Drei Socci Dry

dry_martini

Silvan 

io vo come colui ch’è fuor di vita,
che pare, a chi lo sguarda, ch’omo sia
fatto di rame o di pietra o di legno
che si conduca solo per maestria
Cavalcanti

Segato in due.

Scisso in sezioni cubiche.

Sparito.

 

In un cerchio di fuoco, senza scarpe

svelando al primo colpo le mie carte

storcevo un cucchiaino

(l’orologio schiacciato in un pestello)

con un buco vistoso nel calzino.

Ti ho amato da una sedia

in bilico, precario su uno zampo,

risvegliandomi al tre

io non in me.

 

Ti ho amato in trance:

un automa di coccio

ciaccio

che fa un’avance.

 

*

 

Verace

 

La verità va preparata bene

che può sempre servire

un pezzo un altro pezzo avanza un pezzo

sembra che tutto funzioni ora.

 

Senti? Odoro di libri

nuovi, di figurine

di tropical di puffo

di trota salmonata

di pancetta coppata.

 

Odori non amari

molto rari

odori quasi veri

quasi quasi.

 

Sono un piccione tossico

dall’intestino fragile

sporco, da centro storico,

acido grigio e gracile.

 

Vivi tu la mia vita

limane i bordi e i mali

a me, la rara bestia

cui cresce il becco prima delle ali.

 

Prendi il mio ruolo e questo

posto da morto nato

rendilo vivo e vero

attore è l’anagramma di teatro.

 

Avrei voluto avere

lingua sottile per il dispiacere

un tantino ricurva

che mi serve per bere

lingua che la sa lunga

utile per tacere

e non che sappia solo

dare l’ombra ad un corpo

trarre niente da cose.

 

Margherita

poi Rosalinda e Viola:

reciti ancora una parte da fiore.

 

Da petali secchi sai fare rose.

 

*

 

Grasso

 

Allegria. Allegria.

Allè allè allè grrrrrrrrrrrrrrrrr-

ia.

 

Riepilogando: serve il fluido glaciale

(pazienza per i crampi) e le fialette

puzzolenti:

il massimo per spargere

le rogne senza grane

 

e il torciglione di merda

col sonaglio, le caramelle

mooolto ma molto buone

all’aglio:

succhiarle piano

senza masticare

per farsele durare

 

e la scheggia di lana

di vetro che si chiama

la starnutina

oppure il gratta-gratta,

il meglio sul mercato per prodursi

pruriti vari ai corpi.

 

Le finte cincingomme

le marlboro fasulle

munite di tagliola

che stacca una falange.

Chiodo di gomma che strapassa un dito.

 

uno che si rialza

che gli hanno dato un sacco

di botte con la clava

che ride e dice non

mi sono fatto niente

uno che si rialza

uno che dice non

 

uno che si riaggiusta

si pettina si dà

una spolveratina

si pizzica le guance

ritorna come prima

uno che dice non

mi sono fatto niente

uno che dice non

uno che dice niente

 

Nel vario armamentario

del circo dello strazio il requisito

necessario è che spruzzi

o dia la scossa

ogni cosa.

 

Carne professionale

siamo del carnevale

del finto farsi male la ferita

che maschera la piaga.

 

*

 

I testi sono tratti da Luigi Socci,  Il rovescio del dolore, uscito in questi giorni per la collana La Punta della Lingua, presso i tipi di Italic pequod, Ancona, 2013. Una bella recensione al libro è qui.

 

 

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23 Commenti

  1. Come sempre i testi di Luigi s’illuminano di loro stessi, della carica ludica che si portano dietro con un retrogusto spietato di realtà che ci spiazza quando, dietro il sorriso compiaciuto dell’ennesimo calembour, ci agghiaccia la violenza di quest’epoca tristemente impegnata a nascondere la piaga purulenta sotto il belletto dello show must go on (until the end).
    Tagliente il finale: “siamo del carnevale / del finto farsi male la ferita / che maschera la piaga”.
    Complimenti, Luigi!

    mdp

  2. Libro lungamente Meditato
    Valore altamente Garantito
    Leggero asciutto e Tagliente
    Socci oh lettore ha Mordente

  3. un grazie di cuore a renata per la postatura, a mdp per la bella parolatura e ad andrea per la quartinatura (molto ben intonata invero).
    grazie anche per la versione con doppia spaziatura (errata) di tutti i testi che dà più aria al tutto.
    una piccola nota esplicativa per il secondo testo che ha anche una dedica (a famosa attrice) che così dovrebbe recitare:
    Per Lucia, nel ruolo di Margherita in un allestimento di “Il maestro e Margherita”, di Rosalinda in “Pene d’amor perduto” e scelta come Viola in un “La dodicesima notte” mai realizzato.

    • è che wordpress quando vede una poesia capisce che è difficile e la spaziatura la fa subito subito così

      la dedica, per esattezza filologica, non è in epigrafe ma in nota

      grazie a te luigi in the sky with diamonds, adesso vogliamo pure l’altro (libro)

    • OCCHIO ATTENTO ALLA STESURA
      ORECCHIO TESO ALLA STORTURA
      TERSA PERIZIA PROSODIA LEGGERA
      MANIERA UNICA A MEMORIA FUTURA !

  4. Perfettamente in linea con quanto ampiamente argomentato nel precedente post sulla poesia di ricerca e i suoi gruppi e paragruppi, questo lavoro si ritaglia il suo soppesato spazio di consistente coesistenza.

