazionali e alla baronessa londinese, piacesse o non piacesse al paladino della diplomazia ad oltranza nonché premio Nobel della Pace Mohammad El-Baradei, piacesse o non piacesse al popolo laico moderato o al popolo islamista moderato, piaccia o non piaccia, oggi, a Emma Bonino e al gandhismo da salotto, la favola del Desiderio era stata cancellata.

Al suo posto – con gongolante soddisfazione dei politologi – sembrava tornata in auge la vecchia favola, risaputa e indomabile, della Strategia e del Male. Una favola che è riemersa nella sua inequivoca perentorietà malgrado la volontà della porzione maggioritaria del popolo a tutto aspirasse tranne che a questa delusione. Perché i nuovi personaggi sono ancora deboli, disorganizzati, dilettanteschi. E perché del loro Desiderio importa solo a loro stessi. Gli interessi in gioco nella favola della Strategia ovunque mirano tranne che alla democrazia, e chiunque sono inclini a sostenere tranne il popolo.

Ma il fatto bizzarro è che i luminari della politologia, che potremmo chiamare i novelli filologi della Realpolitik, a loro volta sembrano rassegnarsi a tutto tranne all’idea che questa nuova entità chiamata popolo rivoluzionario, o popolo di Tahrir, o semplicemente popolo egiziano, sia e continuerà a essere – malgrado le malizie dell’empirismo e i trionfalismi del senno di poi – non già un semplice depositario della chimera o il risibile illuso della favola del Desiderio, ma un nuovo protagonista nella Storia mediorientale.

I politologi non fanno sconti. Non cedono al sentimento. Figuriamoci, adusi alla speculazione come sono, se cadono nella trappola della passione. L’Egitto lo guardano dal satellite, i più arditi dal balcone del Semiramis.
E gli umori della piazza, la sottile metamorfosi antropologica subita e voluta dagli egiziani, li relegano tra la concessioni al romanticismo. Eppure, di fronte al mutarsi della favola in tragedia, pur lesti nell’efferatezza della filippica, non spiegano per quale indicibile ragione il Desiderio del popolo dovrebbe sottrarsi alla tentazione della violenza, all’aut aut fra una scelta e il suo contrario.

“I militari sono un ritorno al passato, alla reazione, all’ancièn régime”. Benissimo, inchiniamoci alla lucidità delle categorie. “La piazza è composta da dilettanti disorganizzati, correnti divise su tutto e contestatori senza pathos propositivo”. Benissimo, pieghiamoci al disincanto analitico. “I Fratelli musulmani sono stati democraticamente eletti ma hanno rivelato una plumbea vocazione dittatoriale”. Benissimo, accogliamo la formula della resa.
Ma allora? In questa tabula rasa delle tentazioni impronunciabili, a parte gli alieni, chi si salva?

Questo la politologia non lo dice.
Perché la logica dell’analisi strategica, la filologia e forse la filosofia della Realpolitik, prevede che a partire da una determinata impasse l’ineluttabilità della scelta, la drammaticità morale ed esistenziale del dovere di schierarsi – e peggio ancora l’inesorabile aut aut fra una colpa e l’altra e una violenza e l’altra, fra un cattivo e l’altro e un Male e l’altro – non rientri nelle sue competenze. Sopravanzi la sua ragion d’essere.
Rigore questo che, fatti i debiti distinguo, equivale a quel perbenismo di maniera secondo cui l’engagement di un Jean-Paul Sartre è prima un atteggiamento politico che umano. Quando è vero invece – se l’antropologia e la cultura hanno ancora voce in capitolo in questo tentennamento della Storia – che il popolo di Tahrir è molto prima un popolo umano che un popolo politico.
E un popolo umano, semplicemente, di fronte al proprio destino non può non schierarsi.

II.

