Mosche volanti. Introduzione ai film di John Price

di Rinaldo Censi

«Penso sia stata la migliore proiezione che io abbia mai avuto. I proiettori 35mm erano eccezionali». John Price non l’ho mai incontrato. Mi è semplicemente capitato di vedere alcuni dei suoi film. Ho trovato il suo indirizzo email. Gli ho scritto e ne è nata una bella corrispondenza. Vive in Canada, è un filmmaker e realizza film dal 1986. Oltre a questo, offre la sua competenza in fatto di ottiche ad altri cineasti, curando la “fotografia” dei loro film. Da quanto mi scrive, tiene anche corsi di “Cinematography” presso l’Humber College di Toronto e si occupa di danza e opera, realizzando e curando proiezioni di film legati a questi ambiti di ricerca. I suoi film sono stati da poco proiettati all’interno del “Media City Experimental Film and Video Festival”, manifestazione che si svolge tra Detroit e Windsor, Canada. Mi sembra una persona soddisfatta di quello che fa. E lo percepisco proprio da quella frase sibillina che mi ha inviato, capace di tratteggiare il soggetto più di qualsiasi curriculum vitae. Il perché è presto detto. La brillantezza e la qualità dei proiettori ha reso giustizia ai film. Il numero di spettatori non è certo secondario, ma la felicità arriva quando finalmente hai modo di percepire il tuo lavoro, lo sforzo, ripagato e “visibile” lì sullo schermo. Del resto, il tono intimo dei film che egli realizza non richiama certo le folle oceaniche di un blockbuster. Price realizza semplici home movies, “documentari sperimentali”, come ama definirli, film come pagine di un diario ininterrotto. E mi sembra di cogliere una specie di consapevolezza zen nel suo approccio. Senza l’ossessione dei numeri e delle cifre. Solo la gioia di fare le cose in pura perdita, senza aspettarsi nulla, nella convinzione della fugacità di ogni cosa, in primis dei materiali che si utilizzano: strisce di celluloide. Un atteggiamento che apparteneva a Luis Buñuel, riscontrabile in una famosa intervista con Max Aub. Giri film per lasciare un segno? Risposta: «Le pellicole sono fatte di materiale deperibile. Noialtri, fra cinquant’anni, certamente tutti a crapa pelata, ma quelle là saranno ridotte in polvere». E se qualcuno trovasse il riferimento troppo colto, potremmo indicargli Jacques Tourneur. Gli domandano quale posto avrà nella storia del cinema. E lui risponde, poco prima di morire: «Nessuno. Non c’è nulla di più evanescente di un’immagine in celluloide.». C’è un fondo ironico in tutto questo. La consapevolezza incontra la modestia. Per quanto mi riguarda, questo è un buon metro di giudizio, quando si tratta di decidere che persone frequentare.

Tempo fa, informandomi di aver spedito un dvd contenente una selezione dei suoi film, ci ha tenuto a sottolineare il suo disappunto, la sua frustrazione. Insomma, è un peccato vederli così, in digitale, su un computer. Ma così vanno le cose, concludeva, mantenendo i piedi per terra, a contatto con la realtà. E vedendoli sul laptop, o sullo schermo del televisore, si comprende facilmente cosa vada perso, rispetto ad una proiezione in sala. Perché John Price è un alchimista dell’emulsione. Un negromante che lavora con pellicola scaduta, e si occupa personalmente dei bagni di sviluppo della pellicola, variando e studiando diverse soluzioni di resa della grana, della superficie impressionata. Nei suoi film, simili per misura a piccoli haiku, il materiale utilizzato è il vero protagonista, e campeggia in bella vista nei credits, insieme alle persone che vengono filmate, spesso i figli.

Qual è dunque il soggetto dei suoi film? Tipologia di pellicola, formati, cineprese, accorgimenti ottici e di sviluppo: l’atto creativo passa attraverso questi materiali. Si modifica grazie a loro. Che si filmino le cascate del Niagara (View of the Falls from the Canadian Side, 2006), o un neonato immerso nel sonno (il figlio Charlie in ten thousand dreams, 2004), il mare nei suoi diversi stati, nei momenti ricreativi (Sea Series #1-#13, 2008-2013), un bimbo che gioca con un fucile giocattolo e un cacciatore in uno stagno, seduto in una barca, pronto a sparare a qualche volatile (gun/play, 2006) le immagini che appariranno sullo schermo si materializzano come resto cristallizzato, emerso dallo stato della pellicola utilizzata e dall’azione sui materiali, in fase di sviluppo e stampa. Il film è, insomma, il risultato di questa tensione ottico-chimica. Un gesto che incrocia il fare e il “trovare”.