  5. Ineguagliabile fromboliere, Socci. Compatta questa scrittura sorvegliatissima, veramente robusta. Vi si intravede il gesto e la voce.

  6. L’errore sta quasi sempre nella vanità di scegliersi un esergo per indicare un nume tutelare e quasi sempre ci si trova a citare un poeta che denuncia in anticipo quanto gli si è inferiori. E poi il lettore cerca invano la stessa tenuta, la stessa intensità, lo stesso fulgore. E può star certo che, rispetto a Cavalcanti, non lo trova mai.

  7. V’era un intento parodistico nella relazione esergo-testicolo mio, ma se il dottor a.l. non se ne è avveduto sarà di certo colpa mia

    • Al dottor a. l. tutta quest’ironia, questi intenti parodistici, questi funambolici ammiccamenti all’ipotesto e al paratesto, che velano per svelare, questi falsetti sulla voce di un auctor, fanno l’impressione di quei turisti che si fanno fotografare vicino ad un capolavoro della scultura imitandone goffamente la posa. Indiscutibile la profondità semantica del gesto, inesauribile la vertigine dell’ironia. Ma vuoi mettere il sollievo di quando si levano e il dott. a.l. può tornare a guardarsi la statua…

  8. a.l., ho l’impressione che lei sbagli sia la stoccata che il bersaglio: l’ironia di Socci non è rivolta alla sua statua, a Cavalcanti – che serve qui semmai più da contrappunto alto all’improbabile ‘maestro’ Silvan e al povero fantoccio del testo – , è indirizzata piuttosto a colui che parla, al soggetto stesso, che incarna, per rimanere nella sua metafora, il ridicolo ingenuo imitatore improvvisato. Che non insegue, naturalmente, l’ideale, ma solo la risata e l’attenzione dei presenti, il riconoscimento degli altri (come è accaduto, una volta o l’altra, a noi tutti, temo). L’unico amore cui quel “turista” della vita aspira passa per il disprezzo di sé: trovo sia questa l’amatissima ironia.
    Questo autore può anche non piacerle, figuriamoci, ma scambiarlo per un Massimo Boldi è un grave errore.

    • Gentile r. morresi, mi creda: capisco le ironie e anche le parodie. E quando le capisco mi stufano subito. Davvero pensa che io pensassi ad una parodia DI Cavalcanti? So bene che siffatti turisti, per rimanere nella metafora, fanno così senza prendersi sul serio e, anzi, PER esibire il non prendersi sul serio. La mia perplessità riguarda, per l’appunto, la scelta dell’ “alto contrappunto”, come lo chiama lei. Di per sé le poesie di Socci non mi dispiacciono. Ma Cavalcanti come contrappunto è troppo vistoso, è troppo Cavalcanti. Non si può cavalcarlo impunemente.

  9. Capisco. Continuo a sostenere che l’autore non abbia affatto sbagliato a citare Guido Cavalcanti (anche-se/proprio-perché così eminente) piuttosto che, che so io, Francesco Bracciolini, ma va bene.

  10. Gli ultimi commenti mi hanno venire in mente la situazione in cui Tizio racconta a Caio una barzelletta e Caio non ride. O Caio non ha senso dell’umorismo, non la capisce (la barzelletta), oppure è la barzelletta che non fa ridere.

    Ironicamente, più uno conosce barzellette, meno si troverà a ridere di barzellette trite, e più spesso si troverà a sentirsi accusato di non avere senso dell’umorismo, di non capire le barzellette.

    Mutatis mutandis, ho l’impressione che qualcosa di simile sia accaduto qui sopra.

  11. Beh, certo, uno che sente troppe barzellette forse ha bisogno di un po’ di Euripide. Mi chiedo però dov’è che quell’uno senta così tanta poesia tra l’assurdo lieve, il post-moderno controdolore e lo spoken word come quella di Luigi Socci.

  12. No, non dico che uno senta il bisogno di Euripide, ma che magari si accorge che le battute di Brignano non sono un gran che. Fuor di metafora (e di iperbole), il punto è che più uno apprezza e conosce una certa forma espressiva, più uno diventa esigente, affinandone lo spirito critico, e questo senza necessariamente avere un rigetto.

    Per quanto riguarda la tua domanda – non so fino a che punto retorica – Nazione Indiana mi sembra un buon punto di partenza.

  13. Mi limitai ad avvertire un dislivello tra l’esergo e l’ergo. Mi si fece notare ch’era prassi d’ ironia, ch’era una parodia. Ammisi a forza di averlo notato, ma che, nondimeno, sembrava insulso il gioco, visto da parte dell’ergo, e uno spreco (dall’alto dell’esergo). Ora mi si rinfaccia (sarò anch’io permaloso) di non aver vagliato l’ ‘assurdo lieve’, ‘il post-moderno controdolore’, lo ‘spoken word’ che circola nell’ergo e a quelli come me (quale minaccia) si agita Euripide, eccelso buen retiro. Che dire? Sia dunque Euripide per tutti gli autoesclusi (ottusi) dall’eterno banchetto postmoderno dell’ironia.

    Ma ‘st’ ironia, poi, che salta fuori così come la nebbia…

    PEPPINO: E dove sta questa nebbia?
    ToTò: Ma scusa: come disse Mezzacapa? Quando c’è la nebbia, non si vede. La nebbia c’è e non si vede.

    Insomma, va a finire che c’è sempre. E uno (prendi me) ci sbatte contro.

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