Certo, questa favola spezzata in due – militari da una parte e islamisti dall’altra – si può anche decidere di non volerla più leggere, e di attendere che qualcuno continui a scriverla al posto nostro. Si può anche decidere, come il noble signor El-Baradei, che sia un libro diseducativo che vada chiuso prima di esserne contaminati.
Si può anche decidere che non rappresenti affatto l’unico libro possibile ma la variante decadente della versione classica degli eroi positivi, e che tra una trincea e l’altra vada innalzata la bandiera bianca del dissidente: il dialogo e la diplomazia come araldi della Storia bella.
Si può poi anche scoprire che questa che alcuni chiamano “codardia”, e altri “disfattismo”, e altri ancora “tradimento del popolo”, sia viceversa celebrata dalle cancellerie e dai media occidentali come spirito democratico. Come vocazione alla pace, come intransigenza democratica. E che il Bene possa trionfare nella sospensione della Storia.

Ma allora delle due l’una: o la legione dei dialettici ci spiega come sia possibile dialogare quando – ecco l’impasse impronunciabile, ecco l’insopportabile tentennamento della Storia – le strategie in gioco hanno sopraffatto la logica del Desiderio, e alle profferte di dialogo avvicendato de facto la logica delle armi; oppure ci spiega per quale ragione all’impossibilità di un dialogo bisognerebbe rispondere con l’utopia dell’Attendismo, gli strumenti di una Diplomazia inservibile e gli alchimismi che trasmutano la pusillanimità in Etica.

Altrimenti saremmo a un altro romanzo ancora. Che chiamare d’appendice è persino lusinghiero. Titolo: Il sesso degli angeli. Autore: L’Integerrimo. Filone: L’arte per l’arte.
Lo stesso romanzo in cui, a un determinato capitolo particolarmente toccante, si legge:
“Qualora Hitler bombardasse Londra, si consiglia a Sir Churchill di inviargli un aeroplanino di carta con un fermo rimprovero di non farlo mai più e la preghiera di cedere a miti consigli. Eventualmente chiosando con un perentorio: Uffa!”

III.

A meno che (e siamo alle solite) se le forze di polizia americane sgombrano Occupy Wall Street con la violenza va bene; se Erdogan sgombera piazza Taksim con altrettanza violenza va bene; se per deporre Gheddafi si usano le contraeree francesi e si proteggono i ribelli dal cielo con gli F14 va bene; se si annienta Al-Qaeda mandando ossimoriche missioni armate di pace in Afghanistan va bene; se si spodesta Saddam Hussein con l’indefettibile pretesto di inesistenti armi di distruzione di massa, mandando un intero Paese al macero, va bene; ma se la violenza è perpetrata dall’esercito egiziano non va più bene.

Come a dire: o le bombe sono così intelligenti che solo gli intelligenti si rendono conto che sono stupide, o l’opinione pubblica internazionale è così stupida che solo quando la stupidità è appannaggio degli occidentali va chiamata intelligenza. E soltanto quando la violenza è appannaggio degli arabi va chiamata violenza.
Qualcuno potrebbe suggerire: a quale pièce dell’assurdo pensate di farci assistere?

[…]

*

Da “Il desiderio e la strategia”, il primo capitolo di Egitto o morte: il golpe che non era un golpe e la coscienza sporca dell’Occidente (2013), un e-book di Marco Alloni (scaricabile qui (bookrepublic) o qui (Amazon)).

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3 Commenti

  1. Un titolo con dentro “la coscienza sporca dell’Occidente” o qualcosa di analogo è garanzoa per un tot di popolarità in più

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Renata Morresi scrive poesia e saggistica, e traduce. In poesia ha pubblicato le raccolte Terzo paesaggio (Aragno, 2019), Bagnanti (Perrone 2013), La signora W. (Camera verde 2013), Cuore comune (peQuod 2010); altri testi sono apparsi su antologie e riviste, anche in traduzione inglese, francese e spagnola. Nel 2014 ha vinto il premio Marazza per la prima traduzione italiana di Rachel Blau DuPlessis (Dieci bozze, Vydia 2012) e nel 2015 il premio del Ministero dei Beni Culturali per la traduzione di poeti americani moderni e post-moderni. Cura la collana di poesia “Lacustrine” per Arcipelago Itaca Edizioni. E' ricercatrice di letteratura anglo-americana all'università di Padova.
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