Senza troupe o maestranze, John Price filma con una cinepresa 16mm o Super 16. Utilizza strumenti la cui meccanica permetta, volendo, di riavvolgere il girato per sovrapporvi altre immagini (quasi certamente delle cineprese Bolex). Filma, sviluppa, modifica i materiali sul banco ottico così come un artista si districa con il proprio materiale. E la tensione è tutta lì, visibile in ogni fotogramma che scorre e viene trascinato dalla perfetta meccanica ad orologeria dei proiettori. L’effetto è spiazzante. Il gioco della sovrimpressione, lo scorrimento rallentato, il codice numerico della pellicola e le perforazioni visibili, le macchie, gli aloni, le scie colorate e i flash improvvisi, gli atomi ingranditi e visibili, l’immagine che svanisce improvvisamente, instabile, tutto questo crea davvero una fisicità della superficie. Tanto che ogni evento ottico-chimico sembra affiorare simile a un disturbo della vista, simile a quel fenomeno che l’ottica fisiologica chiama “mosca volante” (miodesopsia, un disturbo della vista dovuto alla non perfetta trasparenza del corpo vitreo, che si ritrova a dover gestire ombre mobili, macchie). Quando gli chiedo come definirebbe il suo lavoro, mi risponde che lo considera una forma di realismo, ma non chiuso in uno script. Una rappresentazione della realtà. Ma il processo di lavorazione e i materiali connessi rendono il tutto più impressionista, con un lato astratto. Un lirismo della materia, mi viene da rispondergli. Mi trattengo perché non vorrei sembrare troppo poetico (eppure, molti anni fa, Franz Kafka definiva così il cinema, a Gustav Janouch: «Le corde della lira dei poeti moderni sono strisce senza fine di celluloide»).

Come molti filmmaker a lui simili, John Price lavora ai margini dei grandi Studios e della produzione. E ne è cosciente. Eppure, c’è un gesto che lo distingue dagli altri. Dopo avere sviluppato il film, lo gonfia a 35mm, ne modifica l’aspetto con un salto di scala. In un’email successiva gliene chiedo conto. La sua risposta non tarda ad arrivare, geniale quanto pragmatica. «I proiettori 35mm hanno lampade più brillanti e possono cogliere meglio i dettagli dei materiali – la texture risulta più accentuata». Ma c’è anche un altro motivo: fare in modo che dei veri home movies possano potenzialmente condividere proiettori e spazi utilizzati per film commerciali come Rambo e Spiderman. «Credo che sia un gesto sovversivo – mi dice. L’idea mi solletica».

Mentre leggo la sua risposta, penso che ci sia qualcosa di umoristico e utopico in quello che afferma. E credo che anche lui lo sappia. Riflette sul momento cruciale legato al destino dei formati analogici. Mi scrive che la Kodak ha smesso di produrre pellicola reversibile a colori, in grado di sviluppare un “positivo” senza passare dal negativo e successiva stampa. A pensarci bene, i suoi film, così pieni di vita, simili ad appunti filmati, piccole elegie in grado di condensare in una sovrimpressione diversi istanti della vita di persone care, o di sconosciuti, materializzano pure una zona limite, che non riguarda solo il litorale, quello spazio liminare tra terra ferma e mondo acquatico (il “giardino”, il mare, i bambini, una costante nei suoi film, qualcosa che mi ricorda il titolo di un film di Stan Brakhage, A Child’s Garden and the Serious Sea), ma incute anche una sensazione di caducità e di perdita, qualcosa come un senso di rovina differito, stabilizzato chimicamente. Strana conseguenza: più la proiezione dei suoi film raggiungerà il massimale qualitativo, più noi noteremo quell’altra vita sottostante, pellicolare, che affiora e si espone alla luce in tutta la sua fragilità. E penso a quello che mi dicevano qualche mese fa Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, alle prese con il loro film sul fascismo, Pays Barbare. L’angoscia che sale vedendo e studiando quelle immagini è raddoppiata dal fatto di sapere che questo sarà l’ultimo film che farai tenendo tra le mani una striscia di pellicola. Perché non c’è nulla di più evanescente di un’immagine in celluloide. E ogni filmmaker, a modo suo, fa i conti con questa realtà. 

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